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venerdì 31 marzo 2023

2023 L13: Guido Bianchini

 

Derive e Approdi

Guido Bianchini (1926-1998) è stato una figura chiave dell’operaismo politico italiano, punto di riferimento delle lotte al Petrolchimico di Porto Marghera negli anni Settanta, instancabile formatore delle successive generazioni militanti. Le sue esperienze di inchiesta e le riflessioni sull’uso operaio del sindacato, su tecnologia e organizzazione produttiva, su rifiuto del lavoro e composizione di classe, fanno di Bianchini un personaggio di grande importanza, non solo per la storia delle lotte ma anche per la straordinaria attualità delle sue anticipazioni teoriche e pratiche. Attraverso un accurato mosaico di articoli, interviste e testimonianze, il libro consente di delineare la ricca biografia di un vero e proprio maestro.

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Un amico conosciuto sul tardi durante il suo esilio parigino. Amava cucinare e raccontare i suoi sogni di come far diventare ricchi anche gli operai. Il salmone in crosta che ci fece a Natale resterà nella mia memoria.

FAO Land Reform, Land Settlement and Cooperatives 1992-93

 il mio primo articolo nella rivista (assieme a Mazoyer)





Bolivia Samaipata 1998: DSA+DES

Il lavoro fatto con Roby De Marchi


 

Cile 1990. ufficio regionale FAO


Il draft del mio primo Documento de Trabajo FAO-RLAC



 

Gruppo Oltre i confini senza frontiere - Vicenza 1984

 Il mio primo articolo sulla questione agraria



Guida pratica per l'esportazione agro-alimentare nell'ambito CEE

Il mio primo libro, col cugino di "Steto" Salviati 



martedì 28 marzo 2023

Perché non credo che l’uomo farà granché contro il riscaldamento climatico


 

Nel 1946, uno sconosciuto medico originario di Recife, nel nordest del Brasile, pubblicò i risultati delle sue ricerche di terreno sotto forma di un libro: La Geografia della Fame. Da lì in avanti il libro sarebbe stato tradotto in decine di lingue, conosciuto in tutto il mondo e l’autore, Josué De Castro, sarebbe arrivato alla presidenza del Consiglio della FAO nei primi anni 50. Il punto centrale della sua tesi era il legame strutturale tra la struttura agraria (il latifondio che imperava nella regione) e la fame che faceva strame di moltitudini di contadini e contadine, arrivati a mangiare terra pur di avere un po’ di sale da mandar giù.

 

De Castro lottò per far avanzare questa riflessione dentro la FAO e, finalmente, nel 1966, venne realizzata la prima conferenza mondiale sulla riforma agraria a Roma. Questo succedeva nel bel mezzo di una crisi alimentare mondiale e la consapevolezza che bisognasse fare qualcosa per una maggiore giustizia sociale ed uguaglianza cominciava a trovare i suoi apostoli. Anche Papa Paolo VI insistette su questo punto, e cioè come i problemi delle strutture agrarie “siano possibilmente tra i più difficili, ma anche i più vitali e i più urgenti che l’umanità debba affrontare nei nostri tempi”.

 

La montagna non partorì nemmeno un topolino, nessun paese operò per una riforma agraria radicale e si dovette arrivare al 1979 perché, per la seconda volta, la FAO chiamasse a raccolta i governi dei paesi membri, questa volta stimolati anche dalle prime ONG, per discutere e mettersi d’accordo su un piano d’azione concreto di riforme da portare avanti nei paesi.

 

Sfortunatamente, pochi mesi dopo questa conferenza arrivarono al governo i neoliberali, Thatcher e Reagan, e così tutti gli impegni (blandi, ma non inesistenti) furono buttati nella spazzatura. Passarono così altri 27 anni, la fame aumentava nel mondo e i paesi sviluppati si ingegnavano a proporre la via del mercato come soluzione alla crisi alimentare, in questo secondata dall’idea che fosse meglio affidarsi all’agricoltura detta “moderna”, cioè l’agribusiness. Nel Sud si moriva di fame e si incominciava a scoprire che anche al nord la fame (e la pessima alimentazione) cominciava a mordere.

 

Nel 2006 ci ritrovammo a Porto Alegre, e quella volta riuscimmo anche a tenere ai margini la Banca Mondiale e dare molto spazio ai movimenti contadini, in particolare La Via Campesina. Anche la questione dei diritti delle donne venne affrontata in maniera più approfondita del passato e, insomma, uscimmo da lì convinti che questa conferenza avesse segnato un cambio di passo. Il fatto che rappresentanti della Via Campesina fossero venuti a ringraziarci pochi giorni dopo la fine, dicendoci chiaramente che secondo loro si apriva una nuova stagione dove potevamo far pressione assieme, fu un segnale di speranza e, oggi, di rammarico per l’occasione persa.

 

I rapporti di forza non erano a nostro favore e lo capimmo poche settimane dopo, con la reazione organizzata della Banca mondiale e dei paesi europei che proposero, non imposero attenzione, che la FAO si mettesse a lavorare su un tema nuovo ed urgente (per il quale non aveva il mandato), il cambio climatico, e per fare questo una pacca di milioni sarebbero stati messi a disposizione, ad una sola condizione: che ci si dimenticasse degli impegni presi a Porto Alegre.

 

Le finanze esangui della FAO dettarono la strada da seguire (non dimenticando come ai piani alti i dirigenti fossero imposti dai governi occidentali per cui i margini di manovra del direttore generale erano molto esigui), e ancora una volta la questione della terra venne messa da parte.

 

I conflitti oramai erano diventati pane quotidiano, al Sud come al nord, si iniziava a parlare di Land Rush e la questione dell’immigrazione diventava preminente nelle agende governative del nord. I paesi sviluppati, memori del Gattopardo, inventarono allora una proposta di direttive volontarie sulla terra, fatta apposta per permettere ai governi e a chi controllava la terra e le risorse naturali (sempre di più compagnie private occidentali e, successivamente, fondi d’investimento e qualche paese asiatico) di non fare nulla a parte vaghe promesse. Il tutto riempiendo i giornali di buone intenzioni, di progetti che non portavano a nulla e che, in tutto questo, la parola riforma agraria venisse cancellata da ogni parte. In quegli anni io dirigevo ancora l’ultimo baluardo, una rivista FAO creata nel 1963, che si intitolava giustamente: Riforma agraria, colonizzazione e cooperative. Dal 1993 mi era stata proposta la direzione, ed arrivai fino alla conferenza di Porto Alegre. Nei mesi successivi, coerentemente con la strategia di mettere in sordina la questione strutturale, mi venne tolta la direzione e venne anche cambiato il nome al giornale.

 

Siamo arrivati al 2023, i dati FAO ufficiali parlano sempre di circa 830 milioni di persone che soffrono la fame, ma se guardiamo con attenzione i dati sulla povertà della Banca mondiale, usando una soglia più realista, 10 dollari al giorno, vediamo che solo il 35% della popolazione mondiale si trova al di sopra di quel livello.

 

Sono passati 77 anni da quando l’allarme venne lanciato, e nulla è stato fatto (non parlo, per carità di patria, delle riforme agrarie della Russia leninista e staliniana oppure di quella di Mao in Cina, dove i morti si sono contati a milioni) e, peggio ancora, nulla si intende fare. Di fame si muore adesso e subito, cioè ben prima di avvertire le conseguenze del cambio climatico, ma nessuno oramai protesta più per questo.

 

Abbiamo lasciato crescere una agricoltura senza contadini, dominata inizialmente dai grandi proprietari, poi dalla tecno-chimica e genetica modificata e finalmente dalla finanza che ci porta a mangiar merda come dicono i francesi, senza che si abbia più la forza di reagire. I giovani, salvo poche eccezioni, non si interessano a questi temi (le reazioni in Francia ai mega-bacini fanno un po’ sperare, ma per aver frequentato quel paese dalla metà degli anni 70, non mi faccio illusioni sulla durata di questi movimenti) e si sono buttati sulla questione climatica ad occhi chiusi.

 

Ovviamente che anch’io penso sia una questione molto importante, ma siccome fra poco è ora di pranzo, penso ancor di più che sia chiave sapere cosa mangiamo e, ancor di più, cosa non possono mangiare quei milioni di affamati ai quali aggiungiamo oramai le decine di milioni di obesi dovuti alla povertà e all’impossibilità di mangiare in maniera equilibrata. Se non torniamo a lottare per delle agricolture contadine sane, e al loro interno per una giustizia sociale che vada contro il patriarcato dominante nelle famiglie contadine, francamente non penso che le agitazioni attuali sul clima porteranno a qualche frutto.

 

 

lunedì 27 marzo 2023

El mercado de tierras y los pequeños campesinos: algunas evidencias históricas



Taller Mercados de Tierras – Land Tenure Centre Wisconsin / FAO

16 noviembre 1992, Honduras

 

El mercado de tierras y los pequeños campesinos: algunas evidencias históricas

 

Paolo Groppo, Servicio de Tenencia de la Tierra, FAO

 

1.         Introducción: el objeto de nuestra atención

 

            El problema del acceso a los recursos productivos, sean esos representados por la tierra, el capital y/o la mano de obra, siempre se manifiesta a raíz de una escasez (relativa o absoluta) de dicho factor para el grupo meta respectivo. Es evidente que el binomio escasez relativa/escasez absoluta nos lleva a incluir variables relativas a la organización social de una sociedad, a su estructura interna, más bien que a simples factores agronómicos. Así, una escasez absoluta prácticamente no existe desde un punto de vista social, pero sí puede existir desde un punto de vista agronómico. La misma tierra presenta así una valencia distinta, a veces opuesta, según la perspectiva bajo la cual la miramos. Es nuestra intención aquí tratar de jugar con este doble estándar, social y técnico-económico, debido a que creemos que estas dos variables están claramente vinculadas entre ellas.

 

            Una escasez absoluta desde un punto de vista agronómico, para cualquier grupo social, prácticamente elimina totalmente el problema. Si no hay tierra no se pone un problema de mercado. Pero si la escasez es relativa, el doble estándar social-agronómico, tiene más prioridad que el relativo al tipo de uso. El marco de los trabajos leídos hasta ahora sobre este tema tenía toda una referencia implícita, relativa a que nos enfrentaban a la escasez relativa, y en donde predomina la variable técnico-económica. A mi juicio, una lectura comparada de lo ocurrido históricamente en otros países del mundo, en una perspectiva histórica, nos permitirá de aclarar un poco más el marco en el cual tendríamos que movernos.

 

Una visión histórico-comparativa

 

            A partir de la aparición de la agricultura (8.000-9.000 años A.C.), se observa una tendencia hacia un acceso a los bienes raíces (tierra y mejoramientos estables realizados por el hombre) progresivamente diferenciado por parte de los distintos grupos sociales: esta es la hipótesis que intentaremos contestar. Dejando de lado por un momento los factores sociales (que influyen más la cantidad que las motivaciones de base) podemos focalizar nuestra atención sobre el factor económico y, en particular, sobre la evolución histórica del Umbral de Reproducción Simple (término que trata de traducir, en cantidades monetarias, las necesidades básicas en alimentación, vestimenta, salud y educación de una sociedad; concepto más parecido al utilizado por el PNUD en sus trabajos recientes que a la Línea de Pobreza empleada usualmente por el Banco Mundial). Según F. Braudel[1] "en 1700 el consumo total de una persona sumaba alrededor de 50.000 francos; y, en 1972, sobrepasaba los 450.000" (francos constantes de 1949), lo que significa un aumento del URS de más de 9 veces en poco más de 250 años. Por parte nuestra, hemos estimado aumentos aún más fuertes tanto en una región central de Francia como en Chile en una época más reciente[2]. A través del concepto de URS y de su evolución en el tiempo, podemos imaginar esta lucha por el acceso a la tierra como una carrera para llegar a alcanzar, y/o sobrepasar, el umbral de reproducción simple a través de un mejoramiento de sus sistemas de producción.

 

Roma y el problema de la tierra

 

            Durante el período monárquico, la relación entre demanda y oferta de ager publicus (tierra pública) fue extremadamente desequilibrada, debido a que las mejores tierras ya estaban bajo cultivo y por eso se hacían cada año más escasas.  A medida que la población aumentaba, el problema de la tierra se hacía más complejo debido también a una serie de problemas jurídicos y por la intervención de la especulación privada.

 

            La constitución de la gran propiedad agrícola es un fenómeno que se fue desarrollando paralelamente con la expansión de Roma. A la propiedad se le asignaba un gravamen militar muy pesado, como, por ejemplo, la obligación de cultivar la parcela y de alimentar al jefe de familia que se había ido a la guerra. Estos tipos de obligaciones fueron creando toda una serie de diferencias entre grupos sociales porque los más ricos podían sobrepasar estos momentos críticos mucho más fácilmente. Por otra parte, los plebeyos tenían que recurrir, en muchos casos, al crédito que, sujeto normalmente a tasas de usura, constituía en muchos casos el principio de la ruina.

 

            Este problema era bastante serio, y era común el caso de soldados dados de baja, que recibían un lote de tierra como premio por los años transcurridos en el ejército, y que, al cabo de un tiempo se veían en la ruina por las razones antes mencionadas. El gobierno de Roma no podía ser insensible a este problema, porque no favorecía a sus proyectos colonizadores y a la creación de un grupo social nuevo. Varias fueron las medidas tomadas, sobre todo en contra de las tasas de usura, a partir de la primera mitad del siglo IV A.C., pero su aplicación parece que no tuvo mucho éxito debido a la escasa circulación monetaria de la época.

 

            El acceso a la tierra se presentaba con toda su complejidad desde las épocas más remotas. A partir del siglo IV A.C., que corresponde a la predominación de Roma en Italia central, la disponibilidad de tierras aumentó no sólo en razón de las exitosas empresas militares sino también a raíz de una fuerte utilización de las confiscaciones que el gobierno romano empezó a ejercer en contra de los opositores internos o en contra de las ciudades antiguamente aliadas que tentaban de escapar del dominio de Roma.

 

            Este tipo de confiscaciones se hizo muy numeroso después de la invasión de Anibal, cuando Roma reconquistó los territorios de las poblaciones que se habían rebelado durante un período de crisis muy agudo. Por su parte la plebe había entendido que para llegar a tener un acceso más facil a la tierra, era necesario tener una influencia en los puestos claves del Imperio, y el esfuerzo llevado a cabo en esta dirección constituyó el hecho político de mayor éxito e importancia histórica.

 

            La primera disposición legislativa de una cierta importancia relativa al tema tierra se tomó alrededor del 377 A.C., con la ley Licinia-Sextia[3]. Esta ley establecía que ningún ciudadano podía tener más de 500 iugeri[4]de "ager publicus". En segundo lugar, se confirmaba la prohibición de hacer pastar más de 100 unidades de ganado bovino y 500 de ganadería menor gratuitamente sobre las tierras públicas. Aún más, esta ley establecía que, en la elección de la mano de obra a utilizarse en las grandes explotaciones, llamadas latifundia, los obreros agrícolas de libre condición (no esclavos) debían tener precedencia y, como mínimo, debían ser igual en número a los esclavos empleados.

 

            En este modo, más que resolver el complicado problema de la asignación de tierra, en práctica se denunciaban dos hechos que se estaban produciendo en la sociedad romana: por un lado, la difusión masiva de la empresa agrícola con esclavos que se quería limitar, y, por otro, la presencia de un grupo social proletario en formación, de condición libre, que se prestaba para trabajar en las explotaciones agrícolas a cambio de un sueldo, tendencia que se quería reforzar.

 

La obra de los hermanos Gracco

 

            En el 133 A.C. Tiberio Gracco, tribuno de los plebeyos, trató de poner remedio a la crisis económica de la agricultura, proponiendo una reforma radical de la propiedad para incentivar el retorno de la población activa a la tierra. Tiberio Gracco basó su acción en las tierras públicas por las cuales el estado recibía una renta (vectigal) además de las tierras asignadas bajo varias formas a ciudadanos romanos o latinos. El primer problema que se trató de solucionar se refería al derecho reconocido a todo ciudadano romano de hacer pastar libremente a su rebaño, (pascua), es decir, enviar su rebaño a lotes de tierras del Estado que se suponía, no eran susceptibles de cultivar. Esta forma de utilizar tierras que de otra manera habría quedado inutilizada, en la práctica se contraponía al hecho que en muchos casos los "pascuas" no eran ya tierras incultas, ya una buena parte estaba bajo cultivo, lo que creaba una cierta confusión. Para estos lotes el estado romano impuso una limitación estricta del número de cabezas de ganado que podía pastar gratuitamente; se creó una nueva imposición, proporcional a la producción, la "decima" o sea 1/10 de la cosecha, además de un impuesto sobre las cabezas excedentarias, llamada "scriptura".

 

            Según la interpretación aceptada por los historiadores, los puntos claves de la acción de Tiberio Gracco, en su esfuerzo para perfeccionar la ley Licinia-Sextia fueron los siguientes:

 

a)         Limitación de la propriedad, de manera que ningún ciudadano pudiese poseer más de 500 iugeri de "ager publicus", los mismos que aumentaban a 250 por cada hijo pero con un límite máximo de 1.000 (250 has).

b)         Confiscación, a título gratuito, de las tierras en excedente.

c)         Derecho de uso perpetuo, estable y absoluto a los que tenían tierras entre los límites fijados (el derecho de propiedad privada como hoy día lo entendemos no existía aún); se suprimieron las "decima" pero se mantuvo el cargo del vectigal.

d)         Se lotearon las tierras del "ager publicus" en lotes de 30 iugeri cada uno; para ser asignadas a los plebeyos que tenían que pagar un arriendo anual y con prohibición de venta.

e)         Ejecución de las reparticiones por parte de una comisión de tres miembros, "III viri agris indicandis et assignandis" que debían controlar el cumplimiento de esta Ley.

f)          Tierras de pastoreo liberadas, es decir, que cualquiera podía llevar el ganado a pastar a las tierras públicas (10 cabezas de ganado adulto y 50 de ganado menor) sin pagar gravámenes de "scriptura".

 

            El principal objetivo de esta Ley (que hoy podríamos llamar de "dinamización del mercado de las tierras") era el de excluir al Senado de las operaciones de asignación de tierras públicas y eso constituía una grave limitación de las atribuciones ejercidas hasta esa fecha por parte de este órgano supremo. En este caso también, así como para el intento reformador de la ley Licinia-Sextia, se alzaron numerosos opositores, que se identificaron en esos grupos que anteriormente habían llegado a controlar patrimonios de más de 500 iugeri. Se oponían también los que veían en esta reforma una amenaza a posibles inversiones de capitales en el campo, además de todos aquellos que no tenían ninguna intención de volver al trabajo de campo.

 

            A estas oposiciones motivadas se agregaron las de los ciudadanos de derecho latino, a los cuales se prometió en cambio de las renuncias previstas, la obtención de la ciudadanía romana. Sin embargo, si esta perspectiva podía parecer atractiva para los menos ricos, para la clase más acomodada representaba un agravio más porque aparte de perder su tierra, resultaba cargada con pesadas obligaciones militares, en comparación con los otros ciudadanos romanos, lo que no era anteriormente el caso.

 

            A parte de las hostilidades enunciadas, esta reforma parecía destinada al fracaso debido también a las dificultades prácticas de ejecutar un censo catastral de las tierras sujetas a ser confiscadas así como por una razón de fondo: la previsible hostilidad de la clase rica, que no podía oponer ninguna perspectiva de mejoramiento económico real para la sociedad entera, dado que este movimiento no se acompañaba con una revolución paralela de los sistemas de producción, cuya productividad seguía siendo muy baja.  De este modo, debido al costo elevado de las inversiones necesarias para hacer producir estos lotes de manera adecuada, y la baja rentabilidad de los mismos, sólo una gran extracción de plus-valor, posible en la grande empresa, podía permitir acumular dichos financiamientos. Tal es así que los empresarios agrícolas más dotados, que ya habían organizado sus explotaciones y habían invertido sumas importantes de dinero, se encontraban definitivamente en contra de esta reforma.

 

            Por su parte, los pequeños propietarios enfrentaban el mismo problema, es decir, la necesidad de invertir en los lotes sin poder evitar las tasas usureras de crédito. Por eso su apoyo a este intento reformista no podía ser sino tímido. La coalición de intereses contrarios a la aplicación de esta ley terminó con el costarle la vida a Tiberio Gracco, al cual le reemplazó su hermano Gaio Gracco. Elegido tribuno en el 123 a.C., constató el substancial fracaso del intento reformista del hermano, y decidió enfocar su acción en las estructuras del estado, siendo la primera el catastro, el único instrumento que podía proporcionar la posibilidad de conocer la disponibilidad real de tierras.

 

            Para aliviar la presión sobre las tierras bajo cultivo[5] Gaio Gracco creó numerosas colonias en África, en las cercanías de Cartagena, pero el problema que más le preocupaba era cómo limitar las prerrogativas del Senado y en dicha acción él también perdió su vida. Varias veces se emprendieron intentos reformistas, todos orientados a dar una respuesta a las presiones provenientes de los plebeyos urbanos y sobre todo rurales. Debido a la incapacidad de realizar cambios tecnológicos en el sistema de producción, la única vía que quedaba abierta era una política de colonización de tierras de frontera, lo que se hizo durante la época de Julio César.

 

            A las razones internas de crisis del sistema agrario, señaladas por la escasa dinámica del mercado de la tierra, se agregaron sucesivamente otros factores de origen externo: la progresiva devaluación de la moneda, la competencia de los productos procedentes de las provincias, las alzas de precios, todos factores que se constituían en valiosos motivos de inestabilidad y de inseguridad  y que repercutían en sentido negativo, una vez más, sobre la pequeña propiedad campesina, incapaz de soportar el peso de la inestabilidad económica.

 

            En una economía donde el elemento natural dominaba, la pequeña explotación enmarcada en una lógica de subsistencia, con muy poco espacio para la creación de un excedente productivo, estaba totalmente vinculada a las variaciones continuas de las cosechas y sin posibilidad alguna de sostenimiento por parte de mercados muy restringidos. Esta situación se constituía en un verdadero cuello de botella, porque en caso de carestía no habían posibilidades de subsistencia. Si la poblada ciudad de Roma podía integrar sus necesidades de granos básicos a través de importaciones desde Egipto o Sicilia y en menor medida, desde Cerdeña, lo mismo no podían hacer los otros 5-6 millones de ciudadanos de las regiones del interior. 

 

            Varios historiadores modernos creen que es justamente este desequilibrio entre producción y productividad en el sector agrícola el origen del declino del Imperio romano[6].

 

La caída del Imperio y el sistema feudal de la Edad Media

 

            El mundo romano había conocido grandes explotaciones trabajadas casi únicamente por equipos de esclavos, según un sistema muy parecido a lo que se habría empleado, muchos siglos después, en América Latina. Pero desde el fin del Imperio este método había sido progresivamente abandonado. Varias razones, materiales y psicólogicas, pueden explicar este abandono.  Un sistema de esta naturaleza suponía una mano de obra abundante y barata. Los agrónomos romanos habían observado que el esclavo en equipo trabajaba mal; se necesitaban muchos de ellos para obtener un producto limitado. Además, cuando se enfermaba o, peor aún, se moría, era el capital mismo que se perdía y que se necesitaba reemplazar. Por eso había que comprar otro esclavo y, si el precio era elevado, la pérdida se hacía bastante importante. De allí la necesidad de seguir alimentando este mercado, a través de las guerras, los raptos en los países bárbaros que solos podían alimentar este mercado.

 

            Hacia el final de la época imperial, cuando Roma se había encaminado hacia el camino del atardecer, esta "mercadería" (esclavos), se hizo siempre más difícil y, por eso, siempre más costosa. El paso a la Edad Media significó el cambio paulatino de un sistema basado sobre esclavos (en donde el hombre era "propiedad" del Señor feudal) a un sistema basado sobre siervos (se diferencia sustancialmente del esclavo por estar vinculado a la tierra). La razón fundamental era de naturaleza económica, entendiéndose con eso la búsqueda de una salida al cuello de botella antes mencionado.

 

            Al siervo se le asignaba siempre un pedazo de tierra cuyo cultivo estaba enteramente a su cargo y cuyas ganancias se dividían entre el Señor y él, según las reglas locales. De este modo el siervo trabajaba mejor porque necesitaba alimentar a su familia tomando a su cargo la reproducción social de la mano de obra.

 

            Además, hay que considerar que una gran explotación necesita una gestión igual a la de una empresa, con ajustes delicados entre el capital-trabajo y las necesidades para la producción y un control constante y eficaz del trabajo mismo; todas cosas que el estado del mundo occidental y las condiciones de la sociedad romana y romano-bárbara, en esa época, hacían siempre más difícil. Desde el punto de vista económico, el siervo poseedor de tierra estaba sometido a dos categorías de obligaciones frente al Señor: i) pagar un arriendo y, ii) hacer servicios. En el complejo conjunto formado por los arriendos o pagos, recordaremos aquellos que eran proporcionales a la cosecha, poco frecuentes, y los que eran fijos, mucho más, pagados en moneda o, generalmente, en productos. En lo que se refiere a los servicios en general estaban representados por días de trabajo (3 días por semana era el nivel normal).

 

            Por este carácter particular que tomaron las relaciones de producción, podríamos definir al feudo de la edad media, como una gran empresa agrícola y manufacturera - pero sobre todo agrícola - en donde el sueldo era generalmente sustituido por una asignación de tierra[7].

            Este embrión de mercado de los bienes raíces, nació debido a la necesidad económica de dar un impulso nuevo a un sistema en crisis profunda. El peso de la reproducción social de la mano de obra estaba ahora a cargo de los ex-esclavos convertidos en servidores, los cuales en este cambio ganaban algo muy importante: el reconocimiento social. Nació de allí la semilla de la pequeña agricultura como hoy en día la entendemos y la posibilidad de heredar las parcelas asignadas (en el sentido que el señor, dueño de la tierra, tenía interés en que la familia de los servidores continuara en dicha tierra) y aunque no se podía considerar este como un derecho de propiedad en el sentido jurídico, contribuyó claramente a reforzar este nuevo actor social.

 

            Los límites de este sistema hay que buscarlos una vez más en su bajo nivel tecnológico. Como dijo G. Duby: "la agricultura de esos tiempos, muy exigente en mano de obra, necesitaba también de mucho espacio. La necesidad imperiosa de descansos de las tierras que durarán por un largo período, la obligación de sembrar con espacios intercalados amplios, se explicaba en parte por la mediocridad de las herramientas para arar, que no permitían darle vuelta a la tierra, pero también por la ausencia casi total de abonos ... Mal equipados, los hombres consagraban todas sus fuerzas a producir su propria alimentación; el alimento para el ganado venía después. Se cosechaba muy poco pasto (heno), lo suficiente para que se mantuvieran en vida las pocas cabezas que no se habían matado en otoño ..."[8].

 

            Por su parte, el grupo campesino necesitaba reforzar sus posiciones económicas y sociales para no perder la identidad que comenzaba a tener. El gran desarrollo de las comunidades agrarias que se dió a partir de este período, con un tejido de relaciones y obligaciones muy estrictas, se explica de este modo: proteger a la comunidad campesina frente a los vaivenes de la naturaleza y frente a los otros grupos sociales dominantes. En los hechos, esto se configuraba como una limitación evidente a los derechos individuales sobre la tierra, ya que no se podía cultivar lo que se quería y cómo se quería; la comunidad entera tenía un derecho mayor que el individuo sobre la tierra que él cultivaba. Pero eso se explicaba a la luz del hecho que entonces los productores/trabajadores agrícolas tenían que soportar el costo de su reproducción social y para ello se hacía imperioso proteger la comunidad frente al individuo.

            

            Como acabamos de decirlo, la tierra jugaba un papel clave y el tipo de tenencia al final influía directamente sobre el sistema productivo empleado. Dos fueron los usos determinantes de la vida agraria de esa época: la rotación de cultivos y el "pastoreo vano" obligatorio.  En sus lotes, el campesino debía seguir la orden acostumbrada de las "estaciones", o sea debía someter cada parcela a la rotación tradicional que se daba en este lote: sembrar en el otoño los granos de invierno cuando le tocaba, en la primavera el año siguiente (en el régimen trienal) los granos de primavera, y enseguida, dejar todo cultivo cuando le tocaba al barbecho. 

 

            El "pastoreo vano" o sea el pastoreo en las tierras vanas (vacías) consistía en el derecho que todos los "habitantes de la campaña" tenían de hacer pastar sus animales en las parcelas depués de la cosecha. Este derecho era esencialmente colectivo. El ganado del pueblo, reunido en un rebaño común, según una orden establecida tanto por las autoridades locales como por la tradición local, iban a pastar en los campos cultivados, una vez que se había cosechado y el posesor de la parcela debía acoger estos animales juntos con los suyos.

 

            Las pasturas, estaban igualmente sometidas a este derecho; esto, normalmente, a partir del primer corte. Sólo el "primer pelo", como le decían, pertenecía al cultivador, los demás tocaban a la comunidad. Hablando en jerga de jurista del siglo XVIII, los posesores de fondos tenían un derecho restringido y subordinado a los derechos de la comunidad. Un sistema parecido, que reducía al mínimo la libertad del cultivador, suponía evidentemente un sistema de obligaciones. La cerca de las parcelas estaba formalmente prohibida: la práctica de la rotación obligada no constituía solamente un uso o una comodidad, sino más bien una verdadera regla imperiosa.

 

            Frente a estas costumbres, la presión vigorosa de la comunidad se manifestaba también a través de otros usos. Sin hablar del derecho de "espigueo", extendido no solamente a los inválidos y a las mujeres sino también a la población entera y sobre todos los campos sin distinción, no cabe duda que el derecho más significativo es el del "rastrojo". Una vez terminada la cosecha, la tierra no venía dejada inmediatamente a los animales; los hombres primero iban a recoger el rastrojo, que se utilizaba enseguida tanto para el techo de sus casas, como para la cama de paja para los animales. El rastrojo se recogía sobre todas las parcelas sin limitaciónes alguna. Como lo decía M. Bloch "esta facultad parece tan respetable que el cultivador no tiene ni siquiera el permiso para reducir el provecho, cortando los trigos más cerca del suelo. La guadaña se puede usar solo para el pasto; en las parcelas cultivadas sólo se autoriza la hoz, que corta más alto".

 

            Sin embargo, no hay que creer que este sistema fuese tan igualitario como puede aparecer. Pobres y ricos participaban a las obligaciones colectivas, sin embargo, no de la misma manera. Normalmente, cada habitante que tuviese o no tierra propia tenía el derecho de enviar algunas cabezas de animales al rebaño comunitario; pero, aparte de este derecho mínimo, de carácter igualitario, el número de cabezas en poseso de cada familia era proporcional a la extensión de tierra cultivada: los que más cultivaban, más animales tenían y más cabezas podían enviar al rebaño comunitario, en donde todo el mundo contribuía a su alimentación. La sociedad rural comportaba clases sociales fuertemente establecidas. Sin embargo, los ricos, así como los pobres estaban sometidos a la ley tradicional de la comunidad, guardián a la vez de un cierto equilibrio social y del equilibrio entre los distintos tipos de utilización de los suelos.

 

            Resumiendo lo anterior, dos elementos claves sobresalen de inmediato:

 

            1. Las transferencias de bienes raíces, semilla del "mercado" actual, presentan antecedentes históricos antiquísimos, todos presentando la misma racionalidad: buscar una solución a la crisis productiva de los antiguos sistemas agrarios. La filosofía que lo acompañaba, y que pudo desplegarse plenamente en la Edad Media, era el desplazamiento el costo de la reproducción económica y social de la mano de obra directamente a cargo de los trabajadores.

            2. No logrando un mejoramiento tecnológico sensible de estos sistemas de producción, no se pudo crear ninguna dinámica de desarrollo global lo que significó, para los distintos grupos sociales, concentrar todos sus esfuerzos en la búsqueda de medidas de defensa del grupo mismo.

 

            Una PEA (persona económicamente activa) en el sector agrícola producía en promedio una cantidad de productos alimenticios que sobrepasaba solamente entre un 20 a un 30% el consumo mínimo de su familia. Estos porcentajes adquieren significativa importancia al considerar las amplias fluctuaciones anuales de los rendimientos físicos de los cultivos. A nivel nacional se ha evaluado que estas fluctuaciones podían ser de alrededor 25%. Eso implica que las crisis de subsistencias tenían necesariamente que producirse, crisis más o menos profundas, en donde las más importantes podían llevar consigo el declino de la vida económica de una región. 

 

            Es por eso que hasta cuando la productividad agrícola no pudo sobrepasar este Umbral de Reproducción Simple, era prácticamente imposible concebir un progreso continuo de desarrollo económico y también de las civilizaciones y, menos aún, una aceleración del progreso científico y técnico, cuyo mejoramiento ha sido uno de los aspectos característicos de la época contemporánea[9]. Los cambios profundos en los sistemas de producción agrícola que precedieron la revolución industrial desencadenaron este proceso. El aumento de la productividad permitió, en un lapso de tiempo de 40-60 años, de pasar de un excedente de producción de más o menos un 25% a uno de más del 50%, lo que permitió, por primera vez en la historia de la humanidad, sobrepasar el umbral del hambre, es decir el nivel bajo el cual, una mala cosecha podía llevar a una grave crisis alimenticia. La revolución agraria - y es correcto llamar a estos cambios profundos en la vida rural con el término de revolución- que permitió romper este cuello de botella, iba a desencadenar la revolución industrial.

 

            Trazando un esquema podemos decir que el inicio de la revolución agraria consistió en la aplicación acelerada, sobre tierras relativamente poco pobladas, de técnicas agrícolas paulatinamente elaboradas y adecuadas en aquellas regiones enfrentadas a un problema de alta densidad habitacional, es decir la transferencia de estas técnicas de los Paises Bajos hacia Inglaterra y Francia.

 

            Los puntos claves de esta revolución fueron los siguientes:

 

1.         Supresión progresiva del barbecho, remplazado por un sistema de rotación continua de los cultivos.

2.         Introducción o extensión de nuevos cultivos.

3.         Mejoramiento de la herramienta tradicional e introducción de nuevas herramientas.

4.         Selección de las semillas y de los reproductores animales.

5.         Extensión y mejoramiento de las tierras cultivables.

6.         Generalización del uso de los caballos para las labores agrícolas (muchos más rápidos que los bueyes).

 

            Cubriendo directamente al 80% de la población, este mejoramiento de la productividad se tradujo rápidamente en una disponibilidad adicional considerable de recursos alimenticios. Según las estimaciones disponibles, la producción por activo agrícola habría aumentado, en Europa, en promedio de un 75%, entre 1840 y 1900.           Es a partir de este momento histórico que la transferencia de tierras hacia el grupo de los feudatarios/pequeños productores y su constitución como grupo social, toma su verdadera dimensión histórica. 

            

            Proporcionando los alimentos necesarios a los nuevos grupos urbanizados y las materias primas a la industria, necesitando en cambio unos pocos productos de origen industrial, este desarrollo de la economía campesina fue muy provechoso por la acumulación del capital industrial y constituyó, en cierta forma, "la" condición básica de la industrialización.     A partir de 1850, la integración del Nuevo Mundo en los mecanismos del comercio internacional provocó un grave enfrentamiento entre productores, por los productos básicos, que resultaban más baratos. El Nuevo Mundo era más productivo, con fronteras agrícolas abiertas y tierras en abundancia. El tamaño de las explotaciones en América favorecía una buena utilización de las primeras maquinarias que la industria empezaba a producir. Esta competencia llevó a una crisis en Europa en rubros tales como los cereales, la lana, etc.

 

            Las respuestas de los Estados europeos fueron distintas: Inglaterra aceptó el sacrificio de su agricultura, favoreciendo una política de importaciones y de desarrollo industrial, mientras que los países de Europa continental oscilaban bastante entre fases de apertura y otras de proteccionismo. Se trataba de dos dinámicas distintas que apuntaban a dos objetivos también diferentes: Inglaterra buscaba liberar mano de obra del campo para sus talleres/industrias, aprovechando la red comercial de su Imperio para importar los productos alimenticios que necesitaba a precios baratos. Francia, por otro lado, recién salía de un período de trastornos muy importantes y debía apoyarse en el sector campesino que de cierta forma había sido origen de la caída del Antiguo Régimen.

 

            Además de Inglaterra, una cierta dinamización del mercado de bienes raíces empezaba a tomar forma en Europa, paralelamente con una nueva estratificación social en el campo. Sin embargo, el nuevo sistema agrario que se estaba imponiendo en el siglo XIX estaba todavía basado, fundamentalmente, en medios de producción elaborados a nivel de la economía campesina y de pequeña artesanía local: se usaba tracción animal, y estiércol de vaca como abono para la tierra y materiales biológicos seleccionados de manera empírica.

            

            Hubo que esperar hasta el final del siglo XIX y, sobre todo, el siglo XX, para que la gran industria mecánica y química, ya bastante desarrolladas y concentradas, pudiesen empezar a producir masivamente los medios energéticos, los motores, las maquinarias diversificadas y poderosas, los abonos y los productos químicos que fueron la base de la revolución agrícola contemporánea.  A partir de allí, los centros de investigación empezaron a funcionar, tanto para concebir nuevos productos como para adecuarlos paulatinamente a las distintas condiciones agroecológicas. Al mismo tiempo, la gran industria elaboró nuevos medios de transporte, de almacenamiento, conservación y transformación de los productos agrícolas. Un mercado nacional e internacional relativamente unificado empezaba a formarse, poniendo en competencia a regiones muy diferentes desde el punto de vista físico y socio-económico.

 

            Las fuerzas libres del mercado, entre las cuales se encontraba la del mercado de bienes raíces, vinieron exaltando las diferencias de productividad, de ingreso y de capacidad de inversión, conduciendo a crear mayores desigualdades. Las explotaciones y los rubros menos productivos fueron desapareciendo; así como el antiguo sistema de policultivos-ganadería que fue sustituido por nuevos sistemas de cultivos especializados. La producción empezó a concentrarse en las regiones donde las explotaciones aprovechaban las ventajas físicas y económicas que les permitían mantenerse y desarrollarse frente a la competencia de otras entidades productivas.

 

            Los costos sociales pagados por el sector agrícola, y aprovechados por las fuerzas de mercado, se pueden estimar por la desaparición de una gran parte de la población agrícola, que no pudo seguir la aceleración de un movimiento del cual fue uno de los actores principales. Si los primeros efectos inducidos por esta revolución agrícola habían sido de permitir a una parte importante del campesinado lograr su independencia económica y de sobrepasar el URS, alrededor de 1850 se pudo asistir al fenómeno contrario: los pequeños agricultores menos productivos fueron expulsados del sector agrícola y una tendencia hacia la concentración de los bienes raíces se hizo manifiesta.

 

            Este proceso de eliminación de la mayoría de las antiguas actividades, la especialización en algunas o en rubros nuevos, no constituye un fenómeno propio de las zonas menos favorecidas. En todas las regiones, con base en el antiguo sistema de policultivo-ganadería, la crisis afecta a toda actividad productiva que no pueda soportar la competencia de zonas más favorecidas. Esto lleva a la formación de un sistema de producción especializado, generalmente reproductible (técnicamente y económicamente), limitado a un número reducido de "empresas agrícolas", las que pudieron realizar una doble evolución: especialización y aumento del tamaño físico-económico de la explotación[10].

 

            Este es el aspecto positivo del desarrollo de la economía campesina. La otra cara de la medalla de este mismo proceso está constituida por la crisis constante y la eliminación continua de las explotaciones menos dotadas y de las actividades menos productivas, frente al aumento progresivo del URS. Finalmente las regiones de explotación familiar mejor localizadas en relación a los polos industriales van obteniendo ventajas sobre aquellas situadas en la periferia de las "empresas agrícolas"/neo-latifundia; debido a que la economía industrial dominante debe en cada momento tener a su disposición una base de abastecimiento agrícola y alimenticio que sea segura y lo menos costosa posible; por eso la economía industrial se apoya sobre la pequeña agricultura familiar, que puede soportar una tasa de remuneración del capital netamente más baja. 

 

            Es así que, mayor será el atraso de las regiones en donde predominan los neo-latifundia y menores las ganancias y las rentas que la burguesía agraria podrá obtener. La crisis de la periferia neolatifundista empieza a formarse allí y como principal estrategia para amortiguar su efecto se mantienen en dichas regiones los salarios agrícolas bajos. Para escapar a esta crisis, las grandes explotaciones debieron transformarse rápidamente (el ejemplo chileno post-1973 es muy interesante sobre este tema): un alto nivel de inversión e intensificación en mecanización y fertilización, para mejorar la productividad de suelos que no usaron antes grandes cantidades de abonos orgánicos, como en el caso de los suelos europeos que en cambio sufrieron una cierta sobrexplotación durante el período de crisis.

 

            Sin embargo, para hacer eso habría que disponer de capitales enormes.  ¿Cuál solución es posible? ¿Vender las tres cuartas partes de las tierras y capitalizar sobre el cuarto restante? ¿Endeudarse masivamente? ¿Crear sociedades anónimas con fuerte participación de capitales extranjeros? Todo esto es posible si tiene la seguridad de una rentabilidad superior comparada con la de otros sectores de actividad. Si ese no es el caso, se tendrá que volver a pedir las subvenciones del Estado (sin considerar cuál sea la moda político-económica del momento): ya sea para reducir las tasas de los capitales pedidos en préstamos como para que el Estado tome a su cargo las inversiones necesarias para aumentar las ganancias y las rentas agrícolas. Incluso se llega hasta a aceptar una reforma agraria parcial, permitiendo así vender a buen precio las tierras menos rentables y beneficiando las restantes con los mejoramientos y los créditos.

 

            De todos modos, el camino del latifundio, con sus bajos salarios y su débil capacidad de formación de capital y de inversión, presenta un interés limitado para el desarrollo en conjunto del sistema económico. Hoy en día, en Europa el latifundismo y/o neolatifundismo se encuentra no solamente en crisis sino más bien en proceso de liquidación histórica y el mercado de los bienes raíces, con el auspicio de los gobiernos, actúa en dirección a reforzar la mediana explotación agrícola (sin que por esto pueda oponerse a una tendencia a la reconcentración de tierras).

 

            A pesar de los errores que pueda haber cometido la Comunidad Europea, es evidente que la manera cómo ha manejado su política agraria en los últimos 30 años, en cierta manera estimulando el acceso a los bienes raíces, a los créditos, y a la asistencia técnica por parte de los pequeños agricultores, con acciones que en la práctica iban en contra de los dictámenes neoliberales dominantes en los distintos países de la misma CEE, ha favorecido no solamente al mantenimiento de una relativa paz social en el campo, sino más bien un verdadero crecimiento del mercado interior, de lo cual hoy en día aprovechan todos los sectores económicos de la Comunidad. Pero por sobre todo la acción de los Gobiernos a través de subsidios al sector agrícola y la inversión y equipamiento rural ha evitado el crecimiento desmedido de las ciudades al detener los fenómenos migratorios tan indeseables en el mundo en desarrollo.

 

            Que el camino al desarrollo pase por un "control" de los mercados, tanto de las tierras como de los otros factores productivos, favoreciendo particularmente a los pequeños productores, es la enseñanza de más de dos mil años de historia. Sin embargo, tenemos la impresión que estas enseñanzas no hayan atravesado el Océano, porque en América Latina todo lo que escuchamos es liberalizar, modernizar, dinamizar, etc. En general, la participación de los pequeños productores agropecuarios en el mercado de los bienes raíces, suele ser desventajosa, tal como lo han comprobado las investigaciones encargadas por el Land Tenure Centre[11]. Sin embargo, los estudios que se están iniciando o se han realizado en los últimos años en general apuntan más a descubrir los mecanismos formales e informales de su mayor o menor funcionamiento, que a resolver interrogantes más amplias, tal como el papel histórico que este factor de producción ha jugado y debe jugar en una lógica de desarrollo.

 

            Por su parte, la Dirección SDA de la FAO propone aplicar un marco metodológico "tipo" en los estudios de México, de Ecuador y Colombia, partiendo de una tipificación regional de las estructuras agrarias. Una vez realizada esta tipología, se recurrirá a entrevistas en profundidad para establecer un perfil de aquellos productores que participan en el mercado de tierras, y de sus principales características socioeconómicas y demográficas.

 

            Además, se entrevistarán campesinos beneficiarios de la reforma agraria que hayan tenido éxito en calidad de propietarios o que hayan fracasado a fin de identificar y, posiblemente, cuantificar, en una perspectiva histórica los factores que han influído en su actual condición. En cada región se harán entrevistas en profundidad a propietarios, vendedores y compradores recientes y corredores de finca raíz. Además, se consultarán archivos en notarías y, en cuanto sea posible, de oficinas de Catastro y Registro de Instrumentos Públicos.

 

            La estructura de los estudios abarcará los temas siguientes:

 

1.         Marco conceptual para el análisis del mercado de tierras.

2.         Descripción general (a nivel de estudio de caso) de la estructura agraria, enfatizando los aspectos relacionados con la distribución, tenencia de la tierra y los niveles tecnológicos y resultados económicos de orden general por categorías.

3.         Análisis del mercado de tierras de cada una de las regiones estudiadas. Se describirán las condiciones y formas de funcionamiento del mercado y se elaborarán indicadores que permitan captar su grado de movilidad. Se enfatizará el análisis de los factores condicionantes de la movilidad y los determinantes del precio y demás condiciones de acceso de pequeños y medianos productores campesinos al mercado de tierras.

4.         Análisis de los efectos previsibles de las nuevas políticas de tierra sobre las posibilidades del acceso a ella por parte de pequeños y medianos productores agropecuarios y la dinámica de la estructura agraria.

5.         Análisis de alternativas de participación en el mercado por parte de los campesinos sin tierra o con tierra insuficiente.

6.         Conclusiones y recomendaciones que permitan mejorar las políticas de acceso a la tierra y a los demás recursos productivos con el fin de acelerar el desarrollo socio-económico del sector rural.

 

            El marco metodológico de los estudios que se realizarán debería permitir recoger los primeros elementos para responder a la interrogante relativa al papel histórico que ha jugado y está jugando hoy en día el tema tierra, su tenencia y acceso.  En este artículo, hemos intentado, aunque de manera parcial, proporcionar algunos puntos para abrir una reflexión más amplia sobre por qué el tema de los "Mercados de Tierras" aparece ahora en la Agenda internacional del desarrollo y cuál papel debe jugar. Es nuestra intención que estas consideraciones puedan servir para animar el debate de estos días. 

 

 

Roma, 16.XI.1992



    [1]BRAUDEL F. 1986. L'identité de la France. París, Francia, Flammarion.

    [2]GROPPO P. 1986. Strategies paysannes de survie économique: le système agraire de la Nièvre centrale. París, Francia, INAP-G, y -- . 1990. Diagnóstico de Sistemas Agrarios, una metodología operativa: 3 estudios de caso en Chile. Santiago, Chile, FAO-RLAC.

    [3]del nombre de los tribunos de la plebe Gaio Licinio Stolone y Lucio Sesto Laterano

    [4]unidad de medida correspondiente a más o menos de 1/4 de ha.

    [5]Dos fuerzas contrarias se sobreponían: por un lado, la necesidad de liberar mano de obra a utilizarse en las operaciones militares (sin por eso bajar el nivel de la producción disponible) y por otro lado la necesidad de darle una respuesta positiva a las acrecentadas exigencias de la población entera, lo que implicaba mejorar la productividad del trabajo agrícola. Sin embargo, los intentos de estimular la creación y dinamización de un mercado de los bienes raíces se detenían frente a una incapacidad manifiesta de eliminar el factor más crítico, es decir mejorar los sistemas de producción.

    [6]ROSSINI E.- VANZETTI C. 1986. Storia dell'agricoltura italiana. Bologna, Italia, Edagricole.

    [7]BLOCH M. 1976. Les caractères originaux de l'histoire rurale française. París, Francia, Armand Colin.

    [8]DUBY G. 1977. L'Economie rurale et la vie des campagnes dans l'occident médieval. París, Francia, Flammarion.

    [9]BAIROCH P. 1971. Le Tiers-Monde dans l'impasse. París, Francia, Gallimard.

    [10]MAZOYER M. 1981. Origines et mécanismes de reproduction des inégalités régionales de développement agricole en Europe. París, Francia, INAP-G, mimeo.

    [11]véase por ejemplo CARTER M. - MESBAH D. 1992. Es posible reducir la pobreza rural con políticas que afectan el mercado de la tierra?. Santiago, Chile, Estudios CIEPLAN n. 34 y también SHEARER E. - LASTARRIA S.- MESBAH D.. 1991. The reform of rural land markets in LAC: research, theory, and policy implications. Madison, Wisconsin, LTC Paper.