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lunedì 29 gennaio 2018

La parità di genere nei “programmi” dei maggiori partiti in lizza il 4 marzo



Scrive la Consigliera Comunale di Torino e “referente locale del Movimento” Laura Onofri sul suo sito (lauraonofri.it): 
Due europarlamentari del Movimento Cinque stelle, Marco Zanni e Marco Valli hanno presentato un emendamento per  abolire la parità di genere dalle linee guida per il Bilancio dell’Unione Europea del 2017. In particolare, i due esponenti grillini chiedono l’abolizione del paragrafo 17 che “ricorda che il gender mainstreaming (parità di genere) deve sostenere le politiche dell’Unione come principio orizzontale, e chiede che la Commissione metta in pratica il principio del gender mainstreaming nella preparazione della bozza di bilancio per il 2017″. Stesso emendamento   è stato presentato dall’europarlamentare del Front National, Sophie Montel.

Partendo da questo incredibile autogol, ho deciso di dare un occhio a quello che i partiti hanno presentato nei loro siti come programma per le elezioni prossime venture. Manca poco più di un mese per cui parrebbe corretto basarsi su quello esistente oggi, 29 gennaio, sui loro siti e non su ancora fumose proposte future.

Cominciamo con la destra. Il blocco Berlusconi-Salvini-Meloni + quarta gamba presenta un blocco sintetico di 10 punti che si trovano in bella mostra appena si apre la pagina di forza Italia. Non sorprende affatto che la parola “genere” non sia nemmeno citata. Zero virgola zero.

Mi sposto leggermente più in là e guardo il sito del PD: a poche settimane dal voto non esiste una cartella col programma, ma solo degli “approfondimenti”, dove si ricorda dettagliatamente quello che avrebbero fatto loro al governo. Non si riesce a trovare nessuna riflessione sulla questione di genere. Dato che da nessuna parte si trovano proposte per il futuro che partano da una riflessione su quanto fatto specificatamente su questo tema, vien da pensare che il tema non sia considerato come strutturale nella costruzione della cittadinanza del futuro. Il fatto poi che da dentro il PD emergano voci a ricordare come non ci sia nemmeno una donna capolista nelle liste appena finalizzate, sembra solo la conferma di una tendenza che viene da lontano.

Sono passato poi ai penta stellati: il loro è senza dubbio il programma più dettagliato e articolato. Pieno di riflessioni anche interessanti, resta totalmente assente sulla questione di genere (che non guardo dal lato di parità nelle liste o quote varie, ma come qualcosa di più strutturale che riguarda  il lavoro, le retribuzioni, i diritti, la violenza, l’educazione, l’ambiente eccetera). Che quanto ricordato sopra dalla loro Consigliera si sia poi confermato o meno, rimane comunque la totale assenza di riflessione pubblica sul tema. Apparentemente a dicembre hanno realizzato un incontro di riflessione interno sulla “parità nelle differenze”, ma siccome per partecipare, oltre che accreditarsi, era necessario, per i soli maschi, un dress code particolare, ho pensato di saltare l’evento ed aspettare che gli atti siano resi pubblici. Se qualcuno ne avesse copia sarei ben contento di poterli leggere.

Per ultimo ho lasciato i liberi e uguali che mostrano una preoccupazione maggiore sul tema, anche se su aspetti non proprio strutturali: “diritto di accesso in rete e va superata ogni forma di divario, da quello di genere…”
Che poi nella loro introduzione si ponga enfasi sulla necessità di promuovere una “attuazione integrale della Costituzione repubblicana e del suo cuore pulsante, l’articolo 3, così come lo è la prevenzione e il contrasto della violenza di genere.”

Non ho trovato nessun approfondimento nemmeno da parte di potere al popolo, al di là delle generiche intenzioni di promuovere sul serio la parità di genere.

Insomma, se resto a quanto ho trovato dopo due ore di lavoro, che credo sia onestamente più di quanto un/a italiano/a medio/a dedicherà a questi temi, devo ammettere che mi risulta impossibile non dico dare la sufficienza, ma nemmeno un 4 di incoraggiamento. Semplicemente bocciati tutti. Zero in analisi e zero a livello di proposte (magari potrei dare 1a LEU).


Ovviamente sarei contento di essere smentito, per cui se qualcuno trovasse qualcosa di più concreto e che mi sia sfuggita, accetto ben volentieri.

Per completare il ragionamento



Papa Francesco ci ricorda periodicamente la sua paura per una prossima terza guerra mondiale “a pezzi” come dice lui. Nel mio piccolo anch’io penso che siamo partiti su questa strada e che oramai siamo ben avanti nella fase preparatoria. 

Penso ad alcuni libri letti in questi anni e non mi sento più tranquillo. La mente è ritornata all’Età degli Imperi di Hobsbawm e alla sua analisi del come si arrivò alle guerre che hanno caratterizzato Il Secolo Breve.

L’età degli Imperi è interessante per mille altre ragioni, ne cito solo uno: perché ci obbliga a riflettere sui cambiamenti strutturali e societali che la nuova organizzazione dello sviluppo capitalistico portò dopo la Grande Depressione economica degli ultimi decenni dell'Ottocento, una crisi che toccò in particolare modo l'agricoltura, portando a fenomeni migratori diffusi che cercarono di porre un argine sociale al problema. Ne risultò un modello diversamente organizzato, che trovò la sua formulazione grazie a F.W. Taylor che nel 1911 pubblicò un libro dal titolo evocativo The Principles of Scientific Management per meglio inquadrare la nuova organizzazione del lavoro nelle fabbriche americane dopo l’avvento delle prime fasi di meccanizzazione e la sua applicazione pratica nelle fabbriche di Henry Ford. 

Una produttività in forte crescita, la riduzione sensibilissima dei costi di trasporto (soprattutto marittimo) portarono ad una espansione fino ad allora sconosciuta dell’economia di mercato. Si passò così da un’economia prettamente agricola, quasi “locale”, ad una di tipo industriale che aveva bisogno di spazi adeguati per distendersi. Il concetto di stato-nazione viene coniato in quel periodo, ad indicare come gli angusti spazi commerciali precedenti non fossero oramai più adeguati alle esigenze del nuovo capitalismo. La vecchia società aristocratico-borghese stava arrivando al capolinea, nuove forze, inizialmente poco organizzate, gli “operai”, facevano irruzione, diventando nel contempo la variabile chiave del nuovo modello ma allo stesso tempo, quando si organizzavano e diventavano “socialisti”, uno spauracchio da controllare a tutti i costi.

La rottura del vecchio mondo prende le forme di una guerra che, iniziata nel 1914, finirà solo nel 1945. Due lunghi tempi necessari a picconare alla base la vecchia società e fare emergere una nuova dinamica di produzione, di consumo e di controllo sociale. La caduta definitiva del mondo colonialista (che era la caratteristica centrale dell’età degli Imperi) prenderà ancora parecchi decenni, per dirsi conclusa solo a metà degli anni 70 quando anche i rimasugli dell’impero portoghese saranno smantellati e nuovi stati saranno emersi. 

La nuova economia di mercato era andata ampliandosi a dismisura, creando non solo la figura dell’operaio massa ma anche quella del consumatore. Questa massa, quando cercò di farsi anche “cittadino”  fu osteggiata in tutti i modi dato che non aveva nessuna funzione utile nel modello produttivo-consumieristico. Lo stato-nazione diventava la dimensione adeguata, con una ideologia che spingeva per una liberalizzazione degli scambi sempre più spinta. Il capitale, soprattutto nella fase post-conflitto, faceva affari d’oro, con tassi di profitto a due cifre. La tecnologia assicurava miglioramenti continui e ben presto cominciò quindi a porsi una volta ancora lo stesso problema: l’angustia del nuovo terreno di gioco. Se a fine ottocento la geografia imperiale era stata percepita come un freno al nuovo modello, la dimensione nazionale, dopo nemmeno un secolo, era già diventata stretta e la partita vera cominciava a giocarsi a livelli superiori. Nuove esigenze e quindi nuova (o rinnovata) ideologia: la globalizzazione, sempre supportata dalle schiere di intellettuali, politici e quanto altro per spiegare alle masse quanto questa sia necessaria e ineluttabile.

Noi viviamo in pieno questa transizione, da spazi nazionali a un campo aperto sovranazionale dove sempre meno giocatori possono sedersi attorno al tavolo. La logica della crescita continua ci porta a pensare che lo stesso problema dei limiti del terreno di gioco si porrà fra poco e, a differenza del passato, diventa difficile immaginare quali possano essere le soluzioni.

Il primo momento di rottura, dall’età degli Imperi verso il 1914, portò con sé il nazionalismo, diventato velocemente la bandiera delle destre e al quale le sinistre non sapevano cosa opporre. Ma dobbiamo ricordarci come quel nazionalismo fosse in linea con le dimensioni del terreno di gioco (lo stato-nazione) funzionali al nuovo modello capitalistico. 

Che ci piaccia o meno, il nuovo modello sparigliò le carte e dette un orizzonte a generazioni di persone che, per la prima volta, entravano a fare la Storia con la S maiuscola. Penso in particolare ai contadini, sbattuti in prima linea nella Grande Guerra, e che per la prima volta venivano incorporati concretamente a quella cosa che passava sopra le loro teste e che era chiamata Stato. Le capacità manipolatorie erano ancora limitate, ecco perché le promesse dovevano essere all’altezza dello sforzo richiesto: Terra ai contadini fu lo slogan per convincerli a morire in trincea facendo irrompere il tema fondiario nell’agenda mondiale. Le poche informazioni che arrivavano dalla Russia, dove la terra sarebbe stata realmente distribuita a contadini fece capire quanto fosse necessario migliorare le tecniche di controllo delle masse nonché della loro manipolazione. 

Uscimmo dalla seconda guerra convinti dall’America Dream. Un sogno degli altri che, pensavamo anche noi da piccoli, sarebbe diventato il nostro sogno. La trasformazione del cittadino in operaio e poi in consumatore si fece sopra le nostre teste senza che riuscissimo a capirlo e a contrastarlo. Oggi siamo arrivati a una massificazione dello slogan: Consumo, dunque Sono! L’evoluzione del modello si sta spostando, da decenni oramai, sul settore finanziario; oramai non serve più produrre, tanto quello lo possono fare le macchine, per cui i soldi veri vanno fatti altrove, in un mondo irreale, quello della speculazione finanziaria.

Verrebbe da pensare che questa virata sia la reazione interna al modello nel momento in cui si rende conto che anche giocando a livelli sovranazionali i margini di manovra si stanno restringendo. Il consumatore lambda più di tanto non può comprare e consumare, quindi cosa fare per la prossima fase? Di cosa sarà fatta? Di che geografia e di quali persone?

Domande difficili e senza vere risposte al giorno d’oggi. Qualche anno di crescita ci sarà ancora, forse qualche decennio, finché anche i mercati emergenti saranno saturati, ma il “sistema” deve porsi queste domande prima di essere arrivato al capolinea e quindi: adesso.

Nel passato la crescita demografica poteva essere vista in chiave positiva, più bocche da nutrire e più consumatori da servire. Oggi siamo coscienti che questa variabile non può più essere trattata fuori da un’analisi globale dell’ecosistema in cui viviamo. Sappiamo che lo stiamo distruggendo, che le risorse si riducono e che il futuro non potrà essere immaginato come la riproposizione in scala maggiore di quello che è stato fino ad ora.  

Nel passato, i momenti di passaggio avevano un orizzonte chiaro, anche se condiviso da pochi, ed era l’adeguazione dell’ambito geografico all’ambito economico. Tutto il resto, forma dello Stato, ruolo dei cittadini, era il contorno di un piatto forte che era la dominazione economica e tecnologica. I tempi e i ritmi venivano scanditi ancora sui vecchi principi di Taylor e Ford. Non avendo mai pensato in maniera laterale, out of the box, ci troviamo pericolosamente sull’orlo del precipizio. In tanti siamo coscienti che così non si potrà andare avanti, ma siamo anche coscienti che nei piani alti questo non sembra interessare nessuno. Le stesse politiche che hanno impoverito milioni di persone e distrutto così tante risorse naturali continuano ad essere il vangelo ripropostoci da tutte le forze politiche, elezione dopo elezione.

Francesco ha probabilmente ragione nel richiamare l’attenzione sul rischio di una nuova guerra. Il punto è di capire il perché ce ne sia stato bisogno prima e se le forze che volevano emergere siano ancora in posizione di forza oggi.  La mia risposta è sì, comandano ancora loro e la trasformazione che si stanno dando in forze finanziarie non sembra proprio essere una risposta ai problemi globali che il loro modello inevitabilmente porta con sé. Si tratta di una risposta del tipo si salvi chi può; loro pongono al riparo i loro averi in un nuovo gioco, fatto sempre sulla pelle degli altri, quegli altri che, finora, non hanno trovato strade per incanalare il loro scontento.

Credo molto probabile che la conflittualità aumenterà in molte parti del mondo e, per i legami creati da questi decenni di globalizzazione, ne sentiremo gli effetti anche a casa nostra. Il tentativo religioso del radicalismo islamico per mettere un cappello sopra a questo malessere forse ci porterà la guerra in casa: non dimentichiamoci che il casino nella ex Jugoslavia è ben lontano dall’essere risolto e, come ce lo ricorda l’omicidio di pochi giorni fa in Kossovo di una delle poche figure di dialogo, il fuoco cova ben vivo sotto le ceneri; il disastro della Corte internazionale dell’Aja nel non giudicare moltissimi degli attori principali di genocidi e massacri vari, qui all’Est come poi in Africa e in Medio Oriente, tutti elementi che portano legna al fuoco futuro. Personalmente non credo che questo cappello, la religione, avrà una capacità attrattiva sufficiente per unificare in un movimento unico le tante forze disparate che lottano contro questo modello ma senza avere una proposta unita di alternativa. Ecco perché penso a conflitti difficilmente gestibili, ma che interesseranno sempre meno a quell’un per cento della popolazione straricca che oramai si proietta a livelli ultraterreni, fuori dalla portata delle nostre proteste.


Un mondo nel quale non sarà facile vivere. La fine dell’età degli Imperi portava con sé un sogno, o più di uno: uno socialista, collettivo, e uno di arricchimento individuale. Oggi il primo è molto malmesso, e il secondo si applica a una infima minoranza, lasciando in mezzo una classe che fu “media” nella progressiva erosione dei propri benefici e in cammino verso un futuro nero.  

sabato 27 gennaio 2018

La giornata della (s)memoria

27 gennaio ...

Ricordarsi cosa? Che il secolo scorso si è caratterizzato per il gran salto di qualità nella tecnologia per eliminare gli altri? O per aver posto le basi ed aver testato una ideologia divisiva basata su un concetto inesistente (una fake news?) come la razza? O semplicemente per ricordarsi che non abbiamo imparato nulla da tutto ciò?

Disponiamo di tecnologie che permettono di ammazzare quantità incredibili di esseri umani, mantenendo in piedi le strutture produttive. Disponiamo di un savoir faire che permette all’attuale sistema economico di andare avanti anche senza mano d’opera per cui anche se si eliminassero milioni di persone, decine, centinaia di milioni non solo non avremmo danni al sistema produttivo in modo strutturale, ma anzi rischiamo di averne degli effetti positivi in termini di minor pressione sulle risorse naturali, meno immigrazione (clandestina) …

Quindi, che razza (scusate il lapsus) di memoria vogliamo celebrare? La memoria dei processi non fatti, dei perdoni dati immediatamente a gran parte dei responsabili della Shoah? E dell’esempio che questo “perdono” ha suscitato in tutti i tribunali che se ne sono occupati successivamente? Ved il caso cambogiano, oppure quello ruandese o, più vicino a noi, della Bosnia Herzegovina? La memoria è qualcosa di complicato, dove mettiamo quello che vogliamo ma poi tiriamo fuori quello che altri vogliono. Gran parte dei gerarchi nazisti, riunitisi per discutere e mettersi d’accordo sulla soluzione finale, sono stati perdonati e sono morti, liberi, molti anni dopo. L’onta delle leggi razziali italiane, ancora più dure di quelle tedesche, non impedisce a movimenti fascisti di presentarsi alle elezioni malgrado quanto sta scritto nella Costituzione. I responsabili degli eccidi in gran parte dei paesi del terzo mondo non sono mai stati giudicati e lo stesso si può dire dei lire occidentali che hanno spinto per quelle guerre, illegali e ignobili.


Non capisco quindi cosa ci sia da festeggiare in questo giorno della memoria. Forse dovremmo chiamarlo giorno dell’alzheimer, dato che celebriamo il fatto che non ci ricordiamo più nulla di cosa è successo pochi decenni fa.

giovedì 25 gennaio 2018

2018 L8: Petros Markaris - Il prezzo dei soldi



La nave di Teseo,2017

Dopo anni di crisi, la Grecia vive un’entusiasmante ripresa economica, il denaro inizia di nuovo a scorrere e i greci tornano alle loro vecchie e buone abitudini. Così, quando un funzionario dell’Ente del turismo viene trovato morto nella sua abitazione, ucciso da un colpo di pistola alla testa, le indagini vengono chiuse in fretta con la confessione di due ladruncoli. Il miracolo economico non si può arrestare.
Poco dopo, il nuovo vicecomandante ferma anche l’inchiesta sull’assassinio di un noto armatore. Solo il commissario Kostas Charitos nutre dei dubbi: strane coincidenze legano gli investitori che scommettono sul rilancio del paese al riciclaggio di denaro sporco nelle Isole Cayman.Due vittime sono molte, tre diventano troppe: il giornalista Sotiròpoulos, vecchia conoscenza di Charitos, viene giustiziato nella sua auto e il commissario decide, allora, di seguire il suo intuito, di indagare per conto proprio e contro il volere dei superiori. Charitos sa che solo ricostruendo la provenienza dei soldi potrà risolvere la serie di misteriosi omicidi.

Un bel libro, abbastanza tipico dello stile Markaris. Attualità economico-finanziaria alla salsa greca. Una lettura che non delude e che sa essere piacevole vicini a un fuoco in queste giornate invernali.

mercoledì 24 gennaio 2018

La dimensione di “genere”: un lungo percorso, lontano dall’essere concluso



Il tema in questione non ha mai fatto parte dei temi studiati all’università che ho frequentato a Padova (Scienze agrarie) e nemmeno all’INAPG di Parigi. Il tema agricolo veniva trattato da un’ottica tecnica, non sistemica e a-storica (Padova), mentre a Parigi pur innovando in termini di approccio (storico e sistemico), restava comunque lontano da una riflessione sugli attori dello sviluppo agricolo. L’impressione che ne ricevetti era che la “famiglia” fosse considerata implicitamente come la base lavorativa, decisionale e di consumo a cui si riferiva l’insieme delle attività svolte, e che la figura del capofamiglia non meritasse una riflessione più acuta.

Tanto sta che, quando osai intervenire in un seminario organizzato a Montpellier dai vari istituti agrari (Cirad, Cnearc, Università etc.) al quale interveniva anche uno dei miei professori di Parigi, Marc Dufumier, (il più amato dai giovani per il suo slancio a favore del terzo mondo, il suo impegno con i contadini del Laos, Nicaragua etc…), venni sbeffeggiato proprio da Dufumier con una risposta che, al dimostrare tutti i suoi pregiudizi (si può dire?) etnico-razziali, confermava una limitatezza intellettuale stupefacente per una persona così attenta alle realtà locali di terreno. Il mio intervento era frutto di discussioni che in quel periodo avevo, lavorando al Centro di Sviluppo dell’OCSE a Parigi, con una sociologa americana di origine caraibica, specializzata su quello che all’epoca si chiamava “Donne nello Sviluppo”. Ai continui riferimenti al gran lavoro dei contadini africani, io feci presente che, malgrado le mie limitatissime esperienze, mi risultava che anche le contadine, donne, facessero un lavoro altrettanto se non più impegnativo degli uomini in agricoltura e che forse sarebbe stato opportuno riflettere su questo tema che nessuno dei partecipanti menzionava. Correva l’anno 1989, io ero andato a Montpellier per incontrare uno die professori a cui avevo proposto di far parte del mio giurì di Dottorato che avrei sostenuto nei mesi seguenti. Marc Dufumier mi conosceva bene dato che da maggio del 1985 avevo iniziato a frequentare i suoi corsi all’INAP-G. Forse non aveva digerito il fatto che fossi andato a lavorare nella tana del nemico (OCSE), ma il fatto fu che invece di rispondere alla mia domanda, si rivolse al pubblico dicendo: “Sapete, Paolo parla di questi temi (le donne, sottinteso) perché è italiano, e gli italiani .. voi capite…”. Inutile dire che da quel giorno Marc Dufumier uscì per sempre dalla lista di persone care, professori a cui dire grazie per la mia formazione. 

Mi resi conto quindi che il tema “genere” era scivoloso, che gli esperti, in gran maggioranza maschi, semplicemente non ci avevano mai pensato e quindi, di destra come di sinistra, non avevano idea di cosa dire.

Iniziai a lavorare con la FAO in Cile e, per pura casualità, il primo corso di formazione a cui partecipai fu proprio sul tema delle “Women in Development”. La FAO provava a far qualcosa su questo tema, per cui aveva nominato capo servizio una americana, di cui sfortunatamente non ricordo il nome, che probabilmente aveva una storia personale molto attiva nel femminismo in generale e nello specifico sul tema agrario. Si trattava sicuramente di una persona molto in gamba, il problema era lo scarso conoscimento che aveva del pubblico (i miei colleghi FAO) a cui si stava dirigendo. L’ufficio regionale del Cile, nonostante fosse una entità extra-territoriale, si trovava nel Cile di Pinochet (che iniziava la sua ritirata in quel periodo); era e restava una entità conservatrice, filo-governativa per cui molti dei colleghi dell’ufficio erano dei latinoamericani maschi e di destra. Bravi tecnici magari, ma sicuramente quell’apparizione deve esser sembrata loro come quella di una marziana sbarcata per caso in ufficio. La distanza era siderale tra quanto lei esponeva e quanto loro fossero aperti ad ascoltare. Non durò molto nemmeno lei perché credo che nemmeno un anno dopo se ne sia andata.

Fu il mio primo impatto interno con quel muro di gomma fatto di generica accondiscendenza e di velato sarcasmo rispetto a un tema che era considerato come una delle mode periodiche alle quali le Nazioni unite dovevano tributare un onore, per ci poter ritornare tranquillamente al solito lavoro per cui erano stati selezionati.

Mi resi conto quindi che, le mie pur limitate conoscenze sul tema, rischiavano di mettere anche me completamente fuorigioco, per cui scelsi tatticamente di tenere un profilo basso. L’impegno principale di quel periodo era la “domesticazione” dei principi sistemici di Mazoyer dentro una metodologia che potesse essere spendibile nel mondo FAO. Non avendo nessun interlocutore sul tema di genere, decisi di aspettare tempi migliori.

Quando a Roma mi trovai a lavorare sul tema sistemico agrario, la questione tornò a galla. Da un lato ricordo discussioni dense e turbolente con una collega americana, Patricia H.B. (oggi professoressa a Wageningen) del servizio incaricato del tema, perché considerava le nostre riflessioni iniziali ancora troppo timide. Il punto critico era che non sapevamo bene come introdurre questa dimensione nell’analisi sistemica, al di là di cercare di capire quali fossero le responsabilità specifiche di uomini e donne contadine nei vari processi produttivi e decisionali. Volevamo fossero i/le colleghi/e del servizio tecnico specializzato sul tema genere a darci delle dritte concrete, ma in realtà loro sembravano sempre restare ai piani alti delle discussioni, principi importanti ma un po’ fumosi per cui non si scendeva mai nella realtà del campo.

Riuscimmo anche a far approvare un progetto, in Brasile, sul tema di genere nella riforma agraria e le nostre speranze erano al massimo all’epoca, dato che i consigli concreti che questo progetto doveva elaborare potevano essere molto importanti anche per il lavoro parallelo che stavamo facendo verso il futuro PRONAF. I risultati furono insoddisfacenti e da quella strada non siamo andati avanti granché.

Ma quello era anche il periodo della transizione verso l’approccio territoriale, per cui decisi di riprendere il tema da quell’angolo.

La prima versione della nostra proposta metodologica (PNTD, 2005 http://hubrural.org/IMG/pdf/fao_pe2_050402d1_en.pdf), nata come uno sforzo interno ai due servizi tecnici che componevano la Divisione dello Sviluppo Rurale, accennava in varie parti alla necessità di approfondire questa tematica, di fatto lanciando un messaggio bottiglia ai colleghi e colleghe dell’unità tecnica responsabile.

In attesa di notizie, e come parte del lavoro che stavamo realizzando in paesi in post-conflitto come Mozambico e Angola, riuscimmo a introdurre la dimensione di genere nella metodologia utilizzata per il riconoscimento dei diritti territoriali delle comunità locali (http://www.fao.org/3/a-ak546e.pdf). Il principio era abbastanza semplice: realizzare degli eventi con la partecipazione di tutta la comunità, per capire con loro i limiti del loro territorio e i principali usi, avrebbe significato ancora una volta accettare una dominazione maschile nella presa di parola. L’unico modo, semplice, ci parse quello di proporre che il diagnostico comunitario si facesse con gruppi separati, uomini da una parte, donne dall’altra e anche un terzo gruppo con i giovani, in modo che anche loro imparassero a far uso delle loro conoscenze. Questi gruppi segmentati offrivano una ricostruzione più fedele e completa, che necessitava poi un lavoro finale con l’insieme della comunità, sulla base di carte territoriali predisposte da ogni gruppo.  Riuscimmo a far passare questo principio, che oggigiorno è iscritto nella Legge sulla Terra del Mozambico e viene usato normalmente dalle organizzazioni, di governo o non governative, che si occupano di delimitazioni dei territori comunali anche in Angola. Fu possibile anche far mettere nella legge la necessaria (e adeguata) presenza femminile nei processi di dialogo e negoziazione con eventuali richiedenti esterni, tipo investitori, in modo da evitare accordi sottobanco favorevoli ai maschi e a detrimento dei diritti delle donne.

Malgrado i reiterati stimoli ai capi del servizio responsabile per il tema genere, la tematica non avanzava molto. In maniera generale potrei dire che in FAO le resistenze da parte delle varie unità tecniche, unite a uno scarso lavoro di lobbying da parte dei responsabili (capi servizio e direttori) del gruppo “gender”, non facevano (e non hanno fatto ancora) avanzare questa dimensione nei lavori sia normativi che di terreno. Si facevano delle pubblicazioni, periodicamente si ricordava che il tema era importante, ma era chiarissimo l’intento retorico e la mancanza di volontà da parte di chi reggeva le fila. D’altronde, il principio che regge i piani alti delle nazioni unite è sempre stato quello che noi veneti chiamiamo “can non magna can”; quindi se il livello più alto della FAO non si muoveva, era ovvio che sperare che lo facesse la direttrice della divisione genere, col rischio di mettere a rischio la sua carriera, era una pia illusione. Decenni dopo siamo sempre lì: la direttrice è riuscita a sopravvivere a tutte le epurazioni promosse dai direttori generali e il tema genere è rimasto sempre all’antipasto.

Nella pratica, tutta l’attenzione prestata al tema genere si limitava a un generico appello a far si che le donne partecipassero alle riunioni pubbliche. In quel modo si contavano quante di loro partecipavano, per poter poi fare delle statistiche assolutamente inutili atte a dimostrare la “sensibilità” dei colleghi (e quindi dell’organizzazione) che aveva formulato quel progetto o programma. Ai piani alti si restava sempre fermi a dichiarazioni di principio, che non intaccavano minimamente la prassi quotidiana degli operatori di terreno per cui il tema gender era sempre l’ultima ruota del carro.

Nel 2012, grazie a un lavoro congiunto con Ilaria, una amica del servizio gender, conosciuta fin dai primi giorni in FAO, riuscimmo a pubblicare un primo sforzo metodologico che puntava a mettere assieme il nostro approccio territoriale con il Socio Economic and Gender Analysis (SEAGA), il metodo di lavoro storico portato in FAO dal servizio gender. Ne uscì un documento che chiamammo IGETI (Improving Gender Equality in Territorial Issues - http://www.fao.org/docrep/016/me282e/me282e.pdf). I principi rimanevano quelli del dialogo, negoziazione e concertazione, ma spingevamo maggiormente sulla dimensione di genere. 

Come per gli anni prima, quando provammo a mettere dei richiami dentro il PNTD, IGETI nasceva col chiaro intento di spingere i responsabili (capi servizio e direttrice) dell’unità responsabile del tema a darsi una mossa in modo che questi principi venissero integrati al momento di cominciare a disegnare progetti, programmi o politiche di sviluppo. Per noi era chiaro il fatto che, dati i rapporti di forza esistenti nei paesi membri, l’unica speranza per far avanzare una democratizzazione dell’accesso, uso e gestione della terra e altre risorse naturali, passava per la ricostruzione di un patto sociale di nuovo tipo, a partire dal lavoro svolto in piccole località. Meglio ancora, una possibilità concreta si apriva nei paesi in conflitto o post-conflitto, dato che quando si cominciava a riflettere sul futuro di quei territori, le nostre parole erano di fatto le stesse che altre agenzie ONU portavano avanti, per cui lo spazio per inserire una riflessione più amplia che toccasse anche il tema genere esisteva.

La centralità del lavoro (genere e territorialità) in quelle che vengono definite le Crisi Prolungate, nasceva anche dalla constatazione dei pochi passi avanti che si compivano nelle altre divisioni tecniche. Il fatto poi che il senior management FAO sia tradizionalmente dominato da un ambiente maschile, poco interessato e poco aperto ad ascoltare punti di vista diversi e magari divergenti, non aiutava di certo.

Se dobbiamo tirare l somma di questi decenni, direi che il massimo che siamo riusciti a raggiungere è stato di non far sparire il tema; anzi a giorni uscirà una versione attualizzata della guida IGETI (vedi foto) dove per la prima volta la questione delle dinamiche di potere viene messa chiaramente in evidenza. Non siamo ancora arrivati ad esplorare la intersezionalità della discriminazione di gender, ma abbiamo intenzione di andare su quella strada.



La questione di genere nella sua vertente di “potere” è probabilmente la ragione per cui non si fanno passi avanti ai piani alti. Anche riuscissimo a convincere più colleghi dell’importanza strutturale di questa dimensione per qualsiasi idea di “sviluppo”, rimarrebbe sempre l’ostruzione che a livello di chi dipartimento e ufficio del direttore generale si continua a manifestare sul tema. Regna una gran ignoranza sull’importanza strategica del tema. La transizione tra una vecchia idea dello sviluppo basata sulla tecnica e la tecnologia e una nuova che si basi e sia centrata sulle persone e quindi sulle questioni dei diritti e dell’uguaglianza, è lungi dall’essere terminata. Direi che non siamo nemmeno a metà del guado. Questo perché questa nuova visione dello sviluppo di fatto significa mettere al centro il tema delle asimmetrie di potere e quindi far si che gli interventi “tecnici” portati avanti da agenzie come la FAO non si limitino a “fare” qualcosa, ma che vadano a toccare il nodo centrale e cioè chi il potere lo detiene, dal livello comunitario su fino malgoverno e anche oltre. Tocchiamo quindi con mano i limiti di un sogno di uguaglianza che le nazioni unite non possono, nella pratica, portare avanti dato che chi regge queste agenzie è votato ed eletto da quel sistema di potere che si basa sulla discriminazione dei più deboli. 

Annacquare i temi difficili è da sempre la strategia in voga nelle varie agenzie delle nazioni unite per evitare che si vada al cuore die problemi. La questione di genere tocca troppi nervi caldi per sperare che qualcosa si muova sul serio. 


Cosciente dei limiti (i muri di gomma) che le nostre agenzie ONU hanno su questo tema (che restano comunque sempre con un grado di libertà maggiore rispetto alle agenzie di cooperazione bilaterale, veri e propri strumenti di politica estera e commerciale per cui non potranno mai, per costruzione, diventare degli agenti di cambio reale) ho provato a lanciare un appello ad alcuni amici e amiche, dentro e fuori l’organizzazione, per poter pensare e lavorarci assieme verso un miglioramento sostanziale dell’approccio. Finora però non ho ricevuto risposte.

lunedì 22 gennaio 2018

2018 L7: Gaël Faye - Petit pays



Grasset, 2016

En 1992, Gabriel, dix ans, vit au Burundi avec son père français, entrepreneur, sa mère rwandaise et sa petite sœur, Ana, dans un confortable quartier d’expatriés. Gabriel passe le plus clair de son temps avec ses copains, une joyeuse bande occupée à faire les quatre cents coups. Un quotidien paisible, une enfance douce qui vont se disloquer en même temps que ce « petit pays » d’Afrique brutalement malmené par l’Histoire. Gabriel  voit avec inquiétude ses parents se séparer, puis la guerre civile se profiler, suivie du drame rwandais. Le quartier est bouleversé. Par vagues successives, la violence l’envahit, l’imprègne, et tout bascule. Gabriel se croyait un enfant, il va se découvrir métis, Tutsi, Français…
« J’ai écrit ce roman pour faire surgir un monde oublié, pour dire nos instants joyeux, discrets comme des filles de bonnes familles: le parfum de citronnelle dans les rues, les promenades le soir le long des bougainvilliers, les siestes l’après-midi derrière les moustiquaires trouées, les conversations futiles, assis sur un casier de bières, les termites les jours d’orages... J’ai écrit ce roman pour crier à l’univers que nous avons existé, avec nos vies simples, notre train-train, notre ennui, que nous avions des bonheurs qui ne cherchaient qu’à le rester avant d'être expédiés aux quatre coins du monde et de devenir une bande d’exilés, de réfugiés, d’immigrés, de migrants. »
Avec un rare sens du romanesque, Gaël Faye évoque les tourments et les interrogations d’un enfant pris dans une Histoire qui le fait grandir plus vite que prévu. Nourri d’un drame que l’auteur connaît bien, un premier roman d’une ampleur exceptionnelle, parcouru d’ombres et de lumière, de tragique et d’humour, de personnages qui tentent de survivre à la tragédie.

Gran bel libro, per una volta sono d'accordo con chi gli ha dato il Goncourt (giovani). Sarà nella Top

domenica 21 gennaio 2018

Leggendo e pensando



Due notizie lette in questi giorni sulla Repubblica e su L’Espresso: una presentazione di un libro di un intellettuale di sinistra sul tema dell’immigrazione e una riflessione sul tema della crescente instabilità nel Sahara. 

Nel primo caso l’autore consiglia, come parte di una nuova politica sull’immigrazione, la possibilità di scegliere in funzione di criteri (primo esempio citato: il titolo di studio). Va da sé che l’intellettuale di sinistra pensa a privilegiare quelli che ce l’hanno un titolo di studio, magari anche una laurea e specializzazione, e non certo di privilegiare chi non ha nulla di tutto ciò. Tutto il suo libro e la presentazione gira attorno a questi problemi, solo alla fine e come contentino, arriva la frase “bisogna intervenire anche nei paesi dei migranti. E naturalmente dovremmo assumerci anche le responsabilità delle cause che spingono gli africani alla fuga: lo sfruttamento, la desertificazione, il land grabbing, …”. Queste posizioni le aveva presentate pubblicamente, una decina di anni fa, Nicolas Sarkozy, il Presidente della Repubblica più fascista e razzista che la Francia abbia avuto negli ultimi decenni. Senza accorgersene, anche la sinistra “governativa”, è arrivata a pensare le stesse politiche della destra. Ci chiudiamo sempre più dentro il nostro “benessere”, che continua a calare, come fossimo su un’isola deserta, senza riuscire più a pensare cosa facciamo in questo mondo e cosa potremmo fare per migliorarlo. 

Gli anni passano, e adesso scopriamo che il Sahel sta diventando il nuovo Afghanistan (interessante articolo di Francesca Caruso sull’Espresso della settimana scorsa). La giornalista ricorda una frase pronunciata da Romano Prodi nel 2012, quando lavorava come segretario generale per il Sahel alle Nazioni Unite: “Il mondo occidentale non aveva nessuna idea di che cos’è il Sahel, perché la Storia ha focalizzato l’attenzione sulla Nato e i Paesi occidentali, sull’Iraq e l’Afghanistan; ma il Sahel è potenzialmente ancora più pericoloso”. Sono passati quasi sei anni, nessuna riflessione seria è stata fatta in casa nostra, a livello europeo e ancor meno mondiale, a parte pensare di mandare truppe (come l’ultima brillante idea del governo Gentiloni). La cosa che mi preoccupa è di dover notare che Prodi, prima di essere a capo del tema Sahel alle Nazioni Unite, è stato due volte presidente del consiglio nonché Presidente della Commissione europea. Non ricordo che, grazie al suo passaggio in questi ambiti di potere, siano cambiate le politiche europee o italiane o almeno si sia lanciata una riflessione amplia sul tema migrazioni e sottosviluppo. Delle due l’una: o i famosi “poteri forti”, glielo hanno impedito, oppure anche lui ha scoperto il tema tardi.

Resta il fatto che la sinistra in tutti questi ultimi decenni, da quando, nel 1985, quei rompiballe dei radicali fecero approvare una legge per l’intervento straordinario contro lo sterminio per fame (http://www.radicalparty.org/it/content/pannella-non-cerco-elettori-tra-i-morti-fame-dafrica), non solo non è riuscita a elaborare una visione seria del problema, ma nemmeno uno stranio di sforzo per pensare qualcosa di diverso dalla destra. Il risultato è quello che abbiamo sotto gli occhi: tra quello che dice e fa il nostro ministro dell’Inferno Minniti, o quello che propone la Lega, oramai è difficile trovare delle differenze. Che questo sia esattamente lo stato delle sinistre europee tutte, non mi rende meno triste.

Quindi, alla domanda banale dell’amico o amica che chiedano cosa fare adesso che siamo nell’emergenza, vien da ricordare che ci sono stati oltre trent’anni di tempo per non cadere nella trappola della emergenzialità. Oramai tutto si fa all’ultimo momento, o meglio ancora si annuncia che si farà e poi nemmeno quello. Ma se questo è l’andazzo, dopo anni e anni con governi cosiddetti “progressisti”, perché dovrei continuare ad andare a votarli? Il primo unto è proprio quello di uscire dalla cultura, fondamentalmente di destra, delle emergenze. Non possiamo seriamente pensare di trattare temi come questi, di portanza storica, sull’onda di emozioni televisive o per fotografie di bambini morti sull’arenile. Siamo seri: la classe politica ha il compito di pensare al di là degli orizzonti del Bar Sport, altrimenti tanto vale mandare a fare il primo ministro anche uno come Di Maio. 

Che la destra ci sguazzi in questo mondo è ovvio. Che la sinistra da decenni non sia capace di elaborare un pensiero, questo mi preoccupa un po’ di più. In questa gazzarra elettorale partita in questi giorni tanti giornalisti fanno notare il pochissimo spazio dell’Europa, come se l’orizzonte, anche il nostro, italiano, finisse a Bruxelles, le nuove colonne d’Ercole. Non trovi uno straccioni partito o movimento che pensi al di là di questo, per cui sei costretto a pensare che la classe politica tutta ci stia allenando a rinchiuderci sempre più dentro casa nostra, pronti a “difenderci” dagli “attacchi” che gli “stranieri” porterebbero al nostro modo di vivere. Che queste cose le pensi un frequentatore del bar di Anguillara dove ogni tanto vado a bere un cappuccino, bar pieno da mattina a sera di poveracci che vanno a buttar via i pochi soldi che hanno in scommesse di tutti i tipi, ecco, che un pensiero basso provenga da quei poveracci, lo posso capire. Ma che questo stia diventando l’obiettivo dove ci vuol portare un governo che continua a definirsi “progressista”, una classe politica infatuata del Macron francese, allora proprio no.


Continuare su questa strada forse servirà a far vendere qualche copia all’autore del libro di cui sopra, ma sicuramente contribuirà a farci star peggio negli anni a venire.  

venerdì 19 gennaio 2018

2018 L6: Fernando Molica - Révolution au Mirandao

Anacaona 2017

Idéaux, drogues et révolution
Dans une favela fictive de Rio de Janeiro gouvernée par le trafic de drogues, l’organisation d’extrême-gauche Connexion Révolutionnaire s’implante peu à peu. Les guérilleros ont décidé d’exploiter la situation sociale explosive des favelas et d’utiliser les armes lourdes des narcotrafiquants. Objectif : déclencher au Brésil la révolution socialiste.
Cette curieuse union entre trafiquants, jeunes idéalistes de classe moyenne et leaders communautaires pose en filigrane la question : le mal peut-il être utilisé pour combattre un mal supérieur ? Après tout, l’argent des narcotrafiquants n’est pas plus sale que celui des oppresseurs…
Fernando Molica signe ici un thriller politique grinçant où le poster du Che côtoie les montagnes de cocaïne, les AK47, des ONG de façade et des policiers peu recommandables. Après avoir été journaliste pour les plus grands quotidiens brésiliens, il est aujourd’hui reporter à la télévision. Il est l’auteur de 7 romans de fiction.

Bel libro, storia molto credibile e ben descritta. Lo consiglio. Sarà nella Top dell'anno

giovedì 18 gennaio 2018

La transizione dall’approccio sistemico all’approccio territoriale

La transizione dall’approccio sistemico all’approccio territoriale - continuando i ricordi passati e recenti

Come ho già avuto modo di scrivere, l’approccio detto dei sistemi agrari era stato messo a punto dal Prof. Mazoyer in quella che era LA grande scuola di agronomia di Francia. Il tipo di studente che frequentava quella scuola era in generale oriundo delle classi preparatorie che da sempre formano l’élite della classe dirigente francese. Anche se una certa selezione si realizzava, (chi sceglieva la cattedra di Mazoyer e Dufumier aveva, a volte, un certo interesse per le tematiche del terzo mondo), rimaneva il fatto che l’impostazione di fondo quando gli studenti francesi arrivavano a quel livello era già stata presa e cioè una certa idea di superiorità morale e intellettuale alla quale, nel caso specifico della cattedra di Mazoyer, si aggiungeva anche una elaborazione teorica assolutamente nuova in Francia (e nel resto del mondo), per cui si rinforzavano, nei fatti, quei tratti di élite privilegiata che sapeva dove e come mettere le mani anche sui temi dello sviluppo agrario.

La traduzione pratica faceva sì che si creasse, malgrado la retorica progressista, una divisione chiara fra il soggetto osservante (l’esperto, maschio o femmina che fosse), e l’oggetto osservato (il contadino, il paesaggio e il sistema agrario del quale faceva parte). Il lavoro analitico quindi si concludeva con una serie di suggerimenti e proposte che venivano messe a disposizione dei committenti (istituzioni pubbliche) che dovevano poi incaricarsi di metterle in opera. Altro aspetto critico era la centralità dell’aspetto agrario (e quindi rurale), l’assoluta irrilevanza della dimensione di genere e di altre questioni che sarebbero venute a galla con gli anni. Ma il problema principale, che mi spinse a cercare strade nuove, fu quello della poca considerazione pratica riferita agli attori che andavamo a studiare. Noi analizzavamo attraverso di loro quello che risultava dalle pratiche e tecniche agricole, riconoscendo loro un savoir-faire storico, ma poi non erano mai considerati al momento di “fare” il futuro di quei sistemi. Il fatto che questo tipo di diagnostici necessitasse un tempo chiaramente maggiore rispetto alle brutte copie dei rapid rural appraisal, non era per sé un elemento centrale nell’autocritica, anche se faceva parte delle preoccupazioni che ci portavamo dietro. 

La riflessione critica cominciò ad accelerare quando, a metà degli anni 90, attraverso un contratto  con l’Università di Padova, creammo un gruppo di lavoro, guidato dal Prof. Franceschetti, sulla tematica del “periurbano”. Ne facevano parte urbanisti, antropologi, economisti, pianificatori territoriali e liberi professionisti specializzati nell’approccio eco-sistemico.   

Un primo momento concreto di azione capitò nel 1996 quando mi venne chiesto di aiutare un programma in corso di messa in opera in una regione della Bolivia, con centro la cittadina di Samaipata. Fu quella l’occasione (parzialmente raccolta nel documento che segue:http://www.fao.org/forestry/11741-0aeb23101258b35f4fa711fa453afb5e.pdf) per renderci conto come il mondo urbano della capitale regionale Santa Cruz, avesse una influenza crescente nei modi di vita e nei sistemi produttivi delle famiglie contadine della zona di Samaipata. La necessità quindi di andare oltre la dicotomia tradizionale di zone urbane e zone rurali si era mostrata in modo quanto mai concreto ai nostri occhi. Le riflessioni in corso col gruppo di Padova costituirono una base solida per inoltrarci in quel tema.

Altro aspetto chiave era la complessità del sistema agrario-forestale nel quale vivevano immerse quelle famiglie e il fatto che per capirne questa complessità bisognasse andare oltre la semplice analisi economica dei sistemi di produzione come eravamo soliti fare. Per questo chiesi a un amico di partecipare al lavoro, forte della sua esperienza professionale in Italia sul tema dei diagnostici eco-sistemici. Grazie a Roberto de Marchi riuscimmo così a forgiare una prima proposta che usciva dal seminato tradizionale dell’approccio sistemi agrari, introducendo la questione ecosistema e cominciando a riflettere sul come mettere assieme ruralità e urbanità. Il documento metodologico che producemmo non venne mai pubblicato, ma ebbe un ruolo non da poco negli anni seguenti quando facemmo il salto all’approccio territoriale.

Un’altra esperienza importante per ripensare criticamente il nostro approccio storico, venne da un lavoro che svolgemmo nella zona di Merida, in Venezuela. In quel caso si trattava di produttori di fiori che vendevano sul mercato di Miami in Florida. I loro sistemi di produzione erano altamente intensivi in prodotti chimici e pesticidi, il che cominciò a creare dei problemi di inquinamento alla falda acquifera che alimentava il villaggio posto più in basso rispetto alle zone di produzione. L’analisi economico confermò quanto ci dicevano i produttori e cioè che in quel modo, anche con alti costi di produzione, avevano dei benefici alti che, ai loro occhi, giustificava ampiamente i problemi secondari di salute.In questo caso non si trattava solo di espandere l’area del “sistema agrario” fino al mercato finale, ma andare al fondo del problema che non era tanto di tipo tecnico (all’epoca l’agroecologia era lontana dai nostri pensieri) quanto di salute pubblica. Quando anche i figli dei produttori cominciarono a manifestare segni di problemi di salute, causati dall’acqua inquinata, fu possibile proporre quello che poi sarebbe diventata la base del nostro futuro approccio e cioè: il dialogo. Il processo non fu semplice ma una soluzione venne trovata alla fine; soluzione che aveva il pregio, contrariamente al nostro modo di fare “diagnostici”, di essere la risultante di un processo locale, dove gli attori erano stati loro e dove il punto d’arrivo risultava da un dialogo e negoziazione fra entità che, questo lo analizzammo più tardi, non avevano grosse asimmetrie di potere. 

Sulla scorta di queste esperienze, decisi di proporre agli amici e colleghi latinoamericani, di varia provenienza, governativa, ONG, università e/o Think tank dei movimenti sociali, di ritrovarci per avere una sana e aperta discussione sui limiti dell’approccio “sistemi agrari” e per cominciare a pensare quali aspetti potessero essere migliorati. Ci ritrovammo quindi, nel 2001, in una località non troppo lontana da Caracas, a Higuerote, dove, sulla base di un documento che preparai pochi giorni prima, mettemmo le basi di quello che sarebbe diventato l’approccio territoriale negoziato. Come seguito immediato di quelle riunioni intense, proposi a due dei partecipanti,Isabelle Touzard del CNEARC di Montpellier, Francia e Hernan Mora dell’Università di Heredia, Costa Rica di aiutarmi a mettere in musica sotto forma di un primo documento di discussione, cosa che avvenne nei giorni tesi del Settembre 2001.

La goccia finale che, da un certo punto, mise assieme queste prime riflessioni, arrivò il mese seguente, ottobre 2001 quando, facendo seguito al tentativo di dialogo che il governo colombiano portava avanti con le FARC, e convinti di essere arrivati a un punto quasi di non ritorno, il Presidente Pastrana chiese aiuto alla FAO perché mandasse una missione di formulazione di un Programma di Sviluppo per la Pace (Proderpaz). Tre erano i temi chiave e il primo di questi era, ovviamente, la questione della terra. Nella lettera ufficiale del Presidente indirizzata al nostro Direttore Generale, era fatta indicazione specifica che per il tema terra dovessi essere io ad occuparmene, date le esperienze che avevamo già in corso in Mozambico e Angola in paesi in conflitto e post-conflitto. Ritornerò in altri post su questa storia, resta il fatto che le riflessioni che portammo avanti col gruppo di lavoro che misi in piedi in Colombia, sulla base anche delle riflessioni del gruppo di Higuerote diedero una base di partenza solida e, come mi resi conto in Colombia, attiravano anche il pubblico di policy-makers e altri attori che erano parte attiva nel fare e disfare quei territori.

Introducemmo una serie di novità, oggi abbastanza ovvie per i consulenti con cui ho lavorato in questi anni, ma voglio comunque ricordarle qui. Iniziamo con la necessità di andare oltre la dicotomia rurale-urbana. In Brasile era stato proposto il termine “rurbano” (Graziano da Silva), uno spunto che andava esattamente nella stessa direzione che stavamo prendendo noi. Pur non essendo a conoscenza (se non molto vaga) del programma dell’Unione Europea LEADER, proposi di utilizzare il termine territorio, perché aveva connotazioni di storia, di geografia e non ammiccava a questioni di tipo amministrativo. La definizione precisa la proponemmo a partire dall’anno seguente, quando il gruppetto di giovani che potei prendere a lavorare con me (voglio qui ricordare Federica Ravera e Silvia Clementi in particolare, a ci si aggiunsero Stephan Dohrn e Jeff Hatcher), cominciò ad analizzare parola per parola, concetto per concetto quanto stavamo mettendo per iscritto.

Il “territorio” era chiaramente un concetto che voleva mettere assieme realtà diverse, le rurali, le urbane e le fasce di contatto (il perturbano sul quale avevamo già avuto modo di scrivere assieme all’amico Paolo Toselli: http://www.fao.org/docrep/W6728T/w6728t03.htm). Per questo, e fino ad oggi, non capiamo il senso della riflessione portata avanti in America latina sul tema del “territoriale rurale”, un non senso dal mio punto di vista. Parlare di territorio significava aprire le porte a una serie di attori che noi, come FAO, non avevamo mai considerato prima. Non si trattava tanto di proprietari terrieri che risiedessero in città, oppure i supermercati che, con le loro scelte, potevano determinare i sistemi di produzione agricola di una zona più o meno lontana. Si trattava proprio di guardare con occhi nuovi a dinamiche di occupazione dello spazio da parte di attori le cui logiche erano diverse da quelle degli agricoltori, piccoli o grandi, ma che, dal loro punto di vista, avevano la stessa legittimità che quelle dei nostri “clienti” storici.

Ricordo che in quegli anni la FAO aveva anche pubblicato il più grande studio realizzato con una gran quantità di università e centri specializzati, sulle disponibilità di terre nel mondo. Il lavoro, denominato Global Agro Ecological Zoning (GAEZ) divenne pubblico nel 2002. Si veniva così a dare una certezza numerica a quello che osservavamo oramai in parecchie regioni del mondo: una corsa accelerata per occupare, in modo legale o meno, delle risorse naturali, terre, acque, foreste, per usi svariati, non necessariamente agricoli e non necessariamente in linea con i principi proposti dalla FAO rispetto alle qualità dei suoli. Quello che osservavamo, da noi in Italia così come in Mozambico oppure in Tailandia, che una serie di attori con interessi economici diversi, volevano avere accesso a delle risorse il cui stock, fisso, iniziava a diminuire, per portare avanti dei progetti di “sviluppo” di stampo diverso: che si trattasse della semplice espansione urbana, pianificata o meno, delle richieste per usi artigianali o industriali, di aree ricreative a grande consumo di terra e acqua (i golf per esempio) o per farne delle riserve naturali, prese individualmente erano tutte richieste legittime, ma collidevano tra loro dato che le risorse erano finite e, anzi, calavano.

Bisognava quindi, al di là di preoccuparsi di come migliorare i sistemi produttivi dei contadini o occuparsi di un generico accesso alla terra, capire meglio le dinamiche territoriali in corso, chi ne fossero gli attori, quali i presupposti e le strategie, gli interessi e le posizioni di tutti loro, per vedere se fosse possibile trovare un punto di accordo fra tutte queste esigenze. Il metodo storico era ancora uno dei pilastri centrali del nuovo approccio.

Il metodo che proponevamo era, come dicevo prima, basato sul dialogo e la negoziazione. Eravamo coscienti che si trattava, molto spesso, di attori con poteri economici e politici ben diversi, cioè con forti asimmetrie, ma eravamo altrettanto coscienti che la tematica delle dinamiche di potere non era proponibile all’interno di una organizzazione conservatrice e tendenzialmente filogovernativa come la FAO. 

Per questa ragione fin dall’inizio mettemmo un velo di buonismo, di quella retorica tanto cara agli anglosassoni, e cioè la “partecipazione”. Tutti quelli che hanno lavorato con metodi partecipativi sul campo, sanno benissimi quanto estrattivi e quanto poco democratici possano essere. Il mio amico costarricense, Hernan, aveva anche coniato un nuovo sostantivo che metteva assieme la partecipazione (teorica) con la realtà della manipolazione: “participulaciòn”. Ma chiamando così il nostro approccio eravamo certi di incontrare meno resistenze interne, dato che, come sospettavamo, nessuno dei capi servizio, certamente non il nostro anglosassone totalmente disinteressato a questo tipo di dibattiti, avrebbe letto i documenti che proponevamo. Il tema delle dinamiche di potere rimase quindi on hold per parecchi anni, fino ai giorni nostri direi.

Una delle tante difficoltà che incontrammo dentro la FAO fu la difficoltà di capire, da parte di colleghi abituati ad occuparsi di cose tecniche, concrete, e poco usi a lavorare su “processi”, che questa volta si trattava di fare uno sforzo diverso, da un lato ampliare l’orizzonte dell’osservazione, eventualmente invitare anche altre agenzie ONU oppure altre organizzazioni a condividere il “diagnostico” territoriale, analizzare attori che conoscevamo storicamente poco e male, entrare in mondi nuovi, di psicologia e pedagogia (capire e svelare gli interessi veri dei vari attori, e non limitarsi alle loro posizioni ufficiali e pubbliche) e, soprattutto, accettare il fatto centrale che, se un accordo era possibile sull’uso di una certa parte del territorio, questo doveva essere il risultato delle loro discussioni e non delle conclusioni degli esperti esterni. 

Quest’ultimo fatto ancora oggi è difficile da digerire, soprattutto dopo decenni di slogan tesi a ricordare che noi siamo il centro d’eccellenza per l’agricoltura e l’alimentazione. Conseguenza logica del sentirsi i primi (o fra i primi) è che i nostri consigli “devono” essere ascoltati. Conseguenza opposta nel caso di un approccio basato su dialogo e negoziazione: noi possiamo dare un aiuto tecnico, mettere sul tavolo elementi per facilitare la comprensione delle dinamiche territoriali, rischi e vantaggi, ma diventiamo di fatto degli elementi periferici. Al massimo, sfruttando la reputazione delle Nazioni Unite di non essere al soldo di un paese (speriamolo), possiamo diventare dei facilitatori di questo dialogo. La decisione finale comunque deve essere degli attori, deve essere costruita lì e deve essere accettata e legittimata non solo politicamente ma, soprattutto, socialmente. 


Iniziavamo ad esplorare strade nuove, che non conoscevamo completamente nemmeno noi. Ma  eravamo sicuri che quella era la strada per ridare credibilità alla FAO sul terreno, usare al meglio le nostre esperienze tecniche, ma in quadro di diversa prospettiva sociale: maggior umiltà e maggior ricerca dei punti di frizione, cosa che inevitabilmente, ci avrebbe portato in rotta di collisione con la nostra gerarchia. Ma di questo parleremo un’altra volta.

martedì 16 gennaio 2018

2018 L5: Hans Georg Lehmann - Il dibattito sulla questione agraria nella socialdemocrazia tedesca e internazionale

sottotitolo: Dal marxismo al revisionismo e al bolscevismo


Feltrinelli,1977

Ripeto quanto già scrissi anni fa quando lo lessi per la prima volta:
Mi è capitato di leggerlo molti anni fa, sia per interesse (lavoro nel campo dello sviluppo agrario) sia, banalmente, perchè la traduzione dal tedesco l'aveva fatta mio fratello.
Più passano gli
 anni più mi rendo conto di quanto questo libro sia centrale per chi si interessa a questi temi da una prospettiva di "sinistra", soprattutto per capire lo stato confusionale dei partiti di sinistra attuali su questi temi e l'assoluta mancanza di analisi critica delle loro posizioni passate (ben spiegate in questo libro). Dovrebbe essere una lettura obbligatoria nei molti Masters dedicati ai temi della cooperazione nei paesi europei aperti a questi temi.