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mercoledì 30 novembre 2022

Agricoltura familiare e la questione di genere


Siccome mi capita continuamente di leggere tante sciocchezze sul come sia apparso il concetto di “agricoltura familiare” nel dibattito sullo sviluppo agrario, mi sembra utile, una volta di più, (lo avevo già fatto 4 anni fa) ricordare alcuni elementi storici per chiarire la situazione. Una volta fatto questo, sarà anche importante spiegare come mai questo concetto, così come è propagandato da agenzie Onu e movimenti contadini, stia passando da un valore progressista a uno conservatore.

 

Cominciamo con il primo punto. Io iniziai ad occuparmi della questione agraria un po’ casualmente, quando feci il mio primo viaggio in Nicaragua nel lontano 1983, per conoscere meglio quella rivoluzione sandinista che, in un paese agricolo come quello, aveva nella riforma agraria il cuore del problema. 

 

Rendendomi conto della complessità del tema, indirizzai i miei futuri studi nella direzione dell’allora Istituto Nazionale Agronomico di Parigi-Grignon (INAP-G), in particolare la cattedra di Agricoltura comparata e sviluppo rurale tenuta dal professor Marcel Mazoyer.

 

Quando passai dal lavoro iniziale all’OCSE alla FAO (1989), mi misi subito a lavorare su questi temi, in particolare come un approccio di tipo “sistemi agrari” poteva essere utile nel quadro dei progetti di riforma agraria che la FAO appoggiava (Filippine, Colombia). 

 

Una lettura interessante, fatta anche questa per caso, fu il libro di Hans Georg Lehman, edito da Feltrinelli, sul Dibattito della questione agraria nella socialdemocrazia tedesca e tradotto dal tedesco da mio fratello Bruno, che ovviamente ne conservava una copia in casa. Fu un libro chiave per capire il perché delle resistenze che incontravo ogni volta che provavo a parlare di questi temi con persone impegnate nei movimenti contadini. Il caso brasiliano fu particolarmente importante.

 

Il programma di appoggio tecnico che la FAO aveva firmato con l’Istituto della Riforma Agraria (INCRA) era diretto a proporre miglioramenti negli assentamentos che venivano da loro realizzati. Applicando il metodo che avevo messo a punto nei primi anni FAO, e che “traduceva” in una metodologia semplificata l’approccio sistemi agrari, iniziammo a realizzare una serie di diagnostici in vari stati brasiliani, iniziando con l’interno di Sao Paulo, passando poi nel Maranhão e successivamente in molte altre regioni. Il quadro che emergeva da un lato forniva indicazioni concrete su come migliorare i sistemi di produzione messi in atto negli assentamentos, ma iniziava anche a fornirci un’idea più completa del paesaggio agrario nazionale. L’esistenza, particolarmente nel Sud, ma non solo, di grandi realtà di coltivatori diretti (come li chiamiamo in Italia) si accompagnava con la sorpresa di una mancanza assoluta di politiche e programmi specifici da parte del governo federale (e anche statali). 

 

Per me e i miei colleghi del progetto, la questione era molto importante dato che, nella visione che portavo avanti, la tappa della riforma agraria doveva avere una durata e un obiettivo chiaro, cioè aiutare dei contadini/e senza terra ad iniziare il cammino che li portasse a diventare dei produttori/trici indipendenti così come esistevano da noi in Europa, supportati da programmi e politiche specifiche.

 

Fu così che nel 1994 (sotto la presidenza Collor), proponemmo di cambiare il focus dell’accordo con INCRA, per approfondire la conoscenza di queste regioni di coltivatori/trici diretti, spiegando che questo era politicamente funzionale a una visione integrale del mondo agrario: da un lato aiutare chi non ha accesso alla terra, portarli a diventare produttrici e produttori indipendenti, e quindi pensare a che tipo di programmi e politiche fossero necessarie per quest’altra tappa.

 

Grazie al Presidente dell’INCRA dell’epoca, il caro e compianto Marcos Lins (uno dei miei padri tutelari), la proposta fu accettata ed iniziammo i lavori di terreno. 

 

Era quello il periodo quando stavo leggendo Lehmann e questo mi aiutò a capire il rifiuto categorico da parte dei membri dei movimenti contadini (MST ma non solo) con cui ci trovavamo per discutere i nostri lavori, di affrontare la questione dell’agricoltura “familiare” (come cominciammo a chiamarla). Due erano le ragioni di fondo, di cui pian piano cominciai a capire le ragioni vere, al di là delle posizioni retoriche ufficiali. La prima era legata alla contrarietà di considerare la riforma agraria come una tappa, con un inizio ed una fine. Gli assentados rappresentavano un bottino importante perché i fondi messi a disposizione dal governo (era iniziata la presidenza di Fernando Henrique Cardoso) erano gestiti dai movimenti e non andavano ai beneficiari direttamente. La trasparenza non essendo mai stata una qualità diffusa, dove andassero a finire quei fondi non era mai chiaro. Quindi accettare l’idea che il processo di assentamento avesse una fine, con indicatori di risultati concreti da ottenere, era contraria alla logica movimentista (e non di “sviluppo”) dei movimenti. La seconda ragione era legata all’ideologia che professavano, per cui gli agricoltori familiari erano i nemici della rivoluzione che loro sognavano. 

 

Fu su queste basi che la nostra squadra provò a cercare altri alleati, in particolare nel mondo accademico. Il grande manitou regnava a Campinas, nell’hinterland di Sao Paulo: figlio di quello che è considerato come il padre storico della riforma agraria brasiliana, lui era convinto che la questione agraria passasse essenzialmente per la modernizzazione tecnica e tecnologica dove c’era posto per gli assentados (se organizzati in grosse cooperative) ma non c’era posto per l’agricoltura familiare. L’espressione da lui usata, nei nostri confronti, fu: (gli agricoltori familiari) non hanno nessun peso politico. Era quindi inutile perdere tempo e denaro per andarli a studiare.

 

Dimenticavo di dire che il manitou, anni dopo, divenne Direttore Generale della FAO, e toccò a lui andare in giro per il mondo a dire quanto importante era l’agricoltura familiare, prendendo spunto da quella brasiliana, che noi avevamo portato sul davanti della scena politica. La sua longa manus riuscì a influenzare le scelte dell’organizzazione anche dopo essersene andato, facendo nominare nel gruppo che dirige l’iniziativa del decennio dell’agricoltura familiare delle persone a lui devote, che fanno parte di quell’universo di contrari ideologicamente all’agricoltura familiare. Si capisce meglio perché da lì non esca nulla di rilevante per il dibattito mondiale.

 

Riprendendo il cammino, anche senza la sua benedizione, decidemmo di andare avanti, grazie a una serie di altri specialisti di varie università brasiliane, che integrarono la squadra. Nel gruppo lavoravano anche due specialisti del Sud del paese, con un profilo non universitario ma molto più legato al terreno e alle realtà agricole locali (laddove i coltivatori diretti erano molto importanti). Uno di loro si chiama Valter Bianchini, su di lui ritorneremo.

 

I nostri lavori permisero nel giro di un anno non solo di dettagliare meglio le caratteristiche di questo settore, ma anche di quantificarlo in maniera statistica. Questo perché, grazie al Ministro responsabile dell’epoca, Raul Jungmann, ottenemmo l’accesso ai dati primari del censimento agricolo e fu possibile riorganizzarli in funzione di una matrice elaborata dai nostri specialisti. I dati che uscirono da quello studio (circa 4,5 milioni di famiglie) sono ancora oggi la base delle politiche nazionali (ed anche di tutti i lavori fatti dalle università e dai movimenti contadini).

 

Su queste basi elaborammo un documento di sintesi con una serie di indicazioni specifiche per future politiche pubbliche. Il documento uscì nel novembre del 1994 e si intitolava: Diretrizes de Politica Agraria e Desenvolvimento Sustentavel. Li dentro c’erano tutte le indicazioni (e anche oltre) per il futuro Programma Nazionale di appoggio all’agricoltura familiare, il PRONAF che, nato l’anno seguente con la presidenza Cardoso, ebbe una svolta molto importante in termini di risorse, quando arrivò Lula nel gennaio del 2003. 

 

Qui sotto trovate il link all’articolo che ho scritto con il capo-progetto dell’epoca, per raccontare il lavoro da noi svolto in quegli anni: 

https://old.fondation-farm.org/zoe.php?s=blogfarm&w=wt&idt=1705#cv

 

Se siamo riusciti a far passare delle raccomandazioni emanate dal programma FAO e farle diventare politica pubblica, è stato grazie a Valter Bianchini.

 

Di chiare origini venete (trevigiane), Valter ha lavorato molti anni con il servizio di assistenza tecnica EMATER del suo stato, il Paranà, prima di fondare, assieme ad altri amici, una Ong (DESER) che serviva come centro studi sulle questioni agrarie nel Paranà. 

 

Oltre ad avere una empatia naturale verso gli altri, uguale al compianto Marco Lins, Valter era anche diventato il referente di Lula per i movimenti contadini. Come mi disse sua moglie, un anno che io e mia moglie eravamo andati a passare qualche giorno di vacanza con loro, “quando Lula ha un problema con i movimenti contadini, chiama Bianchini!”. L’altro referente agrario di Lula era il manitou di cui ho accennato prima, che gli copriva il mondo accademico. Per fortuna che, nel caso in questione, Lula ascoltò Bianchini, per cui venne creata, all’interno del nuovo Ministero dello Sviluppo Agrario (MDA), la Segreteria dell’Agricoltura Familiare (SAF), con Bianchini alla sua guida.

 

Il Pronaf nacque così, prendendo una parte sola delle nostre raccomandazioni, ma già così era una politica pubblica innovativa, che pian piano prese una importanza strategica sia per Lula (perché gli permise di compensare in questo modo il poco o nulla sul tema della riforma agraria) che per molti paesi latinoamericani.

 

Erano anni d’oro, quando c’erano soldi nelle casse dello stato, il che permise una rapida espansione dei contratti con gli agricoltori, fino a coprirne circa il 50%. In oltre 25 anni non si è mai riusciti ad andare oltre, confermando i limiti strutturali del problema agrario brasiliano. Anche negli anni d’oro, molti fondi andarono al Pronaf, ma molti di più al Ministero dell’Agricoltura, responsabile per l’agribusiness.

 

Questa asimmetria di potere non è mai stata toccata e personalmente non credo sarà nemmeno sfiorata dal futuro governo Lula.

 

Alla fine, vedendo che era forse l’unica bandiera “progressista” nel mondo agrario (Brasile, latinoamericano e anche mondiale), anche i movimenti contadini tipo La Via Campesina, cambiarono idea e per questioni tattiche iniziarono ad appoggiarlo e presentarlo come una loro bandiera, cosa che storicamente non è vera.

 

Il problema è che tutti questi ultimi arrivati a vantare l’importanza dell’agricoltura familiare, lo hanno fatto spesso per ragioni tattiche, cioè senza aver studiato la questione politica legata allo stesso. Considerandolo quindi come un elemento importante in una visione immobile della storia, non hanno visto e ancor meno capito l’emergere della questione di genere.

 

Al massimo, spinti dalle pressioni che si originavano al loro interno, grazie alle donne dei movimenti, hanno interiorizzato alcune parole d’ordine, in particolare l’accesso alla terra e in particolare la co-titolazione nelle assegnazioni della riforma agraria. Ci si è fermati lì. Questo aspetto, che è evidentemente importante nei paesi dove erano in corso programmi di riforma fondiaria o agraria, resta comunque estraneo alla problematica dei paesi dove dominano “commons” e diritti di tipo consuetudinario.

 

La questione genere nell’agricoltura familiare tocca però altre dimensioni ancora più rilevanti, in particolare le asimmetrie di potere all’interno della “famiglia” e la ripartizione patriarcale dei compiti e dei riconoscimenti. Oggigiorno, nello stesso modo che si critica, giustamente, l’agroecologia quando resta una discussione limitata alle tecniche e ai benefici di tipo ecologico, senza occuparsi delle strutture di potere, bisogna criticare anche il concetto di agricoltura familiare, esattamente per la stessa ragione: mancanza di critica alla struttura interna di potere che questo concetto veicola. Nei fatti, continuare a parlare di agricoltura familiare senza dire null’altro, vuol dire perpetuare un sistema patriarcale.

 

Tanti specialisti universitari, che continuano a scrivere sull’importanza dell’agricoltura familiare, non si sono nemmeno resi conto di essere passati dalla parte dei conservatori, uomini del passato. Lo stesso vale per quei movimenti contadini che continuano ad opporre resistenze a queste analisi, paurosi forse che venga rimessa in questione la centralità maschile che ancora domina le dirigenze dei movimenti.

 

Sarebbe ora che accettassero la realtà e che anche loro iniziassero a fare un “aggiornamento” politico. Non è mai troppo tardi.

 

 

 

 

lunedì 28 novembre 2022

2022 L58: Aldo Cazzullo - Mussolini il capobanda - perché dovremmo vergognarci del fascismo



Mondadori 2022

«Cent'anni fa, in questi stessi giorni, la nostra patria cadeva nelle mani di una banda di delinquenti, guidata da un uomo spietato e cattivo. Un uomo capace di tutto; persino di far chiudere e morire in manicomio il proprio figlio, e la donna che l'aveva messo al mondo». Comincia così il racconto di Aldo Cazzullo su Mussolini. Una figura di cui la maggioranza degli italiani si è fatta un'idea sbagliata: uno statista che fino al '38 le aveva azzeccate quasi tutte; peccato l'alleanza con Hitler, le leggi razziali, la guerra. Cazzullo ricorda che prima del '38 Mussolini aveva provocato la morte dei principali oppositori: Matteotti, Gobetti, Gramsci, Amendola, don Minzoni, Carlo e Nello Rosselli. Aveva conquistato il potere con la violenza - non solo manganelli e olio di ricino ma bombe e mitragliatrici -, facendo centinaia di vittime. Fin dal 1922 si era preso la rivincita sulle città che gli avevano resistito, con avversari gettati dalle finestre di San Lorenzo a Roma, o legati ai camion e trascinati nelle vie di Torino. Aveva imposto una cappa di piombo: Tribunale speciale, polizia segreta, confino, tassa sul celibato, esclusione delle donne da molti posti di lavoro. Aveva commesso crimini in Libia - 40 mila morti tra i civili -, in Etiopia - dall'iprite al massacro dei monaci cristiani -, in Spagna. Aveva usato gli italiani come cavie per cure sbagliate contro la malaria e per vaccini letali. Era stato crudele con tanti: a cominciare da Ida Dalser e dal loro figlio Benitino. La guerra non fu un impazzimento del Duce, ma lo sbocco logico del fascismo, che sostiene la sopraffazione di uno Stato sull'altro e di una razza sull'altra. Idee che purtroppo non sono morte con Mussolini. Anche se Cazzullo demolisce un altro luogo comune: non è vero che tutti gli italiani sono stati fascisti. E l'antifascismo dovrebbe essere un valore comune a tutti i partiti e a tutti gli italiani.

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Nessun dubbio che sarà nella Top dell'anno. Consigliatissimo, anche se un errore Cazzullo lo commette, sui morti desaparecidos della dittatura argentina, dove riprende anche lui il numero, oramai accertato non corrispondente al vero, di 30 mila morti. Per un approfondimento rinvio i lettori alla prefazione di Bruno Groppo al libro che io e Pierre abbiamo recentemente pubblicato: Destinazione Esperanza!


2022 L57: Sophia Mavroudis - Stavros sur la route de la soie


Jigal 2021

Juin 2020. En plein centre d’Athènes, le corps d’un homme d’affaires chinois est retrouvé écrasé au pied d’un hôtel en construction. Le commissaire Stavros Nikopolidis est chargé d’enquêter sur le meurtre de ce monsieur Lee, un des principaux investisseurs chinois en Grèce. Ses pérégrinations, très loin d’une simple enquête de routine, vont le conduire rapidement vers la séduisante Yi Ho, vice présidente de la société de monsieur Lee, qui semble se mouvoir avec beaucoup d’aisance dans les milieux opaques du transport maritime, de l’immobilier et de la politique. Les meurtres successifs d’un banquier et d’un journaliste vont plonger Stavros dans les méandres d’un vaste complot politico-financier qui va s’avérer être un des cocktails les plus explosifs dans une Grèce de l’après crise, ouverte à toutes les convoitises, et où tous les coups sont permis…

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Avevo molte speranze con questa scrittrice, ma un po' mi ha deluso. Storia super complicata, descrizioni e personaggi un po' così, errori banali da evitare, insomma, non sono sicuro che riproverò con altri libri

sabato 26 novembre 2022

Commençons à penser l'avenir : un voyage vers les autres (femmes et hommes)


J'écris ce post pas par hasard aujourd'hui 25 novembre.
 
Je commence ici à écrire quelques premières réflexions, préparatoires à la structuration d'un futur travail qui dépasse la phase critique, telle qu'exprimée dans les deux précédents ouvrages, La crise agricole et éco-génétique expliquée aux non-spécialistes (Meltemi, 2020), et le suivant qui sortira en janvier (dont je ne dirai pas encore le titre et l'éditeur), pour avancer dans l'art difficile de proposer des éléments pour un parcours de construction d'un futur différent.
 
L'équipe de travail n'a pas encore été constituée, les portes sont donc ouvertes à toute personne désireuse de postuler.
 
Pour commencer, je crois qu'un travail de nettoyage du passé s'impose, ce qui implique de remonter une fois de plus vers le passé, l'ontologie moderniste (telle que définie par Kirsten Koop, que je remercie ici pour son travail très inspirant) que nous avons construite et qui nous maintient mentalement captifs et limite grandement notre élaboration. Une opération d'autant plus nécessaire si l'on veut vraiment commencer à penser l'avenir autrement.

 

Enfants du modernisme et sa cage mentale
 
Bien que je visite la France depuis près de 40 ans, je dois admettre que la pleine compréhension du sens de la révolution de 1789 m'a échappé jusqu'à récemment. Pour résumer en un mot, c'était une rupture sociétale avec les structures féodales caractérisées par l'imbrication avec l'Église et la religion, structures fortement inégalitaires et où les droits et libertés individuels n'existaient pas. 
 
La révolution a apporté avec elle ces nouvelles valeurs, Liberté, Égalité et Fraternité (évidemment pas la sororité, étant donné qu'il s'agissait d'une révolution masculine et chauvine, pleinement insérée dans la longue tradition patriarcale qui n'a jamais été abandonnée), et le rêve de réduire les inégalités de pair avec l'élargissement des libertés individuelles.
 
Ces idées et valeurs effraient le monde à l'époque, car le système monarchique féodal était à la base de tous les États européens, au-delà de la dérive dictatoriale de Napoléon. Des idées et des valeurs qui deviennent, (malgré elles ?) les fondements d'un nouveau système économique, car de fait elles légitiment le capitalisme mercantile, l'économie productiviste naissante avec laquelle commence la révolution industrielle.
 
C'est ainsi que lentement, sur les bases de la Révolution française, de Darwin et du progrès technico-scientifique, se forge un nouvel imaginaire fait d'une pensée linéaire, progressiste et optimiste face aux changements sociaux. Ainsi est née la « modernité », un produit historique complexe et contradictoire qui poursuivra son cheminement depuis l'Occident développé (Europe et États-Unis) vers la domination mondiale.
 
La fin de la Seconde Guerre mondiale est le point de départ de l'accélération de la « modernisation » guidée et orientée par le monde occidental. À partir du discours de Truman en 1949, il devient clair pour tout le monde que, bien qu'il ne soit qu'un des deux grands protagonistes de la défaite du nazisme (l'autre, avec beaucoup plus de victimes et de dommages subis, l'Union soviétique), l'avenir sera celui tracé par les USA, sur la base des fondements posés depuis 1789 : propriété privée, liberté et démocratie selon des normes définies à Washington.

 

La première étape a été la suppression de l'autre. La guerre froide n'était pas seulement une bataille idéologique entre le capitalisme et le communisme, mais entre une façon de voir unique et globale (la modernité définie par le monde occidental) et un possible "autre", dont on savait peu et qui faisait peur de toute façon.
 
La construction de la modernité occidentale nécessitait, pour se répandre jusque dans les nouveaux Suds qui commençaient à exister, de nouveaux concepts qui clarifiaient en quelques mots qui commandait et qui ne commandait pas. Ainsi est né le concept de « développement », les pays « sous-développés » ont été inventés et, grâce à des théories économiques complaisantes (Lewis), la voie à suivre a été détaillée : la propriété privée a été rejointe par le rôle central du marché, la construction de nouveaux états sur le modèle (et les institutions) occidentaux et, particulièrement dans le monde agricole, s'ajoute l'autre Dieu, un Janus à deux visages constitués par le binôme science-technologie.
 
Des institutions internationales sont créées (les Nations Unies et, en leur sein, notamment la FAO), pour apporter la bonne nouvelle au reste du monde.
 
Il faudra des décennies pour que des théories alternatives se développent grâce aux écrits d'André Gunder Frank, Samir Amin et Singer-Prebisch, entre autres. Mais ils resteront toujours dans le même contenant, le modernisme (développement, industrialisation, science et technologie). D'autres années s'écouleront avant que nous commencions lentement à découvrir les "acteurs" (masculins) du "développement". On tente ainsi de corriger les erreurs des approches modernistes qui, dans le Sud du monde, ne conduisent à la résolution d'aucun des problèmes fondamentaux, en premier lieu celui de la faim et, étroitement lié et même plus large, de la pauvreté. Les approches "participatives" sont nées qui, ainsi simplifiées par mon vieil ami et souvent cité Hernan Mora, deviennent bientôt des approches de "participulation", c'est-à-dire de participation manipulée.
 
La manipulation est nécessaire, car il ne peut y avoir aucun risque que ces acteurs locaux, qui, jusqu'à récemment, se voyaient refuser le minimum de connaissances utiles à leur "développement" (qui ne pouvait que provenir de nos connaissances scientifiques), deviennent de véritables protagonistes et prétendent peut-être prendre le sens (de leur "développement") ou peut-être même d'en changer le sens.
 
Peu à peu, l'autre moitié du monde commence aussi à émerger, d'abord la question féminine puis celle du genre. Cependant, cela aussi a été rapidement canalisé dans les voies de la vision moderniste du nord-ouest.

 

Nous arrivons donc à nos jours où il n'est plus possible de nier l'existence de nombreux "autres" différents. Pourtant, la bataille, vue par les dominants, reste toujours la même : comment encadrer ces « autres » au sein d'un même schéma dominé par le Nord, schéma qui, depuis plus de 40 ans, s'est accéléré en plaçant le singulier, l'individu comme le seul référent des politiques, des visions et des programmes. La promotion de l'individualisme était structurellement fonctionnelle à l'idée de rompre les liens sociétaux de solidarité qui pouvaient encore exister et résister. Margaret Thatcher l'a bien dit : je ne vois que des individus, je ne vois pas la société. Ce slogan nous a pénétré, nous séparant les uns des autres, en cela facilité par le développement de la science et de la technologie (encore !), qui nous permettent de "faire semblant" d'être une communauté, quand nous sommes enfermés dans notre chambre à chatter au téléphone.
 
Un voyage vers le plurivers
 
Si l'ontologie moderniste a été notre cage mentale pendant deux siècles et plus (avec une accélération depuis l'après-guerre), il faut aussi rappeler que ce monde et celui préexistant (féodal) étaient enfants du même porte-greffe, le patriarcat.
 
Les routes que nous devons parcourir sont donc nombreuses, complexes et le chemin n'est évidemment pas défini. C'est que le premier point est de revenir à ce qui a été dit sur la raison de la guerre froide : ne pas avoir un « autre », ne lui reconnaître aucun droit à participer à la construction d'une vision du monde d'après-guerre.
 
Eh bien, si les États-Unis ont réussi avec l'Union soviétique, ils ont en fait perdu la bataille parce que des « autres » sont apparus non seulement dans l'hémisphère Sud (depuis la « découverte » des peuples autochtones et de leurs différentes cosmovisions) mais aussi dans notre Nord : la question de genre, la lutte contre le patriarcat et les asymétries de pouvoir.

 

Il n'y a pas qu'un monde, mais un plurivers conçu, décrit et vécu de manière différente, sans hiérarchies, par une pluralité de… actrices et acteurs.
 
L'acceptation de cette pluriversatilité (allons-nous l'appeler ainsi ?) n'est qu'un point de départ, pour mettre en crise et aussi questionner les outils avec lesquels nous essayons de comprendre les acteurs et actrices du Sud et du Nord. Nous, enfants de la "coopération au développement", souvent masculins, blancs et occidentaux, devons faire un très grand effort pour regarder à l'intérieur de nous-mêmes, pour nous dépouiller de ces cuirasses idéologiques et conceptuelles, de ces crédos dont nous n'avons même pas conscience (parfois), pour entreprendre ce chemin.
 
Sortir de la modernité, et se poser le problème des autres, en les acceptant et commençant à construire à partir de la diversité. Mais pas seulement en regardant vers le sud, mais aussi à côté de nous, au-dessus et au-dessous de nous, avec nos sœurs, filles, mères, grands-mères, amies et collègues. Nous avons besoin de lunettes différentes, qu'un ophtalmologiste ne nous donnera pas, mais nous devons les construire nous-mêmes, non pas seuls, mais en s'appuyant les uns sur les autres.
 
Le plurivers est et sera différent, mais il doit avoir un point de départ différent et commun, un porte-greffe qui porte un nom clair : NON au patriarcat ! A partir de là, nous commençons à réfléchir sur des concepts, des méthodes d'étude et des actions concrètes. Sans se laisser duper à nouveau par des innovations qui nous sont présentées comme révolutionnaires, comme l'agroécologie ou la permaculture : nous restons toujours dans le même cadre scientifique et technique, uniquement en changeant les techniques et en les déclarant plus respectueuses de l'environnement. Mais en oubliant toujours que nous aussi, femmes et hommes, sommes l'environnement, alors un combat pour promouvoir ces techniques sans aller lutter contre la base patriarcale derrière nous ne sert à rien.
 
C'est juste pour donner un exemple, que la recherche ne sera pas aisée, les formules économétriques si chères à mon ami Marco n'existeront pas ; nous devrons nous ouvrir, dans nos doutes, à l'absence de certitudes car, comme le disait Z. Sardar dans son essai Bienvenue à l'époque postnormale, « L'esprit de notre époque se caractérise par l'incertitude, le changement rapide, le réalignement des pouvoirs, le bouleversement et comportement chaotique. Nous vivons dans une période intermédiaire où les anciennes orthodoxies meurent, de nouvelles doivent encore naître et très peu de choses semblent avoir un sens. Nous sommes dans une ère de transition, une période sans confiance dans le fait que nous pouvons revenir à n'importe quel passé que nous avons connu et sans confiance dans aucune voie vers un avenir souhaitable, réalisable ou durable. La voie à suivre doit être fondée sur les vertus d'humilité, de modestie et de responsabilité, l'exigence indispensable de vivre avec l'incertitude, la complexité et l'ignorance.
 
Alors, commençons !

 

Empecemos a pensar en el futuro: un viaje hacia los demás (y sobre todos las demás)


Escribo este post no por casualidad hoy 25 de noviembre.

 

Aquí empiezo a escribir algunas reflexiones iniciales, preparatorias a la estructuración de un trabajo futuro que va más allá de la fase crítica, tal como se expresa en los dos libros anteriores, La crisis agrícola y ecogenética explicada a los no especialistas (Meltemi, 2020), y el próximo que verá la luz en enero (cuyo título y editorial aún no diré), para avanzar en el difícil arte de proponer elementos para un camino de construcción de un futuro diferente.

 

El equipo de trabajo aún no ha sido diseñado, por lo que las puertas están abiertas para cualquiera que desee postularse.

 

Para empezar, creo que se necesita un trabajo de limpieza del pasado, lo que implica volver una vez más al pasado, a la ontología modernista (tal como la define Kirsten Koop) que hemos construido y que nos mantiene mentalmente cautivos y limita mucho nuestras capacidades elaborativas.

 

Una operación tanto más necesaria si realmente queremos empezar a pensar en el futuro de otra manera.

 

Hij@s del modernismo y su jaula mental
 
Aunque he estado visitando Francia durante casi 40 años, debo admitir que la comprensión completa del significado de la revolución de 1789 se me pasó por alto hasta hace poco. En resumen, fue una ruptura social con las estructuras feudales caracterizadas por la imbricación con la Iglesia y la religión, estructuras altamente desigualitarias y donde los derechos y libertades individuales no existían. La revolución trajo consigo estos nuevos valores, Liberté, Egalité et Fraternité (obviamente no la sororidad, dado que fue una revolución masculina y esencialmente machista, inserta de lleno en la larga tradición patriarcal que nunca ha sido abandonada), y el sueño de reducir las desigualdades de la mano con la expansión de las libertades individuales.
Estas ideas y valores asustaban al mundo de la época, pues el sistema monárquico feudal fue la base de todos los estados europeos, más allá de la deriva dictatorial de Napoleón. Ideas y valores que se convierten (¿a pesar de sí mismos?) en los cimientos de un nuevo sistema económico, porque en realidad legitiman el capitalismo mercantil, la naciente economía productivista con la que se inicia la revolución industrial.
 
Así es como lentamente, sobre los cimientos de la Revolución Francesa, Darwin y el progreso técnico-científico, se va forjando un nuevo imaginario hecho de pensamiento lineal, progresista y optimista en torno a los cambios sociales. Así nació la "modernidad", un producto histórico complejo y contradictorio que continuará su viaje desde el occidente desarrollado (Europa y Estados Unidos) hacia la dominación mundial.
 
El final de la Segunda Guerra Mundial es el punto de partida para la aceleración de la "modernización" guiada y orientada por el mundo occidental. A partir del discurso de Truman de 1949, queda claro para todos que, a pesar de ser sólo uno de los dos grandes protagonistas de la derrota del nazismo (el otro, con muchas más víctimas y daños sufridos, la Unión Soviética), el futuro será el trazado. por los Estados Unidos, sobre la base de los cimientos establecidos desde 1789: propiedad privada, libertad y democracia según los estándares definidos en Washington.

 

El primer paso fue la supresión del “otro”. La Guerra Fría no fue sólo una batalla ideológica entre el capitalismo y el comunismo, sino entre una forma de ver única y totalizadora (la modernidad definida por el mundo occidental) y un posible “otro”, del que poco se sabía y ese poco daba miedo de todos modos.
 
La construcción de la modernidad occidental requirió, para extenderse incluso en los nuevos Sur que comenzaban a existir, nuevos conceptos que aclararan en pocas palabras quién mandaba y quién no. Así nació el concepto de "desarrollo", se inventaron los países "subdesarrollados" y, gracias a teorías económicas complacientes (Lewis), se detalló el camino a seguir: a la propiedad privada se unió el papel central del mercado, la construcción de nuevos estados en la línea de los modelos (e instituciones) occidentales y, particularmente en el mundo agrícola, se añade el otro Dios, un Jano de dos caras formado por el binomio ciencia-tecnología.
 
Se crean instituciones internacionales (las Naciones Unidas y, dentro de ellas, en particular la FAO), para llevar la buena nueva al resto del mundo.
 
Pasarán décadas hasta que se desarrollen teorías alternativas gracias a los escritos de André Gunder Frank, Samir Amin y Singer-Prebisch, entre otros. Pero siempre permanecerán dentro del mismo contenedor, el modernismo (desarrollo, industrialización, ciencia y tecnología). Pasarán otros años antes de que lentamente comencemos a descubrir los (escribo a propósito los y no las) "actores" del "desarrollo". Se intenta así corregir los errores de los planteamientos modernistas que, en el Sur del mundo, no conducen a la resolución de ninguno de los problemas básicos, en primer lugar, el del hambre y, íntimamente ligado y aún más amplio, el de la pobreza. Nacen los enfoques "participativos" que, bien simplificados por mi viejo amigo y tantas veces citado Hernán Mora, pronto se convierten en enfoques de "participulación", es decir, de participación manipulada.
 
La manipulación es necesaria, porque no puede haber riesgo de que estos actores locales, a los que hasta hace poco tiempo se les negaban los conocimientos mínimos útiles para su "desarrollo" (que sólo podía proceder de nuestro conocimiento científico), se conviertan en verdaderos protagonistas y tal vez pretendan tomar la dirección (de su "desarrollo") o tal vez incluso para cambiar su dirección.
 
Poco a poco empieza a surgir también la otra mitad del mundo, primero la cuestión femenina y luego el género. Sin embargo, esto también se canalizó pronto en las vías de la visión modernista del noroeste.

 

Así llegamos al día de hoy donde ya no es posible negar la existencia de muchos "otros" diferentes. Sin embargo, la batalla, vista por los dominantes, siempre es la misma: cómo enmarcar a estos "otros" dentro de un mismo esquema dominado por el norte, esquema que, desde hace más de 40 años, se ha acelerado al colocar al singular, al individuo como el único referente de políticas, visiones y programas. La promoción del individualismo fue estructuralmente funcional a la idea de romper los lazos sociales de solidaridad que aún podían existir y resistir. Margaret Thatcher lo dijo bien: solo veo individuos, no veo la sociedad. Esa consigna nos ha penetrado, separándonos unos de otros, en esto facilitado por el desarrollo de la ciencia y la tecnología (¡otra vez!), que nos permiten “simular” ser una comunidad, cuando estamos encerrados en nuestra habitación chateando por teléfono.
 
Un viaje hacia el pluriverso
 
Necesitamos invertir el significado del título inicial: no se trata genéricamente de ir hacia los otros, sino sobre todo de ir hacia las otras. Si la ontología modernista ha sido nuestra jaula mental durante dos siglos y más (con una aceleración desde la posguerra), también debe recordarse que este mundo y el preexistente (feudal) eran hijos del mismo patrón, el patriarcado.
 
Los caminos por los que debemos transitar son pues muchos, complejos y evidentemente no están definidos. Esto porque el primer punto es volver a lo dicho sobre el porqué de la Guerra Fría: no tener “otro”, no reconocerle ningún derecho a participar en la construcción de una visión del mundo de la posguerra.
 
Bueno, si EE.UU. triunfó con la Unión Soviética, en realidad perdieron la batalla porque aparecieron “otros” no solo en el hemisferio Sur (a partir del “descubrimiento” de los pueblos indígenas y sus diferentes cosmovisiones) sino también en nuestro Norte: el tema de género, la lucha contra el patriarcado y las asimetrías de poder.

 

No hay un solo mundo, sino un pluriverso concebido, descrito y vivido de manera diferente, sin jerarquías, por una pluralidad de… actrices y actores.
 
La aceptación de esta pluriversatilidad (¿así la llamamos?) es sólo un punto de partida, para poner en crisis y también cuestionar las herramientas con las que tratamos de entender a los actores y actrices del Sur y del Norte. Nosotros, hijos de la "cooperación al desarrollo", muchas veces hombres, blancos y occidentales, debemos hacer un esfuerzo muy grande para mirar dentro de nosotros mismos, para despojarnos de estas corazas ideológicas y conceptuales, de estos credos de los que ni siquiera somos conscientes (a veces), para emprender este camino.
 
Salir de la modernidad, y plantearnos el problema del otro y de las otras. Pero no solo mirando al sur, sino también a nuestro lado, arriba y abajo, con nuestras hermanas, hijas, madres, abuelas, amigas y colegas. Necesitamos unas gafas diferentes, que un oftalmólogo no nos dará, pero tenemos que construirlas nosotros mismos, no solos, sino apoyándonos unos en otros.
 
El pluriverso es y será diferente, pero debe tener un punto de partida diferente y común, un patrón que tenga un nombre claro: ¡NO al patriarcado! A partir de ahí comenzamos a reflexionar sobre conceptos, métodos de estudio y acciones concretas. Sin dejarnos engañar de nuevo por innovaciones que se nos presentan como revolucionarias, como la agroecología o la permacultura: nos mantenemos siempre en el mismo marco de la ciencia y la tecnología, solo cambiando técnicas y declarándolas más respetuosas con el medio ambiente. Pero siempre olvidando que nosotr@s, mujeres y hombres, también somos medio ambiente, por lo que de poco sirve una lucha por promover estas técnicas sin ir a luchar contra la base patriarcal que hay detrás.

Esto es solo para dar un ejemplo, que la búsqueda no será fácil, no habrá fórmulas econométricas tan queridas por mi amigo Marco; tendremos que abrirnos, en nuestras dudas, en ausencia de certezas porque, como dijo Z. Sardar en su ensayo Bienvenidos a tiempos posnormales, “El espíritu de nuestra era se caracteriza por la incertidumbre, el cambio rápido, el realineamiento del poder, la agitación y comportamiento caótico. Vivimos en un período intermedio en el que las viejas ortodoxias están muriendo, otras nuevas aún no han nacido y muy pocas cosas parecen tener sentido. La nuestra es una era de transición, una época sin la confianza de que podemos regresar a cualquier pasado que hayamos conocido y sin confianza en ningún camino hacia un futuro deseable, alcanzable o sostenible. El camino a seguir debe basarse en las virtudes de la humildad, la modestia y la responsabilidad, requisito indispensable de vivir en la incertidumbre, la complejidad y la ignorancia”.
 
¡Entonces empecemos!

venerdì 25 novembre 2022

Iniziamo a pensare il futuro: un viaggio verso gli altri (e soprattutto le altre)

Scrivo questo post non casualmente oggi 25 novembre.

Comincio qui a scrivere alcune riflessioni iniziali, propedeutiche alla strutturazione di un lavoro futuro che vada oltre la fase di critica, come espressa nei due libri precedenti, La crisi agraria ed eco-genetica spiegata ai non specialisti (Meltemi, 2020), e il prossimo che uscirà a gennaio (di cui non dico ancora titolo ed editore), per inoltrarsi nella difficile arte di proporre elementi per un cammino di costruzione di un futuro diverso.

La squadra di lavoro non è ancora stata pensata, per cui le porte sono aperte a chi volesse proporsi.

Per cominciare, credo sia necessaria un’opera di pulizia del passato, che implica ritornare ancora una volta sul passato, l’ontologia modernista (come la definisce Kirsten Koop) che abbiamo costruito e che ci tiene prigionieri/e mentalmente e limita molto le capacità elaborative.

Operazione quanto più necessaria se realmente vogliamo iniziare a pensare il futuro in maniera diversa.

Figli/e del modernismo e della sua gabbia mentale

Per quanto io frequenti la Francia da quasi 40 anni, devo ammettere che la comprensione piena del significato della rivoluzione del 1789 mi ha sorvolato superficialmente fino a poco tempo fa. Per riassumere in poche parole, si è trattato di una rottura societale rispetto alle strutture feudali caratterizzate dall’imbricazione con la Chiesa e la religione, strutture altamente inegualitarie e dove non esistevano diritti e libertà individuale. La rivoluzione ha portato con sé questi nuovi valori, Liberté, Egalité et Fraternité (non sorellanza ovviamente, dato che era una rivoluzione maschile e maschilista, inserita pienamente nella lunga tradizione patriarcale che mai è stata abbandonata), e il sogno di ridurre le disuguaglianze di pari passo con l’espansione delle libertà individuali. 

Queste idee e valori fanno paura nel mondo di allora, perché il sistema feudale monarchico era la base di tutti gli stati europei, al di là della deriva dittatoriale di Napoleone. Idee e valori che diventano, (loro malgrado?) le fondamenta di un nuovo sistema economico, perché di fatto legittimano il capitalismo mercantile, la nascente economia produttivista con cui inizia la rivoluzione industriale.

È così che pian piano, sulle fondamenta della rivoluzione francese, Darwin e i progressi tecnico-scientifici si forgia un nuovo immaginario fatto di pensiero lineare, progressivo e ottimista quanto ai cambiamenti sociali. Nasce così la “modernità”, un prodotto storico complesso e contraddittorio che continuerà il suo cammino dall’occidente sviluppato (Europa e Stati Uniti) verso la dominazione mondiale.

La fine del secondo dopoguerra è il punto di partenza per l’accelerazione della “modernizzazione” guidata e orientata dal mondo occidentale. Dal discorso di Truman del 1949 in poi, diventa chiaro per tutti che, pur essendo solo una delle due grandi protagoniste della sconfitta del nazismo (l’altra, con molte più vittime e danni sofferti, l’Unione Sovietica), il futuro sarà quello tracciato dagli USA, sulla scorta delle basi messe fin dal 1789: proprietà privata, libertà e democrazia secondo standard definiti a Washington.

Il primo passaggio è stata la cancellazione dell’altro. La guerra fredda non è stata solo una battaglia ideologica tra capitalismo e comunismo, ma tra un modo di vedere unico e omnicomprensivo (la modernità definita dal mondo occidentale) e un possibile “altro”, di cui si sapeva poco e quel poco comunque faceva paura.

La costruzione della modernità occidentale necessitava, per diffondersi anche nei nuovi Sud che iniziavano ad esistere, di concetti nuovi che chiarissero in poche parole chi comandava e chi no. Nasce quindi il concetto di “sviluppo”, si inventano i paesi “sottosviluppati” e, grazie a compiacenti teorie economiche (Lewis) si dettaglia il percorso da fare: alla proprietà privata si affianca il ruolo centrale del mercato, la costruzione di nuovi Stati sulla falsariga dei modelli (e istituzioni) occidentali e si aggiunge, particolarmente nel mondo agrario, l’altro Dio, un giano bifronte composto dal binomio scienza-tecnologia.

Si creano istituzioni internazionali (le nazioni unite e, al loro interno in particolare la FAO), per portare la buona novella nel resto del mondo.

Ci vorranno decenni prima che teorie alternative si sviluppino grazie, tra gli altri, agli scritti di André Gunder Frank, Samir Amin e Singer-Prebisch. Ma resteranno sempre iscritte all’interno dello stesso contenitore, il modernismo (sviluppo, industrializzazione, scienza e tecnologia). Altri anni passeranno prima che pian piano si inizino a scoprire gli (scrivo apposta gli e non le) “attori” dello “sviluppo”. Si prova così a correggere gli errori degli approcci modernisti che, nel Sud del mondo, non portano alla risoluzione di nessuno dei problemi di base, primo fra tutti quello della fame e, strettamente collegato e ancor più ampio, della povertà. Nascono gli approcci “partecipativi” che, come ben semplificato dal mio vecchio amico e molte volte citato Hernan Mora, diventano ben presto degli approcci di “partecipolazione”, cioè di partecipazione manipolata.

La manipolazione è necessaria, perché non può esistere il rischio che questi attori locali, a cui, fino a poco prima, si è negata la minima conoscenza utile al loro “sviluppo” (che solo poteva procedere dai nostri saperi scientifici), diventino dei veri protagonisti e pretendano magari prenderne la direzione (del loro “sviluppo”) o magari addirittura di cambiarne la direzione.

Poco a poco inizia ad emergere anche l’altra metà del mondo, la questione femminile prima e di genere poi. Anche questa però viene ben presto incanalata dentro i binari della visione modernista nord-occidentale.

Arriviamo quindi ai giorni nostri dove non è più possibile negare l’esistenza di tanti e diversi “altri”. La battaglia, vista dai dominanti, resta però sempre la stessa: come inquadrare questi “altri” dentro lo stesso schema dominato dal nord, uno schema che, da oltre 40 anni, ha accelerato nel porre il singolo, l’individuo come unico referente di politiche, visioni e programmi. La promozione dell’individualismo era strutturalmente funzionale all’idea di rompere i legami societali di solidarietà che potevano ancora esistere e resistere. Lo aveva ben detto Margaret Thatcher: io vedo solo individui, non vedo società. Quello slogan ci è entrato dentro, separandoci gli uni dagli altri, in questo facilitati dallo sviluppo di scienza e tecnologia (ancora!), che permettono di “fare finta” di essere comunità, quando siamo chiusi nella nostra stanza a chattare sul telefono.

Un viaggio verso il pluriverso

Bisogna invertire il senso del titolo iniziale: non si tratta genericamente di andare verso gli altri, ma di andare innanzitutto verso le altre. Se l’ontologia modernista è la nostra gabbia mentale da due secoli e più (con una accelerazione dal dopoguerra in poi), va anche ricordato che questo mondo e quello pre-esistente (feudale) erano figli di uno stesso portainnesto, il patriarcato. 

Le strade che dobbiamo percorrere quindi sono tante, complesse e il percorso non è ovviamente definito. Questo perché il primo punto è di ritornare a quanto detto sul perché della guerra fredda: non avere un altro, non riconoscergli nessun diritto di partecipare alla costruzione di una visione per il mondo del dopoguerra.

Bene, se gli USA ci sono riusciti con l’Unione Sovietica, in realtà hanno perso la battaglia perché “altri” sono apparsi non solo nei Sud del mondo (a partire dalla “scoperta” delle popolazioni indigene e delle loro diverse cosmovisioni) ma anche nel nostro Nord: la questione di genere, lotta al patriarcato e alle asimmetrie di potere.

Non c’è un mondo solo, ma un pluriverso pensato, descritto e vissuto in maniera diversa, senza gerarchie, da una pluralità di … attrici e attori.

L’accettazione di questa pluriversatilità (si dirà così?) è solo un punto di partenza, per mettere in crisi e questionare anche gli strumenti con cui cerchiamo di capire attori e attrici del Sud e del nord. Noi figli della “cooperazione allo sviluppo”, spesso maschi, bianchi e occidentali, dobbiamo fare uno sforzo molto grande per guardarci dentro, toglierci di dosso queste armature ideologiche e concettuali, questi credi di cui non siamo neppure coscienti (a volte), per intraprendere questo cammino.

Uscire dalla modernità, e porci il problema degli altri e delle altre. Ma non solo guardando a Sud, ma anche al nostro fianco, sopra e sotto di noi, con le nostre sorelle, figlie, madri, nonne, amiche e colleghe. Abbiamo bisogno di occhiali diversi, che non sarà un oculista a darci, ma dobbiamo costruirceli noi, non da soli, ma appoggiandoci gli uni agli altri.

Il pluriverso è e sarà diverso, ma dovrà avere una base di partenza diversa e comune, un portainnesto che ha un nome chiaro: NO al patriarcato! Da lì cominciamo a riflettere, su concetti, metodi di studio ed azioni concrete. Senza farci gabbare ancora da novità che ci vengono presentate come rivoluzionarie, tipo l’agroecologia o la permacultura: si resta sempre all’interno dello stesso schema di scienza e tecnologia, solo cambiando tecniche e dichiarandole più rispettose dell’ambiente. Ma dimenticandosi sempre che l’ambiente siamo anche noi, donne e uomini, per cui una lotta per promuovere queste tecniche senza andare a lottare contro la base patriarcale che ci sta dietro, a ben poco serve. 

Questo solo per dare un esempio, che la ricerca non sarà facile, non esisteranno formule econometriche così care al mio amico Marco; dovremo aprirci noi, nei nostri dubbi, nell’assenza di certezze perché, come diceva Z. Sardar nel suo saggio Welcome to postnormal times, “The spirit of our age is characterised by uncertainty, rapid change, realignment of power, upheaval and chaotic behaviour. We live in an in-between period where old orthodoxies are dying, new ones have yet to be born, and very few things seem to make sense. Ours is a transitional age, a time without the confidence that we can return to any past we have known and with no confidence in any path to a desirable, attainable or sustainable future. The way forward must be based on virtues of humility, modesty and accountability, the indispensible requirement of living with uncertainty, complexity and ignorance.”

Quindi, iniziamo! 

mercoledì 23 novembre 2022

Hebe de Bonafini, co-fondatrice delle Madres de Plaza de Mayo, si è spenta domenica all’età di 93 anni

Per una breve rassegna del periodo storico che vide la nascita del movimento delle Madres (e poi delle Abuelas) de Plaza de Mayo, Argentina, vi invito a leggere il saggio introduttivo di Bruno Groppo che apre il romanzo Destinazione Esperanza, dove io e Pierre raccontiamo di una storia d'amore tra un giovane tedesco e una giovane argentina, all'ombra della Shoah e dei Desaparecidos. 


 

martedì 22 novembre 2022

Crisis alimentaria mundial: muchos la descubren ahora (primera parte traducida ahora)


Este era el título de un artículo publicado en Nigrizia en julio de este año: La crisis alimentaria y el riesgo de una catástrofe mundial - El año pasado 828 millones de personas, casi el 8% de la población mundial, se encontraban en un estado avanzado de desnutrición. El último informe de las Naciones Unidas describe una situación ya desastrosa, destinada a empeorar (https://www.nigrizia.it/notizia/la-crisi-alimentare-e-il-rischio-di-una-catastrofe-globale). La misma alarma fue transmitida en los mismos días por la revista International Affairs: Why the West must act on the food crisis (https://www.affarinternazionali.it/perche-loccidente-deve-agire-sulla-crisi-alimentare/). Por su parte, la revista Natura.com titula: En busca de una salida a la crisis alimentaria mundial (https://rivistanatura. com/buscando-salir-de-la-crisis-alimentaria-mundial/), recordando las palabras del Director General de la FAO con motivo del Día Mundial de la Alimentación 2022, la FAO hizo un llamamiento para "no dejar a nadie atrás" en un momento en el que más personas que nunca corren el riesgo de sufrir niveles graves de hambre: "Ante el riesgo inminente de una crisis alimentaria mundial, debemos confiar en la fuerza de la solidaridad y el impulso colectivo para crear un futuro mejor en el que todo el mundo tenga acceso regular a alimentos nutritivos suficientes."

Concluyo con la advertencia del Secretario General de la ONU de hace una semana: "Vamos camino de una catástrofe alimentaria". Así lo ha denunciado hoy el Secretario General de la ONU, Antonio Guterres, en su intervención en la sesión del G20 sobre la crisis alimentaria y energética que se celebra en Bali (https://www.agensir.it/quotidiano/2022/11/15/g20-guterres-onu-stiamo-andando-verso-catastrofe-alimentare-e-crisi-energetica/).

Me fui a dormir más tranquilo. Soñé que ahora que todo el mundo se daba cuenta del riesgo, quizá sería el momento de hacer algo. Quizá más allá de las frases retóricas sobre el poder de la solidaridad o el impulso colectivo por un futuro mejor, llegaríamos al fondo de las cosas.

Luego me levanté y me tomé un buen café. Así que me acordé de lo que he estado escribiendo durante años, resumido en el libro La crisi agraria ed eco-genetica spiegata ai non-specialisti, publicado por Meltemi (https://www.meltemieditore.it/catalogo/la-crisi-agraria-ed-eco-genetica/), y también del curso que estoy preparando para colegas de la FAO. En particular, me recordé que la FAO había elaborado el primer estudio sobre la alimentación mundial en 1946 (recuerdo que es el año en que se publicó la primera versión de La geografía del hambre de Josué de Castro, de la que ya he hablado mucho). La conclusión fue que entre la mitad y dos tercios de la población mundial estaba desnutrida antes de la guerra y que la situación había empeorado después de la misma. 

Reconociendo que el problema era grave, Occidente decidió implicarse. Luego vino la campaña de la FAO (Libre de Hambre, 1960) y la famosa Revolución Verde. En resumen, podríamos dormir mejor.

Entonces, en 1977, la FAO realizó la cuarta encuesta mundial sobre el estado del hambre y la malnutrición en el mundo, y el panorama general que se desprendía era desolador: entre el 10 y el 15% de los habitantes del planeta estaban desnutridos y el 50% sufría hambre o malnutrición, o ambas cosas.

El Director General de la época, el primero elegido en contra de los intereses estadounidenses, debió leer el libro de De Castro sobre la relación entre la estructura de la tierra y el hambre, por lo que lanzó la primera conferencia mundial sobre la reforma agraria y el desarrollo rural (1979). Nada revolucionario, teniendo en cuenta los intereses en juego, pero por primera vez impulsó con cierta fuerza una de las cuestiones clave, el acceso desigual a la tierra. No salió nada, ya que al año siguiente llegaron los demonios neoliberales, Thatcher y Reagan, que sólo creían en el dios mercado.

Así llegamos a 1992, cuando el primer director general africano de la FAO convocó, junto con la OMS, la primera Conferencia Mundial sobre Nutrición, dedicada exclusivamente a abordar los problemas nutricionales del mundo. En esa conferencia se produjo una oleada de compromisos por parte de muchos gobiernos para eliminar el hambre, la malnutrición y la desnutrición, especialmente entre los niños, las mujeres y los ancianos, y eso fue antes del próximo milenio. 

Ahora estamos en 2022, y seguimos ahí con 828 millones de personas hambrientas. 

Desde hace años, si no décadas, vengo diciendo que tal vez estas derrotas en serie habrían merecido que nos planteáramos no sólo cambiar de entrenador, sino si la forma de jugar (decidida por el Occidente neoliberal) no merecía un debate más serio. Yo también, como muchos, he esperado durante décadas que los partidos de izquierda, italianos, europeos, latinoamericanos, dieran el paso y comenzaran a estudiar y elaborar una propuesta de visión y acción consecuente. Viendo a dónde hemos llegado en casa, es mejor renunciar a esta gente.

Ya he mencionado que la cuestión de la tierra era una de las variables clave. La otra, que explico detalladamente en el libro, son los precios pagados a los agricultores. Por poner un ejemplo sencillo, recién encontrado en la web, muestro a continuación el índice de precios pagados a los agricultores franceses desde 1959 hasta 2005: hecho 100 el valor del índice para 1990, pasó de un valor de unos 175 en 1959 a menos de 80 en 2005.




Para los interesados, Mazoyer y Roudart (Histoire des agricultures du monde. Du Néolithique à la crise contemporaine) ofrecen una serie histórica mucho más larga, que se remonta hasta el siglo XIX: la tendencia es siempre la misma, una caída progresiva y continua de los precios pagados a los agricultores, categoría que ahora desaparece y ya no interesa a nadie. Basta con leer algunos de los artículos mencionados al principio para darse cuenta de cómo se centra la atención en los pobres urbanos, mientras que sobre la pobreza que se ha creado en el campo, obligando a la gente a marcharse, ir a la ciudad y/o emigrar al extranjero, nadie dice nada.

Así que crisis alimentaria sí, pero no a partir de hoy, y sobre todo crisis alimentaria creada y deseada primero por Occidente y luego por los que han conseguido dar el salto, como los chinos. Nadie paga los productos agrícolas a las campesinas y los campesinos a precios justos y por una prima, y luego se echa mano de la gran distribución (GDO) para hacer el resto.

Tal vez sea mejor que vuelva a dormir, ya que a nadie parece importarle.

Continuando con el post de ayer sobre la crisis alimentaria



Sólo quería añadir una cifra, extraída de los datos de la OCDE, de la que estoy seguro, relativa al importe de las subvenciones concedidas a la agricultura por los principales países desarrollados y algunos países emergentes: ¡el total supera los 700.000 millones de dólares al año! Sí, has leído bien: 700.000 millones al año.

A la cabeza tenemos a China con 185.900 millones, seguida de la Unión Europea con 101.300, en tercer lugar está Estados Unidos con 48.900 y en cuarto lugar Japón con 37.600 millones. 
https://www.hinrichfoundation.com/research/article/protectionism/agricultural-subsidies/


Si crees que esta montaña de dinero va a parar a los pequeños agricultores, pues se equivocan. Para ello, pongo a continuación una visualización de la evolución de las explotaciones agrícolas estadounidenses desde 1900 hasta 2002. A principios de siglo, el 17,5% de las explotaciones tenía menos de 100 acres (unas 40 hectáreas). En 2002, ¡se redujo al 4,3%! En cambio, las grandes explotaciones de más de mil acres (400 hectáreas) pasaron del 24% en 1900 al 67% en 2002. Así que puedes ver a dónde va el dinero.





La FAO nos recuerda que más del 90% de los 570 millones de explotaciones agrícolas del mundo son gestionadas por un individuo o una familia y dependen principalmente de la mano de obra familiar. Las explotaciones familiares producen más del 80% del valor de los alimentos del mundo, lo que confirma la importancia central de la agricultura familiar para la seguridad alimentaria mundial, hoy y para las generaciones futuras.

Así que, para resumir: ayer recordamos que la distribución desigual de la tierra nunca ha sido un tema central para los países (ricos) del Norte. Que los campesinos (que ahora se han convertido en mano de obra-masa) han visto caer los precios que se les pagan desde que hay una encuesta anual (referencia al libro de Mazoyer-Roudart). En el Norte se impulsó la selección antinatural, eliminando progresivamente a los campesinos y a las campesinas para enviarlos a romperse la espalda en las fábricas, obligando a los que quedaban a ser cada vez más grandes y, sobre todo, más dependientes de la religión de la modernización (maquinaria, productos químicos, semillas seleccionadas privatizadas...). En la cúspide de la pirámide, una porción cada vez más estrecha de la agroindustria se consolida, impone la ley y se embolsa el dinero público.

La filosofía subyacente era acostumbrarnos todos (los del norte primero y los del resto del mundo después) a convertirnos en lo que mi amigo Hernán Mora llamaría "comemierda", la malbouffe como dicen los franceses. Bajar el costo de la producción de alimentos para reducir el costo de reproducción de la mano de obra. El resultado fue la pérdida de calidad. Afortunadamente, en algún momento empezamos a cansarnos de comer mierda, y poco a poco surgieron iniciativas de abajo a arriba.

Recordemos, sin embargo, que debemos mirar más allá de las fronteras de nuestra propia casa, porque este agronegocio del Norte económico se mide con los mercados abiertos e indefensos de los millones de campesinas y campesinos del Sur. Con una diferencia estimada en 1:1000 (es decir, con una productividad mil veces mayor) el juego no es "justo", es lo más desigual que puede ser. 

Ademàs, nosotros, en el Norte económico, ponemos 700.000 millones de dólares al año para proteger nuestras agriculturas (repito, sobre todo las grandes), capaces de producir excedentes para la exportación, para destruir progresivamente las del Sur.

Y si alguien se atreve a criticar este sistema en el que se nos permite proteger nuestros mercados y a los del Sur no, pues no se puede: sale la eterna Thatcher y su eslogan TINA (There Is No Alternative).

Así que la crisis alimentaria de la que habla el secretario de la ONU es una crisis agraria construida científicamente desde la posguerra, como explico en mi libro.

Mediten, gente, mediten.