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sabato 31 maggio 2014

2014 L19: A varanda do frangipani - Mia Couto


Depois da Independência de Portugal, em 1975, Moçambique enfrentou quase duas décadas de conflitos. O período foi marcado pela oposição entre os antigos guerrilheiros anticolonialistas da Frelimo (que tomaram o poder e tentaram implantar o socialismo no país) e o grupo de orientação conservadora Renamo (alinhado a Rodésia e África do Sul). A história de A varanda do frangipani se passa vinte anos após a Independência, depois dos acordos de paz de 1992.
O romance é narrado pelo carpinteiro Ermelindo Mucanga, que morreu às vésperas da Independência, quando trabalhava nas obras de restauro da Fortaleza de S. Nicolau, onde funciona um asilo para velhos. Ele é um "xipoco", um fantasma que vive numa cova sob a árvore de frangipani na varanda da fortaleza colonial.
As autoridades do país querem transformar Mucanga em herói nacional, mas ele pretende, ao contrário, morrer definitivamente. Para tanto, precisa "remorrer". Então, seguindo conselho de seu pangolim (uma espécie de tamanduá africano), encarna no inspetor de polícia Izidine Naíta, que está a caminho da Fortaleza para investigar a morte do diretor.
Mais de vinte anos depois da independência de Moçambique, quando a guerra civil já arrefeceu, a Fortaleza é um lugar em que convergem heranças, memórias e contradições de um país novo e ao mesmo tempo profundamente ligado às tradições e aos mitos ancestrais. Da sua varanda se pode enxergar o horizonte. O romance de Mia Couto esboça, assim, uma saída utópica para um país em reconstrução.

Mi è costato molto arrivare alla fine. Piaciuto meno del precedente, ma è utile per capire un mondo diverso e una maniera molto diversa di pensare...

sabato 24 maggio 2014

Dilemma etico: Ok il prezzo è giusto?



La storia, vera, mi è stata raccontata da un miocaro amico, e si è svolta in un paese qui vicino. In questo paese esistono regole arcaiche simili alle nostre faide, con la differenza che, pagando il giusto prezzo, si possono estinguere o addirittura evitare che inizino.

Il clima cambia, aumenta la siccità, le terre buone si riducono e, come diceva Celentano, la dove c’era l’erba… ecco in questo caso la dove c’è la foresta si rischia, a forza di tagliarla per produrre carbone, di degradare la terra e renderla poco fertile e poi sterile.

La comunità che vive su queste magre risorse ha capito che non può permettersi troppi scherzi, per cui proteggono la foresta. Ma alcuni vicini, con qualche legame di parentela clanica, si sentono autorizzati a venire a tagliar legna per fare carbone. Sono poveri in canna, se non portano a casa qualche spicciolo dalla vendita del suddetto, non hanno altre strategie di sopravvivenza.

Le istituzioni non esistono, quindi meglio non farci conto.

La comunità si rende conto che questi tagli rischiano di provocare seri problemi a tutti loro. Da quelle parti la “famine”, carestia, sanno sulla loro pelle cosa significhi e non possono scherzarci sopra.

Un giorno avvisano i giovani tagliatori che la devono smettere.

Quelli continuano, non vedono alternative.

Arriva il secondo avvertimento, senza esito.

E poi l’ultimo, lo stesso senza risposta alcuna.

Forse immaginate dove vi sto portando. Io non riesco a togliermelo dalla testa.

Quelli della comunità chiamano gli anziani dell’altra comunità da dove vengono i giovani, e chiedono il prezzo delle loro vite. Fatto questo fanno una colletta e tutti partecipano, uomini, donne, vecchi e giovani.

Una volta raccolta la somma, vanno lì e fanno fuori i tagliatori di alberi. E mandano i soldi pattuiti ai vecchi della comunità.

Il caso è chiuso, niente vendetta. Ok, il prezzo è giusto?

Se fossimo stati tirati in ballo noi a dare un consiglio…. Cosa avremmo fatto?

venerdì 23 maggio 2014

Considerazioni del venerdì



Da metà degli anni 80 in avanti, una serie di movimenti sociali e ONG del sud del mondo hanno riportato all’attenzione generale del mondo la questione agraria, cioè la pessima distribuzione delle terre fra pochi che ne controllano un’enormità e moltissimi che ne controllano poca o non ne hanno affatto.

Questo obbligò nuovi governi democratici, in Brasile come nelle Filippine, a riaprire l’eterno dossier della riforma agraria. Seguendo questi esempi iniziali, e grazie a un’organizzazione di secondo livello che aveva portato i movimenti sociali latinoamericani a riunirsi in una coalizione mondiale, La Via Campesina, altri paesi riconobbero l’esistenza di problemi simili anche da loro, da cui la necessità di intervenire. L’arrivo alla democrazia da parte del Sud Africa, uscito da secoli di tenebre, portò anche lì in primo piano la questione agraria e così fu altrove.

I movimenti sociali non sono governo, per cui il loro compito era quello di fare pressione e stimolare i governi ad agire. Quasi trent’anni dopo i risultati sono stati pochi ed insoddisfacenti. Aaltre forze sono intervenute per redirezionare la pressione sulle questioni legate alla terra verso nuove strade, una volta di più controllate dal nord del mondo. Fu così che la centralità del mercato come ottimizzatore della distribuzione della terra venne teorizzata e perseguita da parte degli esperti del nord, accompagnati dalle istituzioni finanziarie più potenti dei governi stessi. Ogni qualvolta emergeva il problema a livello nazionale, grazie alle lotte dei movimenti e forze locali, arrivavano i pompieri a spegnere l’incendio grazie al pacchetto “Riforme agrarie attraverso il mercato”. Non si ricorda una sola di queste esperienze che abbia funzionato; credo sia permesso, a distanza di anni, interrogarsi sul senso profondo di quelle proposte, se realmente, e ingenuamente, pensavano di favorire una distribuzione più equitativa della terra attraverso un meccanismo da sempre manipolato e controllato dalle stesse grandi forze che poi controllano anche le risorse naturali, o se si era trattato di un disegno volto a spegnere sul nascere gli ardori di chi voleva cambiare qualcosa partendo dal basso.

Uscita di scena (per l’ennesima volta) la parola riforma agraria, si pensava che la questione agraria fosse stata risolta. La strategia dello struzzo però non funzionò. Da cent’anni la questione agraria (1905, Kautsky) rovina le notti di molti benpensanti del nord. Prima fu la rivoluzione e riforma agraria avvenute in Russia ed in Messico, con la paura del contagio bolscevico. Poi fu il periodo di Cuba, che riportò alla luce la vecchia dottrina Monroe per cui l’aver osato sfidare lo zio Sam a pochi kilometri da casa era un errore da non commettere due volte (e per questo i cubani pagano ancora oggi). Quando furono i movimenti sociali a riportarla in auge, gli oppositori storici confusero il soggetto con l’oggetto. Cercarono di controllare il soggetto (Movimenti dei senza terra), ma non l’oggetto, la diseguale spartizione della terra.

Risultato, il tema terra è tornato prepotentemente alla ribalta, per le stesse cause di sempre: una ripartizione ineguale, forte concentrazione nelle mani di pochi e instituzioni così deboli (grazie alla distruzione sistematica imposta dai programmi di aggiustamento strutturale) che non avevano più nessuna capacità di controllare cosa succedeva a casa loro.

Le pressioni di questi ultimi anni, procedenti da una miriade di fonti diverse, dagli indigeni, ai sempiterni senzaterra, pescatori artigianali, comunità forestali etc. etc. ha consigliato un ulteriore cambio di strategia. Noi avevamo provato a proporre, nella nostra ingenuità, un approccio basato sul dialogo ed il confronto, con una gradualità nelle azioni supportate da una moral e technical suasion che le agenzie delle nazioni unite potrebbero esercitare. Ma questo significava democratizzare il dibattito, riconoscere un diritto alle forze sociali di far parte dell’arena di dialogo e negoziazione e, al contrario, ricacciare i grossi conglomerati finanziari nel loro angolo. Siamo stati degli ingenui, lo ammetto, ed abbiamo sottostimato le capacità di reazione. Risultato, dal cappello magico è uscita una nuova strategia: basta mercato della terra ma “buona governanza”. Un concetto così vago da poter esser stirato da tutte le parti, l’importante poi che chi conducesse la danza conoscesse i passi da compiere.

Che esista un problema di “governanza” nel mondo, è indubitabile. Ancor di più quando si parla di risorse naturali, terra, acqua etc. Penso alla Gran Bretagna e al sostanziale fallimento della riforma fondiaria nelle Highlands della Scozia, penso a come sono trattati i Lapponi nelle loro terre nel nord dell’Europa, oppure più vicino a noi la questione dell’acqua in Italia o le terre occupate dalla mafia e difficilmente rimesse in produzione da piccoli gruppi locali. Penso all’eterna questione dei diritti delle popolazioni indigene (o prime nazioni) in Canada, Australia, Stati Uniti. Non posso non ricordare lo spoliamento delle popolazioni Rom delle loro terre in Ungheria, insomma l’elenco sarebbe infinito, anche qui nel Nord del mondo. Ma, paradossalmente, malgrado la nostra civiltà sia superiore a quelle del sud come ci hanno detto per anni certi nostri politici, malgrado il fatto che l’Africa non sia ancora entrata nella storia (dixit l’ex Presidente della Repubblica Francese Sarkozy), sono i movimenti del sud del mondo che hanno riportato questi temi all’attenzione di tutti. Delle due l’una: o i nostri movimenti, la nostra società civile, non si è accorta di cosa scottava sotto i loro piedi, oppure bisogna ammettere che quelli del sud ci vedono meglio e più lontano di noi.

Il risultato è che quei movimenti che lottano a casa loro per democratizzare questo bene, per far cambiare politiche e leggi, per spingere i governi ad azioni a favore dei più svantaggiati, di fatto sono stati marginalizzati ancora una volta e il centro dell’attenzione è stato recuperato dalle stesse forze del nord, governi e istituzioni finanziarie, che non avevano voluto risolvere i problemi precedentemente (e questo per essere gentili…).

Siamo entrati nella fase di implementare le azioni tendenti a una buona governanza: immaginate che queste tocchino in misura uguale i paesi citati prima (Gran Bretagna, Norvegia, Svezia, Stati Uniti, Italia, Ungheria etc.) e quelli del sud del mondo? Ovviamente no. E nessuno trova nulla da ridire. Tutto è diretto al sud, quello stesso sud le cui istituzioni, dopo lo tsunami degli aggiustamenti strutturali degli anni precedenti, non si sono più rimesse inpiedi. Ed è a loro che si imputa la cattiva governanza. Dalle mie parti si dice: cornuto e mazziato. Scommettiano che, partiti come siamo, non andremo molto lontano in termini di risultati? Eppure basterebbe che quelle istituzioni finanziarie che hanno imposto quei programmi che hanno strangolato i settori chiave dell’educazione, della salute e dell’agricoltura andassero prima a Canossa e poi mettessero sul tavolo soldi veri e appoggi politici per rimettere in sesto quelle istituzioni che potrebbero così controllare la nuova ondata di cosiddetti “investimenti” che stanno arrivando dal nord, prendendo controllo in una maniera o nell’altra delle risorse rimaste a disposizione nel sud. Peccato che queste stesse istituzioni le troviamo, invece che a Canossa, dalla parte di quegli “investitori” che hanno lanciato la nuova Land Rush. Soldi per rafforzare le barriere non ce ne sono, ma per accellerare il flusso proveniente dal nord quelli non mancano. La diga non potrà tenere ancora molto. Ricordatevi che i prezzi delle armi da fuoco stanno scendendo sempre più, per cui si fa presto a muoversi su un terreno scivoloso dal quale tornare indietro vittoriosi sarà molto ma molto difficile, come gli Stati Uniti hanno imparato dall’ Iraq, Afganistan, ed i francesi stanno imparando con le loro avventure centroafricane.

Buon week-end

giovedì 8 maggio 2014

Pesticidi e generazioni future

Se conoscete il francese e, soprattutto, se vi preoccupa il tema pesiticidi (e affini), allora date un occhio ogni tanto a questo sito:

http://www.generations-futures.fr/sinformer/pesticides/

Questi signori hanno voluto misurare le ricadute sui bambini francesi delle 65 mila tonnellate di fungicidi, insetticidi ed altri erbicidi che sono sparsi nelle campagne francesi ogni anno.

Hanno fatto analizzare i capelli di 29 ragazzi dai 3 ai 10 anni. Il risultato lascia esterefatti: ogni zazzera conteneva in media 21 residui di pesticidi, tutti quanti classificati come perturbatori endocrini.

Citiamone alcuni:
Epoxyconazole, fungicida
3-PBA, utilizzato per lo stoccaggio dei cereali
TCPy, usato nelle vigne

I perturbatori endocrini attaccano il sistema ormonale. Sono sospettati di provocare, anche a piccole dosi, dei tumori ai testicoli e delle pubertá anticipate, malformazioni dell'apparato genitale e di ammazzare gli spermatozoi.

Gli esperti cominciano a chiedersi se la rarefazione degli spermatozoi osservata nei paesi occidentali non sia magari dovuta proprio a loro.



venerdì 2 maggio 2014

2014 L18: O Chão das Coisas - Marcelo Panguana

Uma entrevista com o autor, parecida em: http://opais.sapo.mz/index.php/cultura/82-cultura/16042-uma-nova-e-louca-escrita.html

Provavelmente serei um cultor da morte sem me aperceber
Tínhamos estado juntos uma vez nos 33 andares. Acabava de lançar “Como um Louco ao Fim da Tarde”. Nessa manhã, Marcelo Panguana, como um “guia turístico” nos levaria por uma lenta caminhada por esse seu livro que parecia começar do fim. Essa ideia repete-se constantemente. referimo-nos à sua tendência para a morte – quase sempre a começar – como já o tinha feito em “O Chão das Coisas”. Para esta entrevista, libertamo-nos dos seus fantasmas – mais nós do que ele – e embrenhamo-nos para a criação da nova literatura moçambicana. Era preciso sair dos seus livros para encontrarmos a ideia do autor e a construção da nova literatura moçambicana sem o cansado discurso de gerações. “Quando és bom és bom!”, determina ele como quem diz não nos cansem com essa história de conflitos de gerações. Marcelo Panguana, mesmo com uma tendência de sublinhar a classe de diferentes autores e “corrigir-nos” em relação a Suleiman Cassamo – “ele [Cassamo] não é cronista, é fotógrafo” – não foge ao debate. Entra nele com toda a classe como se reflecte também nos seus livros. Nega ser historiador, mas socorre-se do “tempo” – como elemento de história – para nos falar de influências da América Latina, assim como de cá da terra como “o grande Rui Nogar e Luís Bernardo Honwana, o pai da ficção moçambicana” na nossa literatura. Podíamo-nos alongar num discurso feito de uma literatura banhada de sangue. Para Marcelo, não é só de sangue que se faz a nossa literatura, apesar dos seus autores terem vivido as guerras de resistência, de libertação e dos 16 anos. “Não é só de sangue que se faz a nossa escrita!”, lembra este escritor que alguns acreditam ter sido abençoado pelos deuses ronga.
Alguém escreveu na contracapa de “O Chão das Coisas” que Marcelo Panguana nasceu abençoado pelos deuses rongas. Como é que os deuses rongas decidem abençoar alguém para  se transformar num cultor de palavras?
Não me considero uma pessoa abençoada pelos deuses rongas, talvez me considere um escritor protegido por esses deuses. Muitas vezes, em algumas intervenções minhas, faço questão de reivindicar o meu lado ronga e o transformar num estandarte, numa forma de batalha contra qualquer coisa. Sinto que podemos aproveitar as grandes riquezas que existem nas etnias deste país, pegar isso e transformar em produto literário muito rico. As grandes literaturas universais tornam-se sensacionais quando têm essa capacidade de fazer aproveitamento do lado cultural, do lado étnico e espalhar essa riqueza pelos seus livros.
Levanta aqui a questão do “local”. Muitas vezes, quando ouvimos o discurso de unidade nacional parece sobrepor-se à ideia de local,  do grupo. Quando partimos para nos identificar como “locais” rongas, macuas ou bitongas não estaremos a abandonar essa ideia de unidade?
A Frelimo, Samora ou movimento de libertação de Moçambique tinham um slogan muito bonito que dizia “unidade na diversidade”. Eles tinham consciência, já nessa altura, que a unidade nacional, como um todo,  parte de muitas parcelas. Uma riqueza cultural parte de uma série de riquezas individuais. Penso que não se parte absolutamente nada quando se reivindica “ronguismo”, “changanismo” ou “macuanismos” se é que assim se pode dizer. Nós temos que ser qualquer coisa antes de sermos um todo. Da mesma forma que o grande conceito que anda agora que é a globalização parte de particularidade de cada espaço geográfico, não pode existir sem Moçambique se integrar com a sua cultura. Um país só se pode tornar culturalmente forte se tiver a capacidade de explorar a riqueza de cada etnia.
Se transportarmos essa ideia para a literatura, como é que o escritor vai explorar essas particularidades? Ele partirá do geral para o particular ou fará o inverso?
Agora o que está na moda, principalmente na Europa, é o romance histórico, porque os europeus descobriram que é preciso ir buscar a história para enriquecer o presente. Nós, em Moçambique, estamos a entrar por essa via. Estamos a criar alguns livros de ficção histórica interessante. Podemos falar do caso de Ungulani que é mais conhecido através do “Ualalapi” e muito recentemente através de “Choriro”; podemos também ir buscar a literatura de João Paulo Borges Coelhos.
Estes dois autores fazem-se valer pelas suas formações em história…
 Acho muito bom que, tanto Borges como Ungulani, explorem o lado de serem historiadores porque, se reparar, estamos quase um pouco órfãos da nossa história. A nossa literatura quase que viaja pouco pela nossa história. Acho preocupante porque as novas gerações ficam um pouco a flutuar neste universo muito dominado pela literatura ocidental. É preciso que a gente crie uma literatura com muita história, buscar Ngungunhana; buscar os conflitos entre os dois irmãos moçambicanos. É bom que as novas gerações descubram isso e saibam que temos história rica, de modo a que possam ter os pés assentes no chão e possam avançar.
Para além de uma literatura de história, também se está a fazer um regresso ao tradicional. É uma forma de solidificarmos a nossa identidade ou é medo de avançarmos para outros tempos  mais universais?
Nem uma coisa nem outra. Acho que os escritores escrevem aquilo que viveram. Enquanto não esgotarem essas vivências que foram muito profundas, eles não vão dar salto. Acho que só vão dar salto para um outro tipo de escrita, para outras abordagens, depois de esgotarem essas vivências. Eu escrevo muito sobre o passado. Reconheço que escrevo muito sobre as zonas suburbanas onde nasci e cresci. Escrevo muito sobre o curandeirismo, sobre esse lado obscuro da realidade moçambicana, porque penso que é o que me marcou e que vai marcar a minha realidade como homem. Não posso de maneira alguma me desligar disso. É muito forte. Recordo-me uma vez quando diziam alguns críticos que a literatura moçambicana estava cheia de muito sangue. Isso tinha muito a ver com o percurso que o escritor moçambicano teve numa determinada época histórica. Quando tivemos guerra, estávamos a crescer como escritores. Bebemos muito dessa guerra, então os nossos livros nunca podiam estar isentos dessa abordagem. Vivemos muito e escrevemos muito sobre isso até que esgotamos e passamos para outro tipo de abordagem. Vai reparar que os próximos livros a serem têm tendência a falar dos novos tempos. Por exemplo, posso citar o livro que, por coincidência, fiz o prefácio, de Romão Cossa, “A Ministra”, que é uma abordagem mais contemporânea e com outros problemas.
Estamos, com “A Ministra”, perante um rompimento com o passado?
Nã é um rompimento, é um casamento entre os dois mundos. O  modo como o mundo moderno tende a sufocar o tradicional. A “Ministra” tenta, de certa maneira, reivindicar a nossa ancestralidade, dizer que não devemos, de maneira nenhuma, esquecer o nosso passado, mas sim fazermos casamento entre esse passado e as novas tecnologia. “A Ministra” enquadra-se nesse novo tipo de escrita que faz abordagens mais ou menos contemporâneas. Aborda o passado como forma de questionar o presente.
Quando se refere  ao comentário da crítica em relação ao sangue na literatura moçambicana, esse dado não estará relacionado ao facto de a nossa história, pelo menos até ao princípio da década de 1990, ser marcada por guerras? Depois dos 10 anos de guerra de libertação seguiram-se 16 anos de guerra, para não falarmos de conflitos entres os reinos.
Não sou historiador e tenho fraca memória em termos de números, mas posso tentar inventar dizendo, por exemplo, que nos últimos 35 ou 40 anos o nosso país foi um palco de guerra; foi um palco de conflitos e nós em qualquer momento não pudemos abdicar dessa realidade. Mas não quero ser pessimista e dizer que a nossa literatura está cheia de sangue. Há outra literatura que está cheia de outras coisas bonitas. A literatura de Eduardo White está cheia de muito amor, muito erotismo; a literatura de Songare  Okapi está cheia de muito amor; a literatura de Mbate Pedro está cheia de muitas propostas e abordagens sociais interessantes; temos literatura de um jovem extraordinário que é Andes Chivangue que é um prosador por excelência. Temos mesmo a literatura de Suleiman Cassamo…
…. que é um cronista brilhante.
Acho que Suleiman Cassamo não é cronista, não é escritor, é um fotógrafo que usa a escrita para fotografar a nossa sociedade. E é um bom fotógrafo. Claro, não se fala muito dessas pessoas. A gente fala pouco das coisas que são nossas, fala pouco dos nossos escritores.
A questão está apenas em falar-se pouco dos nossos autores ou tem também que ver com a sua capacidade de afirmação?
Vejo essa questão de afirmação de um escritor na sociedade pelo lado de marketing. Estamos numa sociedade em que alguns artistas se tornam famosos pela grande capacidade que têm de usar marketing. Infelizmente a maior parte dos grandes artistas não tem essa capacidade de fazer marketing. o dom que eles têm é de fazer cultura. Infelizmente, por causa dessa condição, se tornam artistas pouco conhecidos, pouco divulgados e o seu trabalho muito pouco reconhecido. O marketing na cultura é um caso sério. O livro é um produto como pão e sabão, tem que se vender e para se vender é preciso marketing. Infelizmente,  nem sempre o marketing serve para divulgar os bons artistas
A nossa literatura, desde sempre, foi construída nesse desafio de divulgação, rompimento com o passado e uma nova reconstrução. Não será Marcelo Panguana fruto dessa reconstrução e de diversas influências?
Tive a sorte de fazer parte de uma geração literária que surge precisamente na altura que nasce o país, o que me leva a dizer que a literatura moçambicana tem a mesma idade que o país. Dizia que tive a sorte de nascer como escritor na altura em que estávamos a tentar desenhar os traços através dos quais se poderia, eventualmente, criar a nova literatura moçambicana. Numa geração que incluía Pedro Chissano, Eduardo White, Hélder Muteia, Tomás Vieira Mário, Armando Artur, Paulina Chiziane  e Ungulane Ba Ka Khosa. Trata-se de uma geração que nasceu do movimento literário chamado “Charrua”, que, aliás, não foi o único. Na altura existiam muitos movimentos como a “Forja”, liderado por Castigo Zita, o “Eco”  que era liderado por Inácio Chire, Hélder Muteia e Daniel da Costa. tivemos uma revista que tinha seu espaço na UEM… existiam muitos movimentos literários e todos nós tínhamos a preocupação comum, que era criar a nova literatura moçambicana. Apesar de poucos instrumentos intelectuais para termos essa ousadia, criámos (a nova literatura), com todos os erros que existiam. Criámos a literatura moçambicana que agora temos; criámos as primeiras páginas literárias, os primeiros suplementos culturais nas revistas e nos jornais da altura e criámos, sobretudo, esta nova forma de escrever, naturalmente influenciados por grandes escritores como Jorge Amado, Hemingway e todos os escritores latino-americanos. Também fomos influenciados por alguns  escritores moçambicanos, caso de Luís Bernardo Honwana - que é o pai da ficção moçambicana -, caso de Rui de Noronha, Rui Knofi, Orlando Mendes e o grande Rui Nogar. São os autores que nos influenciaram e através dos quais fomos capazes de dar um salto para criarmos uma literatura nova e sermos capazes de fazer uma ruptura entre a literatura de combate, que se fez durante o período da guerra de libertação, para criarmos outra literatura que fosse mais sonhadora, mais universal, mais… mais louca!
Fala de rompimento com a literatura de combate. Depois desse movimento que é constantemente simbolizado pela “Charrua” surge uma outra geração mais jovem. Como é que olha para o que é feito pela nova vaga de autores? Sente que é uma continuação ou eles também vem romper com o que foi feito pela “Charrua”?
Sempre fui contra um certo pensamento que, muitas vezes, se divulga, tentando falar-se de literatura através de idade. Ou tu és bom ou não és! Independentemente de seres desta ou da outra geração, ou tu és ou não és bom! Coloco as coisas dessa maneira. Não acredito no conflito de gerações,  em termos artísticos, não existe. Acho isso uma construção de pessoas que tentam nos entreter, tentam nos desviar da questão fundamental que é criar uma literatura ou uma cultura moçambicana de facto. Isso para dizer que encaro com naturalidade o surgimento de outros valores literários como Lucílio Manjate, Songare Okapi, Mbate Pedro e tantos outros que todos os dias vão surgindo no nosso universo literário. Isso indica que estamos num bom caminho, porque uma literatura não se faz com uma determinada geração, faz-se com escritos de cada pessoa de todas as gerações e de todas as criatividades.
Isso tem também a ver com influências?
Não me influenciei por ninguém. O primeiro grande livro que li foi a bíblia. Tenho uma forte educação religiosa. Li muito a bíblia e outros escritos religiosos em língua ronga e é, por isso, que domino bem o ronga tanto escrito como falado. Sou um grande defensor da religião, porque acho que, neste mundo em que os homens perderam confiança  nas instituições e nos líderes políticos, só sobra a religião para poder manter o equilíbrio.
Em “Como um Louco ao Fim da Tarde” assim como em “O Chão das Coisas” há uma permanente referência à morte. Qual é a sua relação com a morte? 
Há certas coisas que a gente faz inconscientemente. Agente só faz e não se apercebe. Quando pensei em escrever estes livros só estava preocupado em contar histórias. Provavelmente o meu inconsciente foi mais forte que outras coisas. Penso que a morte, de certa maneira, é uma realidade sobre a qual não nos podemos alheiar. Não sei por que é que pode ser considerado um caso interessante falar da morte se ela  é tão interessante como a própria vida. Falar da morte é como falar de amor; da vida; da esperança das outras coisas. É parte integrante da nossa existência. Não podemos tornar a morte um tabu, uma coisa que não se pode abordar. Como diria um escritor que não me lembro o nome, às vezes é preciso falar da morte para exorcizar a parte negra, triste e nebulosa que traz a morte. Provavelmente serei um cultor da morte sem me aperceber.

giovedì 1 maggio 2014

Not ACAB



Non tutti i Poliziotti e Carabinieri sono bastardi. Bisogna dirlo. Roberto Mancini, vice commissario ucciso dalla Terra dei Fuochi era di un’altra categoria. Credeva sul serio a quei valori per cui si era arruolato, così come alcuni di noi credono sul serio all’idea di lottare contro la povertà e la fame a partire da una questione di diritti.

Quei diritti negati a Federico Aldrovandi e a Riccardo Magherini uccisi da poliziotti e carabinieri figli di quella cultura storica che in Italia trova sempre spazio negli ambiti di potere. Stefano Rodotà in un bellissimo editoriale di oggi su Repubblica si limita a un riferimento temporale degli ultimi 20 anni; magari avrebbe potuto usare la sua lunga memoria storica per ricordare come il passaggio dal Fascismo alla Repubblica sia stato caratterizzato dal mantenimento di gran parte di quei funzionari, poliziotti e carabinieri che avevavno servito il regime fascista, quello delle leggi razziali, dei massacri compiuti in Africa e delle avventure guerriere a fianco del figlioccio austriaco. Quella cultura è rimasta, da noi come in altri paesi (la Francia in primis). I fascisti e razzisti hanno sempre saputo restare a fianco del potere. Ci stupiamo adesso di questi atti del sindacato fascista dei poliziotti, ma non dovremmo. L’ ex Cavaliere lo aveva capito prima di tutti, quel mondo di fasci e razzisti è sempre lì, e rappresenta un bacino elettorale importante. Sono usciti allo scoperto e tutti fanno finta di stupirsi. Ma basterebbe uscire un po’ dall’Italia per rendersi conto che il non aver voluto fare i conti con questa gentaglia all’epoca della fine della guerra, ci ha portato adesso a trovarli più baldanzosi di sempre. Un sondaggio inglese indica un 30% di populisti e fasci alle prossime elezioni: eccoli lì a rialzare la testa, anche perché non l’hanno mai abbassata. Scommettiamo quello che volete che fra un paio di mesi di questi non se ne parlerà più, resteranno tutti ai loro posti, finchè un giorno li troveremo a fare i Ministri? Esagero? Ma chi era quel Fini, diventato ministro, vice premier e quanto altro se non lo stesso fascista che era anni prima? E Alemanno? Ce lo siamo scordati? Adesso quelli del Sindacato fasacista sono lì a cercare i referenti politici, e li troveranno. Il mondo va a destra, diventa più razzista perché abbiamo accettao di far entrare la paura dentro casa nostra, perché non ci battiamo più per nulla. Il vestitino alla moda, il profumo, la macchina ultimo modello, ecco cosa interessa la gente… poi si scopre che la crisi è arrivata anche qui e che non se ne andrà, anzi sarà peggio, perché quelli che comandano e per cui avete votato sono quelli che appoggiano un capitalismo finanziario che taglia lavoro. Meno lavoro, qui come in Africa, e più gente. Miliardi in più.  Quindi, cosa facciamo? I poliziotti ammazzano, i carabinieri lo stesso, perché si sentono figli di una cultura da Far West.. con l’unica differenza che il Far, il lontano Ovest non c’è più. Siamo arrivati alla frontiera e adesso dobbiamo imparare  afare i conti con noi stessi. La questione dei diritti diventa sempre più centrale, ma cercare di metterla nella testa di quella gente, di questi partiti, da noi come altrove, sembra uno sforzo di Sisifo. Ma dobbiamo farlo, non restare a casa davanti al televisore o al computer, non manifestando “virtualmente”, ma sul serio. Bisogna darsi da fare, perché dipende solo da noi.