Visualizzazioni totali

sabato 25 ottobre 2014

2014 L44: Balzac et la Petite Tailleuse chinoise - Dai Sijie

Gallimard, Folio, 2000

Dans la Chine de Mao, savoir lire, c'est déjà faire partie des intellectuels. Et on ne badine pas avec les intellectuels : on les envoie se rééduquer dans les campagnes, travailler dans des rizières ou dans des mines. C'est ce qui est arrivé au narrateur et à son ami Luo, si jeunes et déjà marqués du sceau infamant d'"ennemis du peuple". Pour ne pas sombrer, ils ont heureusement encore quelques histoires, quelques films à se raconter, mais cela fait bien peu. Jusqu'à ce que, par miracle, ils tombent sur un roman de Balzac : petit livre à lire en cachette, tellement dangereux, mais tellement magique, qui changera le cours de leur vie en leur ouvrant la porte de la fille du tailleur, en rendant possible ce qui ne l'aurait jamais été... Il fallait oser confronter le monde de Balzac et la Chine de Mao : Dai Sijie, réalisateur renommé qui vit en France, a réussi cet improbable pari et on lit avec enthousiasme et frénésie ce premier roman parfaitement maîtrisé.

Dopo la Russia e i goulag di Stalin, ci voleva un po' di rieducazione cinese. Libro simpatico, da leggere in un attimo...

mercoledì 22 ottobre 2014

2014 L43: Le Météreologue - Olivier Rolin

Seuil, 2014

Son domaine c’était les nuages. Sur toute l’étendue immense de l’URSS, les avions avaient besoin de ses prévisions pour atterrir, les navires pour se frayer un chemin à travers les glaces, les tracteurs pour labourer les terres noires. Dans la conquête de l’espace commençante, ses instruments sondaient la stratosphère, il rêvait de domestiquer l’énergie des vents et du soleil, il croyait « construire le socialisme », jusqu’au jour de 1934 où il fut arrêté comme « saboteur ». À partir de cette date sa vie, celle d’une victime parmi des millions d’autres de la terreur stalinienne, fut une descente aux enfers.
Pendant ses années de camp, et jusqu’à la veille de sa mort atroce, il envoyait à sa toute jeune fille, Éléonora, des dessins, des herbiers, des devinettes. C’est la découverte de cette correspondance adressée à une enfant qu’il ne reverrait pas qui m’a décidé à enquêter sur le destin d’Alexéï Féodossévitch Vangengheim, le météorologue. Mais aussi la conviction que ces histoires d’un autre temps, d’un autre pays, ne sont pas lointaines comme on pourrait le penser : le triomphe mondial du capitalisme ne s’expliquerait pas sans la fin terrible de l’espérance révolutionnaire.

Gran libro. Consigliatissimo. Ovviamente sarà nella Top.
 

martedì 21 ottobre 2014

Myanmar 3: I nipotini di U Thant



Ero piccolo allora, credo quinta elementare, quando sentii per la prima volta parlare delle Nazioni Unite. Mi ricordo ancora adesso il nome, il birmano U Thant, per la semplice ragione che noi ( ma non credo fossimo né i primi né gli unici in Italia)  ci inventammo la battuta sui nomi dei suoi figli (utantuno, utantadue…). 

Adesso però che sono qui nel suo paese, scopro con piacere che si è trattato di un personaggio più interessante di quanto pensassi (e meno sapessi). Non solo perché rinunciò ad essere ricandidato per un ennesimo mandato, ma proprio per la sua storia personale. Come ci racconta wiki, “rimasto orfano di padre a quattordici anni, visse insieme ai tre fratelli un'adolescenza caratterizzata da ristrettezze economiche. 

All'università, dove studiava storia, conobbe il futuro presidente U Nu (ed eccoci ancora qua con i numeri – chiaro che se questo si chiamava Unu, il suo futuro era scritto nei numeri, per cui sarebbe stato Onu) che lo incluse nel proprio entourage politico. Venne eletto dopo che il Segretario generale in carica, Dag Hammarskjöld, era stato ammazzato con un incidente aereo cammuffato. Si trovò in mezzo a una serie di grosse crisi, a cominciare da quella mediorentale con Nasser, per finire poi col Vietnam. Alla sua morte, la giunta militare rifiutò di tributargli l’onore di funerali di Stato. C’è ancora tempo per rifarsi, se il governo attuale lo vuole.

Era un’epoca quando la Birmania era il primo esportatore mondiale di riso. Difficile da crederlo vedendo lo stato della sua agricoltura oggi. Dicono che il paese abbia i suoli più fertili del mondo (sarei curioso di vedere le analisi, dato che anche nella valle centrale del Cile non scherzano con tassi di materia organica del 16%!), il che spiega bene perché gli inglesi ci tenessero tanto a queste terre.

Adesso che i nipotini di U Thant hanno iniziato un inaspettato processo di apertura, tutti si prendono a sognare: tornare a diventare il granaio dell’Asia, innanzitutto, ma più in generale sognano un futuro molto migliore del presente, dove una parte molto importante della popolazione vive sotto la soglia di povertà.

Certo, l’apertura decretata nel 2012 ha avuto un effetto benefico immediato nelle casse dello Stato: il debito pubblico è stato tagliato della metà dai paesi membri del Club di Parigi (per capirci, il risparmio immediato è di 6 miliardi di dollari, nonché una rinegoziazione del restante su 15 anni con 7 anni di bonus). Le previsioni del FMI sono diventate incoraggianti per cui adesso tutti i semafori sono al verde: le possibilità di buoni affari si annunciano numerose, per cui il paese rischia di diventare un Eldorado asiatico nei prossimi anni (anche se qualcuno si preoccupa di mettere in guardia: www.info-birmanie.org. La taglia del paese non permette di sperare faccia da traino per tutta la regione, ma resta comunque sufficiente per mettere di buon umore molti appartenenti alla business community.

Gli scenari futuri positivi per alcuni lo sono potenzialmente meno per altri. Si hanno notizie di accaparramenti di terre con denunce di accelerazioni dal momento dell’apertura, cosa che agita molto il mondo delle organizzazioni non governative. Il governo cerca di correre ai ripari, proponendo una politica ed una legge che finalmente riconosca i diritti consuetudinari delle comunità locali. Se ne discute adesso per cui sarà importante vedere come questo si tradurrà in pratica. Certo, in teoria dovrebbe essere nell’interesse di tutti che le occasioni di business (molte saranno centrate sulle risorse naturali) siano non solo negoziate col governo centrale ma con le autorità locali nonché con gli aventi diritto storicamente insediati, il tutto tenendo conto della necessaria preservazione ambientale. Insomma bisognerà darsi da fare subito per evitare che la land rush non arrivi anche qui come altrove. Vedremo quando inizieremo a lavorare sul terreno.

Altri settori sono in pieno boom, come quello turistico, che ha visto raggiungere e superare la soglia del milione di persone nel 2012, tre volte di più che l’anno precedente. Anche qui si misura con mano la necessità di andare con il ritmo giusto. Il paese non sembra avere ancora delle capacità ricettive ad alto livello, anche se le principali monete internazionali sono oramai accettate in tanti posti (magari più il dollaro…). I trasporti restano quello che sono, cioè precari e insufficenti, internet è ancora un terno al lotto e il traffico sta diventando rapidamente come quello delle altre capitali regionali, cioè caotico ed imprevedibile.

Insomma, un paese interessante, con le sue contraddizioni ma anche, in questo momento storico, un paese dove chi fa un lavoro come il mio, deve esserci.

Ultime sensazioni, ricordi ed immagini prima di andare all’aeroporto: fra le tante aperture, grazie a Dio non c’è ancora né MacDonald né Starbucks. La coca-cola si trova, ma bisogna proprio chiederla, altrimenti qui vanno con altre bevande (confermo che la birra locale è molto buona). Per strada tante donne di tutte le età hanno le guance colorate di bianco, a prima vista sembra come quando ci si mette una botta di Nivea e ne resta un po’ da spalmare…, credo si chiami thanaka, una crema che usano per proteggersi dal sole (in questo periodo siamo quasi in inverno per cui anche se a noi sembra un caldo umido insopportabile, il peggio viene più tardi). Gli uomini sono, per la maggior parte, con il longyi, la gonna che arriva quasi fino alle caviglie. Ultimo ricordo, i denti rossi (prodotto dalla noce di Betel) di un venditore di bibite al mercato.

Scappo perché l’autista dice che col traffico non si sa mai.

lunedì 20 ottobre 2014

2014 L42: Storia di Mayta - Mario Vargas Llosa


Einaudi 2011

Mayta è il nome del presunto eroe di un velleitario golpe trockijsta che Vargas Llosa immagina essersi svolto, fra passioni politiche e conflitti ideologici, nel 1958 in America Latina. A metà del Novecento, in quei paesi, fra avventurieri e idealisti, la libertà stava sempre a un tiro di schioppo. Letteralmente. E per conquistarla la via rivoluzionaria sembrava sempre la migliore. In questa ricostruzione, al solito magistrale nello stile, Vargas Llosa ci fa ripercorrere la vita dei diversi personaggi attraverso le testimonianze dei loro conoscenti e il confronto, a posteriori, di questi racconti con la realtà. Il risultato non può che essere fra l'amaro e l'esilarante. Cosí, mentre conosciamo un uomo che è la personificazione stessa della marginalità, eppure è figlio di quel tempo, entriamo anche in contatto con la piú ampia e affascinante realtà sudamericana.

Leggo solo ora che i critici dicono sia uno dei più bei libri di Vargas Llosa... confermo. Sarà nella Top

domenica 19 ottobre 2014

Myanmar 2: Il potere delle parole

Approfondisco un po’ la questione etnica anche per mia propria memoria future dato che intendo venire a lavorare qui.

Nel post precedente avevo ricordato come il 2012 sia stato uno spartiacque per certi versi miracoloso fra un periodo dittatoriale durato vari decenni e un post che si sta cominciando a costruire, sicuramente più aperto e democratico come possiamo constatare stando qui, anche se ancora pieno di incertezze e foriero di possibili sorprese.

Partiamo dalla questione etnica. Il paese è grosso modo formato da tre grandi vallate centrali che si riuniscono verso la regione del Delta, alle quali fanno da corona una serie di montagne e rilievi. La parte centrale, più fertile, dove da sempre si trova l’etnia birmana, era stata quella colonizzata dagli inglesi. Il paese di fatto prese il nome dal gruppo etnico e i loro rappresentanti passarono a considerarsi come i veri (ed unici) birmani. Il fatto che attorno a loro esistessero vari gruppi minoritari, con diversa religione e diversi stili di vita, non li preoccupava granchè dato che erano accessori a quello che era il “loro” Stato.

Gli inglesi “scoprirono” la questione etnica al momento di andarsene. Sia come sia, il tentativo, primo ed unico, di unire le varie “nazioni”, venne fatto nel 1947, all’alba dell’indipendenza di Burma (Birmania). L’Accordo di Panglong, nelle intenzioni del colonizzatore uscente, doveva essere mandatorio per la nuova amministrazione indipendente, garantendo il rispetto dei diritti etnici e l’autodeterminazione delle minoranze nonché il loro coinvolgimento nel futuro Stato.

Magari avrebbero fatto meglio a promuoverlo prima, vallo a sapere, sta di fatto che il nuovo regime militare fece fuori uno dei leader della maggioranza etnica birmana che stava appoggiando questo scenario, il padre di The Lady, e nel contempo aveva deciso di risolvere alla vecchia maniera quello che doveva sembrar loro come un “dettaglio”  storico, come direbbe il buon Le Pen.

Nascono così varie guerriglie che fra alti e bassi sopravvivono fino ai giorni nostri quando, con la solita inerzia storica, il tema “indigeni” comincia ad entrare nell’agenda internazionale. La risonanza aumenta poco a poco e le rimostranze dei vari gruppi cominciano a trovare una eco fuori dal paese. Dato poi che non si tratta altro che rivendicazioni totalmente in linea con l’agenda dell’accordo del 1947, cioè nulla di rivoluzionario, pian piano le pressioni internazionali iniziano anche su questo punto.

Cosa sia realmente successo fra il 2010 e il 2012 nella mente dei militari e del loro Presidente, probabilmente la necessità di avere accesso a fondi internazionali per lo sviluppo nonché a mercati regionali ed internazionali da dove erano un po’ esclusi per via della loro rozzezza, sta di fatto che il discorso ufficiale cambia, fintantochè il Presidente Thein Sein dichiarò che i nemici di lunga data avevano lo stesso obiettivo: “Le attese dei gruppi etnici sono di avere gli stessi diritti di tutti. Standards uguali sono anche il desiderio del nostro governo.” Parole attese per decenni.

Che non si sia trattato di un ballon d’essai lo si è visto subito dato che le discussioni in vista di un possibile cessate il fuoco hanno accellerato e oramai si è vicini ad una soluzione per alcuni dei punti più spinosi.
E’ chiaro a tutti il possibile uso strumentale di un accordo del genere, che servirebbe molto all’attuale governo per guadagnare altri punti nella speciale classifica redatta dagli Occidentali, sul tema Democrazia e Affari: più si va su, più arrivano soldi per fare business per tutti… specialmente per i più svegli.

Detto questo, è anche chiaro che una cosa è fermare un accordo di cessare il fuoco, altra cosa è risolvere strutturalmente un problema che esiste da quando esiste il Paese. Cioè, in altre parole, la Birmania-Myanmar non ha completato il suo processo di formazione di Stato Nazione, federale o centrale che sia, e questo richiederà tempo, soldi ed energie. Il punto che questo processo comincia quando in molte altre parti del mondo si è passati oramai al post-Stato Nazione, che comincia a scricchiolare in molti punti, senza che sia chiaro cosa possa venirne fuori. Ma se stiamo alla ricostruzione storica che voleva lo Stato-Nazione come elemento chiave per il nascente mercato interno necessario allo sviluppo del capitalismo moderno nelle prime fasi, e che adesso spinge per spazi più macroscopici, come vediamo con i vari Trattati in corso di negoziazione sotterranea, il rischio che Myanmar arrivi tardi all’appuntamento esiste.

Arrivare tardi nel senso di poter diventare finalmente uno Stato completo, stabile, indipendente, non più un semplice vassallo della Cina, ma che possa avere una sua posizione, dei suoi interessi e una sua dinamica. 

Questo sogno di “stabilità democratica” sembra essere molto presente in chi sta guidando il paese attualmente. Cioè voler diventare qualcuno di presentabile, non il più né il più povero, ma semplicemente essere riconosciuti nel consesso internazionale. Ecco quindi le accelerazioni sui molti temi legati alle variabili decise ad Occidente su cosa serva per essere classificato come democratico.

Potrebbe essere quindi un buon momento: le rivendicazioni etniche possono trovare spazio politico perché non sono contrarie in principio al disegno globale. Vincere le resistenze e i piccoli interessi non sarà facile, ma potrebbe non essere impossibile. L’agenda è già scritta: i diritti territoriali sono la prima cosa, sui quali costruire il rispetto per una identità culturale, una storia e dei valori che potrebbero trovare forma adequata in una federalizzazione dello Stato. In fin dei conti a nessuno dei vicini serve un paese instabile ed incasinato. Ce ne sono già abbastanza nella zona. Per la Cina, poter arrivare al golfo del Bengala senza problemi, passando per Myanmar, è di sicuro meglio che dovendo attraversare zone in conflitto. Per la Thailandia, l’India e il Bangladesh vale lo stesso principio anche se, per quanto riguarda quest’ultimo, il problema con i Rakhine nella zona occidentale di Myanmar, rischia di essere alquanto più complicato da risolvere.

Alla prossima.

sabato 18 ottobre 2014

Nel paese di The Lady



La prima delle tante piccole sorprese arrivando a Yangon, antica capitale della Birmania, da anni ribattezzata Myanmar è la conferma che per tutti Aun Sang Suu Kiy è proprio The Lady, come il titolo del film a lei dedicato.

Poi ti colpisce la gentilezza della gente, che mi dicono comunque essere abbastanza “mediterranea” da scaldarsi, commentare, protestare e tutto il resto. Anche la città sembra più tranquilla delle altre città asiatiche (non molte) che ho frequentato. Traffico intenso, ma silenzioso. Pochi furbetti (comunque esistono, li ho visti…) che evitano le code passando per le altre corsie, ma in genere rispetto per gli altri. Una sensazione generale di pulizia, anche se sembra non sia sempre così (certo se ripenso a Katmandu… un altro mondo qui). La cucina è piuttosto interessante … e nei limiti, cerco di conoscerla. Da ultimo, ci metterei anche una apertura di spirito da parte dell’unico alto funzionario del governo con cui ho parlato, una situazione simile a quella che trovai l’ultima volta che tornai in Laos un paio di anni fa.

Questo per la parte buona. Ma potremmo aggiungere anche un riferimento alla decisione, presa un paio d’anni fa dalla giunta militare al potere di far partire un processo di democratizzazione che va avanti sul serio. Alcuni dicono che il Presidente voglia prepararsi per l’aldilà, e quindi debba riscattare un passato tetro per cui va avanti anche contro resistenze interne sulla strada scelta.

Non mi dilungherò su cosa sia stata la dittatura militare in questo paese, seguita al controllo ferreo inglese prima. Un paese multicolore e multietnico dove ovviamente stanno scoppiando le stesse problematiche che troviamo in ogni altra parte del mondo, dalla Scozia al Cile: volontà di essere riconosciuti e rispettati che da queste parti ha preso la strada dei combattimenti nella foresta. Pare ci siano, in corso, 24 conflitti armati nel paese, questo mentre il governo cerca di negoziare un cessate il fuoco generale. 24 sono molti, anzi sono troppi.

Vengo qui per ascoltare e capire un fenomeno raro: un governo che aveva in mano tutto decide di punto in bianco di iniziare volontariamente a cedere parte, piccola se vogliamo, di questo potere e lanciarsi su una strada che dovrebbe portare a una democratizzazione del paese. Non succede spesso, sarete d’accordo con me. Chi ha il potere se lo tiene stretto e casomai prova ad espanderlo anche in altri settori. L’ideale è arrivare ad una egemonia economico-finanziaria accoppiata ad una culturale, un po’ il modello transnazionale americano che per l’essenziale però passa fuori dalle istituzioni pubbliche e va molto sul privato. Qui al contrario tutto si gioca dentro uno schema molto istituzionale: ristabilire un equilibrio parlamentare o almeno una pluralità di voci, riportare la “rule of law” come regola base del futuro paese, rimettere in piedi le istituzioni dello Stato ma dentro uno schema aperto alle altre istanze, etniche, politiche e confessionali.

La questione che mi porta qui è ovviamente legata alla terra. Ancora una volta è fonte di preoccupazione per tutti. Per le imprese straniere che sognano di metter le mani in modo regolare sulle ricchezze nazionali, in modo da togliersi di dosso quei concorrenti locali che, sfruttando frontiere porose ed immense (oltre duemila chilometri di frontiera in comune con la Cina, per lopiù in mezzo a foreste), possono avere dei vantaggi comparati ineguagliabili dentro un mercato “informale”. Questi attori spingono quindi verso la messa in piedi di regole, leggi ed istituzioni capaci di offrire le buone condizioni per il business (il loro ovviamente).

Poi ci sono i vari gruppi etnici che al contrario temono l’arrivo di questi potenti attori e che preferirebbero sicuramente un futuro molto diverso che parta dal riconoscimento dei loro diritti territoriali. Aggiungiamoci poi le piccole comunità, i contadini senza terra – ce ne sono anche se nessuno sa quanti – tutti nella stessa situazione di paura ma con un’agenda diversa dai gruppi etnici anche se probabilmente totalmente indefinita.

Potremmo metterci anche i grandi gruppi ecologisti internazionali che sicuramente vorrebbero spingere per politiche più conservatrici in materia di risorse naturali e i vari donanti che, direttamente o meno, influenzano e sono influenzati da queste dinamiche.

La piccola, vivace e crescente società civile paga ovviamente lo scotto della sua gioventù per cui è ancora facile preda di parole d’ordine importate da fuori, con poco spessore storico locale, e quindi anche loro prede potenziali di giocatori più grandi e più smaliziati. Accompagnare la crescita di queste voci nuove è sicuramente una sfida interessante, ciò non toglie che magari prima bisognerebbe entrare meglio nelle sfere del potere locale per capire cosa stia succedendo sul serio e perché tutto questo adesso.

Il fatto che in questi mesi si sia accellerato molto sulla nuova politica sull’uso delle terre e sulla futura legge sulla terra, è comprensibile pensando alle future elezioni presidenziali. Il governo, anzi il Presidente, vuole mostrare dei risultati concreti in temi delicati, in modo da tagliare le gambe dell’appoggio internazionale sotto i piedi di quella che, ragionevolmente, sarà la sua avversaria alle elezioni: The Lady.

Quindi, dopo il Big Bang, si capisce quale sia la logica. Accellerare per vincere le resistenze dei settori più conservatori, avere dei risultati da mostrare per poi andare con speranze di vittoria alle presidenziali. Vincerle contro The Lady sarebbe la coronazione di un processo di democratizzazione che comunque non farebbe perdere il potere vero a chi ce l’ha in mano.

La sfida vera è capire quanto lontano vogliono andare sul serio, cioè se i settori che più ne hanno approfittato possono rischiare una minima perdita di potere (economico od altro). Questo non lo sappiamo anche perché non abbiamo studiato il Big Bang. A parte l’ipotesi di un ripensamento buddista in tarda età, non ne sento altre in giro. Quindi al non avere un chiaro punto di partenza, gli scenari possibili sono molteplici, legittimi anche se non certi.

Resta il fatto che la linea rossa lungo la quale si muove il potere è realmente sottile. 24 conflitti in corso possono far saltare il banco. Nemmeno l’opposizione, mi dicono, ha le idee chiare su cosa fare con tutte le rivendicazioni territoriali delle minoranze etniche. L’impressione è che si sia aperto un vaso di Pandora, ma che non sia facile prevedere cosa salterà fuori. E ricordiamoci che ogni nuovo conflitto, ogni nuova protesta legata alle risorse naturali (e ne abbiamo ogni giorno), portano una goccia a quelli che, avendo accumulato potere, soldi e tutto il resto, temono di perderlo. Il paese ha bisogno di soldi, come tutti del resto, per cui devono creare condizioni per far venire i capitali internazionali. A esser onesti, dalle dichiarazioni di esponenti del governo sembrerebbe poter dire che non sono disposti proprio ad abbassare i pantaloni: certo, sono a favore del settore privato, ma ricordano che sono plurietnici e che i diritti locali vanno rispettati.

Insomma, la facciata c’è tutta. Adesso vedremo dove andremo a finire. Inutile dire che la passione che in così poco tempo mi ha suscitato questo paese è segnale che vorrei tanto che io e i miei consulenti entrassimo anche noi a giocare una piccola parte di questa partita. Abbiamo cose da apportare, nonché da impoarare, soprattutto nel tema delle dinamiche di potere, pensando alle ambizioni che abbiamo di metterci a disposizione anche per crisi maggiori.

mercoledì 15 ottobre 2014

Rieccoci con l’Ebola – ma non dimentichiamo il resto



I morti accertati sono oltre 4mila, quindi possiamo dire che l’Ebola uccide, quest’anno, più del Mediterraneo. Se ampliamo la prospettiva, usando i dati pubblicati oggi dall’Espresso, fra il 2000 e il 2013 i migranti morti sarebbero stati più di 23 mila. Questo per capire meglio le proporzioni.
Ebola… e quanti altri virus del genere dobbiamo aspettarci nei prossimi anni? Secondo un centro di ricerca americano (faccio riferimento a un programma visto su ARTE un paio di settimane fa), una stima potenziale sarebbe di 300mila nuovi virus sconosciuti per il momento. 300mila, non bruscolini. 

Quindi va bene parlare di Ebola, ma magari ricordiamoci anche il Marburg, cugino dell’Ebola, che ha appena festeggiato il suo ritorno sui giornali col primo morto in Uganda.

Allora, leggiamo i comunicati stampa, seguiamo le interviste, leggiamo i giornali e tutto il resto. 

Continuo a non trovare nulla di nuovo, a parte lo sciopero degli infermieri in Liberia dato che non sono pagati. Mi sembra giusto, loro rischiano la pelle, non certo gli economisti della Banca Mondiale o del Fondo Monetario. Perché penso a loro? Semplice. Come già dicevo in precedenza su questo tema, la distruzione dei servizi sanitari nazionali viene da lontano, da quei famosi Piani di Aggiustamento Strutturale imposti da quei due nei lontani anni 80. Ricordiamoci che, anche se in versione aggiornata, sono questi stessi approcci che la Banca e il Fondo, assieme a Bruxelles, usano per calmare gli spiriti dei paesi deboli dell’Europa.  Distrutti i settori dell’educazione e della salute (nonché dei servizi all’agricoltura), adesso quando le nostre ONG vanno a operare in quei luoghi si trovano davanti a una ignoranza crassa per cui li scambiano per portatori del virus (una malattia portata dall’uomo bianco secondo molte testimonianze), e questo complica moltissimo il lavoro sul terreno. Ma come potrebbero non essere così indietro culturalmente se le loro scuole sono state annientate? E cosa dire dei loro ospedali e, soprattutto, dei centri sanitari nelle campagne, cose che ovviamente non esistono più?

Avevo già avuto modo di dire forza Ebola. Solo lo spauracchio che qualcosa di serio arrivi da noi potrà far cambiare qualcosa in maniera strutturale: quello di cui abbiamo bisogno è di rimettere in piedi una sanità efficiente e pubblica, gratuita, in quei paesi. Dobbiamo pagarla noi? Sì. Dato che si tratta di proteggere le nostre paure. Per l’oggi ma soprattutto per il domani.

Resto comunque scettico che anche se i morti arrivassero a 5-6 volte tanto, qualcosa cambierebbe. I 23 mila morti nelle rotte dei migranti per venire da noi non hanno prodotto assolutamente nulla. Perché dovrebbe preoccuparci l’Ebola? Perché è infettivo? Ma anche l’avarizia, la grettezza, il disprezzo degli altri, il razzismo sono tutti contagiosi eppure non ce ne preoccupiamo.

Non moriremo di Ebola, ma del TTIP (Partenariato transatlantico su commercio ed investimenti) magari sì. La negoziazione sull’accordo transatlantico va avanti, senza che ne sappiamo granché. Per chi non lo ricordasse si tratta (assieme al suo omologo transpacifico) di accordi commerciali per la creazione di un enorme mercato unico; espressione di quella ideologia ultraliberistica che ha condotto l’economia mondiale alla crisi più grave dal 1929 ad oggi. Quella crisi che è prodotto di un modello economico che cancella sempre più lavoro, che distrugge le campagne del Sud e che spinge milioni di persone a migrare verso il Nord economico. Questo ci prepara come futuro il TTIP.

E’ importante distogliere lo sguardo dai veri problemi. In questo modo si può andare avanti con i temi importanti, senza essere disturbati. L’Ebola (o uno dei tanti nuovi virus) è arrivato al momento giusto. Dall’altro lato avanza l’ISIS/ISIL, insomma gli estremisti islamici, oramai alla frontiera turca, senza che questo sembri preoccupare minimamente il Presidente Erdogan che, in un’intervista, ha specificato che per lui Kurdi e ISIL pari sono, cosa per cui non interverrà. L’ISIS bisognava proprio crearlo. Fino a un paio di anni fa nessuno li conosceva e adesso sono lì a contendere le prime pagine all’Ebola.

Se per caso restasse spazio sui giornali abbiamo sempre l’Ucraina, una guerra servitaci qui in casa. Ricordiamoci anche che il fuoco continua a bollire in Kossovo, ancora più vicino a casa nostra, per non parlare poi della Libia.

Non trovo invece una riga sul TTIP.