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mercoledì 28 agosto 2019

2019 L37: Jo Nesbo - Le fils


Gallimard, 2011

Sonny Lofthus est héroïnomane, mais c’est un prisonnier modèle. Endossant des crimes qu’il n’a pas commis pour expier le souvenir du suicide de son père, policier corrompu, il fait également figure de guérisseur mystique et recueille les confessions de ses codétenus. 
Un jour, l’une d’elles va tirer Sonny de sa quiétude opiacée. On lui aurait menti toute sa vie, la mort de son père n’aurait rien d’un suicide…
Il parvient alors à s’évader de prison et, tout en cherchant une forme de rédemption, va se livrer à une vengeance implacable. Errant dans les bas-fonds d’Oslo, en proie aux démons du ressentiment et du manque, il entend bien faire payer ceux qui ont trahi son père et détruit son existence. Quel qu’en soit le prix.

Ottimo libro per passare l'estate. Candidato alla Top.

mercoledì 21 agosto 2019

Ritornando sulla crisi


Scrivevo ieri che un eventuale nuovo governo a traino 5S-PD dovrebbe mettere un paio di punti chiave come priorità assolute. Non perché siano capaci di risolverle da soli, ma per dare un’impronta finalmente repubblicana all’azione di governo. Non dico che siano punti esclusivi, altri se ne possono aggiungere ovviamente, ma su uno in particolare voglio ritornarci. Si tratta della necessaria e urgente separazione tra banche commerciali e banche d’affari. Attualmente gran parte delle banche, italiane come tutte le altre, fanno scarsissimi affari con le attività tradizionali, dato che l’economia non cresce granché, cosa per cui, da anni, si sono buttate sulle speculazioni finanziarie, molte delle quali legate anche alle risorse naturali. In caso di speculazioni andate a male, i debiti sono coperti dal budget delle attività commerciali e, in caso estremo (vedi banche italiane) dal cittadino lamda.

Da anni oramai molti economisti hanno tirato l’allarme su questo casinò le cui responsabilità sono note a tutti per quanto riguarda la crisi del 2008 dalla quale non siamo più usciti.

Sia i 5S che la Lega avevano messo questo tema nel famoso contratto e, dal lato opposto, molti rappresentanti delle opposizioni di sinistra si erano detti più che d’accordo su un intervento su questo tema.

Non se n’è fatto nulla, malgrado il fatto che molti giornali segnalassero già all’inizio del 2018 un problema (limitato nei loro titoli alle banche tedesche e francesi) di circa 6.800 miliardi (di derivati tossici, difficili da esigere). 

Ricordo solo per chi ha poca memoria che sono queste stesse banche ad aver creato il problema Grecia, dato che l’essenziale del debito greco era in mano loro (cioè in mani private). Ma siccome le banche vanno protette anche più della mamma, ecco che Merkel e Sarkozy sono intervenuti per far diventare quei debiti (delle loro banche, private) un debito pubblico (greco), dopodiché hanno scatenato i cani di Bruxelles per gli inevitabili aggiustamenti strutturali che hanno distrutto la Grecia.

Bene, dal gennaio dell’anno scorso a oggi non si è mossa foglia. 

Pochi giorni fa è arrivata la notizia che la Deutsche Bank ha preventivato un bilancio mega-negativo dato che vuole separare queste due attività, considerando la seconda troppo a rischio. Bene, ho trovato solo il Manifesto che si è speso per spiegare quale sia il vero livello della crisi in atto: non 6800 miliardi, ma, la sola DB, ha in pancia qualcosa come 50 mila miliardi (pari a oltre 24 volte il PIL tedesco e al 12% del valore mondiale) https://ilmanifesto.it/grosso-guaio-alla-deutsche-bank/.

Spero cominciate a capire di cosa stiamo parlando: mica bruscolini, come diceva Totò…

Ovviamente dati affidabili sulla magnitudine del problema mondiale non ne esistono, ma già alcuni specialisti ci ricordano che oramai, al non far nulla per limitarle, i nostri governi sono oramai nelle mani di queste grandi banche (che hanno un budget totale, individualmente, uguale o superiore al PIL italiano o francese). 

Insomma, qualsiasi cosa vi diranno sulle cose da fare, le emergenze migranti e tutto il resto, il problema è questo: le banche e la finanza, da rimetterle sotto controllo subito. Ci sono anche già dei disegni di legge presentati, per cui non partirebbero da zero e, paradossalmente, potrebbero arrivare anche ad avere l’appoggio della Lega.


Se non partono da qui, meglio che facciate come me, e non andate a rivotarli la prossima volta. E quando la vera crisi vi arriverà fra capo e collo, almeno non dite che non lo sapevate.

2019 L36: Fruttero e Lucentini - A che punto è la notte?



Mondadori, 1979

Una fredda sera di febbraio don Pezza viene ucciso da una bomba mentre sta terminando la sua predica nella chiesa gremita. Il commissario Santamaria si trova per le mani il caso più scottante della sua carriera, un mosaico confuso nel quale gli affari di un parroco visionario si intrecciano con quelli della più grande industria italiana.

Una graditissima sorpresa. Non avevo mai letto nulla scritto da loro e affrontare questo mattone di oltre 600 pagine ha necessitato questa calma estiva. Bello e consigliato. Candidato alla Top.


martedì 20 agosto 2019

Governo: Conte mette KO Salvini e la Lega … ma restano dei non detti


L’incredibile Primo Ministro Conte ha distrutto dieci a zero il fanfarone Salvini con un discorso serio, istituzionale, argomentato che ha toccato gran parte dei problemi che la coesistenza giallo-verde lasciava intravvedere fin dall’inizio.

Conte ne esce come un uomo di Stato, Salvini e i suoi accoliti come degli studenti ignoranti e boriosi. Lealtà istituzionale voleva che Conte rassegnasse le dimissioni con questo discorso, e Conte lo ha fatto. Adesso si vedrà cosa succederà, tutto è possibile, restano però i punti non detti, quello che non è stato fatto (e nemmeno iniziato). Il primo punto, grande come una casa, riguarda il silenzio totale, nella lunga lista delle cose fatte da questo governo, sulla lotta alla mafia, o alle mafie. Dimenticare questo punto vuol dire, consciamente o inconsciamente, dire che questa non è una priorità. Di conseguenza,  se dovesse esserci una continuazione della legislatura con altri governi, fa paura pensare che la questione mafiosa rischia, ancora una volta di non essere in cima alle preoccupazioni. Il secondo grande buco è quello del problema banche-finanze. I 5S avevano in programma di far approvare una legge per obbligare le banche a separare le attività tradizionali da quelle legate alla speculazione finanziaria. Era e resta questa la spada di Damocle che ci sta portando alla rovina, con rischi enormi non solo per l’Italia, o per l’Europa, ma per il mondo intero. 

Siamo oramai in mano a grossi complessi bancario-finanziario che hanno un budget (individualmente) più grande del budget totale di paesi come l’Italia o la Francia. Salvini continua ad avercela con l’Unione Europea, bene, a parte il fatto che non ha mai fatto nulla, men che meno andare alle riunioni e lavorare al Parlamento europeo, resta il fatto che l’ignoranza della Lega gli fa dimenticare cosa significhi il rischio che questo sistema bancario dove le banche principali fanno speculazioni finanziarie rischiosissime che porteranno gran parte dei risparmiatori e tutto il sistema creditizio, e quindi economico, a cadere.

Questo è il problema, la Lega non lo capisce, per ignoranza, i 5S lo avevano capito (così come alcuni parlamentari della sinistra - senza però che i partiti di riferimento si impegnassero a portare avanti questo tema in parlamento. Il governo finisce, trattative sono in corso, ma così come non si parla della centralità della lotta alla mafia, meno ancora si parla di mettere molto in alto nell’agenda la separazione delle banche d’affari. 

Ecco perché, qualsiasi sia l’equilibrio che si trovi dopo questa giornata, rischiamo di aver perso tutti, non da oggi e nemmeno dall’anno scorso, ma da troppi anni oramai. 

Andare a votare oppure no, francamente, con questo livello di incompetenza, o di volontà di non battersi sui temi chiave, mi pare sia lo stesso. Spero solo che non si faccia un pateracchio contro l’uomo solo. Lo abbiamo già visto all’epoca di Berlusconi, e abbiamo visto i risultati. O si cambia sul serio oppure meglio mandarli a casa tutti. Certo che, con quello sgangherato del partito del fidanzato di Sharon Stone, con tutte le sue baruffe interne e con lo zero di progettualità che lo contraddistingue, vien da pensare che non ci sia più speranza. 


Ma in fondo a sinistra, nella vita reale, qualcosa si muove, anche se siamo pochissimi.

mercoledì 14 agosto 2019

Pastoralists, conflicts and why FAO does nothing


For several years now I have been reflecting on why so many governments, political parties, religious movements or individuals have a grimace that borders on hatred of nomadic peoples. 

As my consultants and I began to work on the issue of conflicts over natural resources (land and water first and foremost), it became clear that a new and different effort was needed to understand how to deal with these realities. More and more often we were faced with disputes and conflicts in which peasants and shepherds were confronted in an increasingly violent way.

Without exaggerating, we can say that the essence of the ongoing conflicts in the Saharan and sub-Saharan belt, from Mauritania to Somalia, see these parts as main actors. 

Our technical and professional origins came from the world of land tenure, some with a more legal background, some agronomic, some economic and others more anthropological, or a mixture of these specialties. The focus of our work for years had been the land, the rules of access, the forms of administration and then the forms of use and management. 

With this in mind, we started a series of projects, in Africa and elsewhere, that served us not only to "do" but also to "reflect" on how we were working and on the need to put doubts within the epistemology that guided us. The problem of the relationship between shepherds and farmers was more difficult than expected, which made us look for alliances with other FAO technical units that, in theory, worked on the issue of nomadic shepherds. In fact, as we soon discovered, the interest was always on the technical aspects, that is, the state of health of the animals and the state of the available plant resources, without ever going into studying the rest of the problem. 

Little by little we began to understand that we had to shift the focus of our attention from the physical resource (land or water) to the human resource. Placing human beings at the centre of the approach meant searching for the reasons for conflicts starting from their logic, not only productive but also social and ecological. This led us to develop an approach that we called territorial negotiation, where a series of new variables entered, in particular the analysis of power dynamics and its asymmetries, the search for basic conditions to start a dialogue that would lead to a real negotiation and, if possible, a final concertation on the things to do.

The best known case in recent years is that of Abiey, a disputed area between the two Sudan. One of our consultants of the new generation was able to put these principles into practice and start a dialogue, negotiation and final consultation between communities in dispute for a long time. The article can be found here: http://www.fao.org/3/a-i7422e.pdf 

Based on this work, as well as on the first reflections elaborated from some technical missions in the northeast of Nigeria, an ongoing conflict zone with Boko-Haram, and where once again the underlying issue was (and remains) the one between shepherds and farmers, we proposed to the FAO Emergency Division, as well as to FAO Representatives in those countries, to make a further effort to obtain funds and political support (both from governments and other UN agencies), to move upstairs and gradually approach the main political spheres.

We have never been able to get a positive response. On the contrary, the initial efforts we had made were diluted in such a way that practically nothing remained of what we had done and what we had proposed.

For my part I have insisted a lot with the leaders of the Emergency Division, especially because I thought I had friends there, and not just colleagues. Two or three years have passed and I am still waiting. My young advisors were also cut off, and FAO Emergency dropped the issue of conflicts, particularly those with pastors, across Africa, preferring to just write articles, bargain with universities and nothing else. In short, the usual adage of Nanni Moretti: I do things, I see people.

In these days I picked up a book by Eric Hobsbawm, “Bandits”, and I found a phrase that confirmed my basic suspicions. A phrase that, said by a specialist like him, is worth more than a confirmation:
If farmers are the victims of authority and coercion, they are not so much because of their economic vulnerability - in general they are able to meet their needs - as because of the lack of mobility.

Here's the real deal. Social control by the political elites is much better exercised on the resident populations, which can be reduced to slavery, extreme poverty and, above all, persuaded to do only what the commanders order. Those who escape this control, because they are nomads, become a danger.

And so it is that we understand better than ever FAO, in particular the division of Emergencies, wants to avoid at all costs to intervene in these conflicts. Because if it did, it would have to enter into power dynamics that are not appreciated by those who govern countries and even less by those who govern FAO or those who want to pursue a career within it. Better, much better, to limit oneself to bringing some aid, filling pages with rhetorical statements, looking for funds for anything other than the center of the conflict and that is the land (and other resources), the rules of access, use and management, with all the ecological, social, institutional and political dimensions that this entails.

The result is there before our eyes: conflicts are increasing, pastors are abandoned and no one tries to make a serious effort to attack the roots of the problems. 

In our naivety we had believed colleagues who, in the corridors and in the coffee breaks, told us that they absolutely agreed with us and that soon the necessary funds and support would arrive. It took years, but in the end we realised that what was missing was the will, because what interested us was a career. 

As I once wished in one of my last messages to the emergency management, you too must look in the mirror in the morning when you wash. I, and whoever worked with me, can do it; you, I'm not sure.


Pastori, conflitti e il perché la FAO non fa nulla


Da parecchi anni rifletto sul perché così tanti governi, partiti politici, movimenti religiosi o persone singole abbiano un livore che rasenta l’odio nei confronti dei popoli nomadi. 

A mano a mano che io e i miei consulenti ci siamo messi a lavorare sulla questione dei conflitti legati alle risorse naturali (terra e acqua in primis), è parso evidente come fosse necessario uno sforzo nuovo e diverso dal passato per capire come affrontare queste realtà. Sempre più spesso ci trovavamo di fronte a dispute e conflitti che vedevano contadini e pastori contrapposti in maniera sempre più violenta.

Senza esagerare possiamo dire che l’essenziale dei conflitti in corso nella fascia sahariana e sub-saheliana, dalla Mauritania alla Somali, vedono queste parti come attori principali. 

Le nostre origini tecniche e professionali venivano dal mondo dei regimi fondiari (land tenure), chi con un bagaglio più giuridico, chi agronomico, chi economico e altri più antropologico, o un miscuglio di queste specialità. Il focus del nostro lavoro per anni era stata la terra, le regole di accesso, le forme di amministrazione e poi le forme di uso e gestione. 

Con queste basi avevamo iniziato una serie di progetti, in Africa e altrove, che ci servivano non solo per “fare” ma anche per “riflettere” sul come stavamo lavorando e sulla necessità di mettere dei dubbi all’interno dell’epistema che ci guidava. Il problema del rapporto pastori-contadini si rivelava più difficile del previsto, cosa che ci fece cercare delle alleanze con le altre unità tecniche della FAO che, in teoria, lavoravano sul tema dei pastori nomadi. In realtà, come scoprimmo ben presto, l’interesse era sempre sugli aspetti tecnici, cioè lo stato sanitario degli animali e lo stato delle risorse vegetali disponibili, senza mai entrare a studiare tutto il resto del problema. 

Pian piano cominciammo a comprendere che bisognava spostare il centro della nostra attenzione: dalla risorsa fisica (terra o acqua che sia), alla risorsa umana. Porre al centro dell’approccio gli esseri umani significava cercare le ragioni dei conflitti a partire dalle loro logiche non solo produttive ma anche sociali ed ecologiche. Questo ci portò a sviluppare un approccio che chiamammo di negoziazione territoriale, dove entravano una serie di variabili nuove, in particolare l’analisi delle dinamiche di potere e le sue asimmetrie, la ricerca delle condizioni di base per far partire un dialogo che sfociasse poi in una vera e propria negoziazione e, se possibile, una concertazione finale sulle cose da fare.

Il caso più conosciuto in questi ultimi anni è quello di Abiey, una zona contesta tra i due Sudan. Uno dei nostri consulenti della nuova generazione riuscì a tradurre in pratica questi principi e far ripartire un dialogo, una negoziazione e una concertazione finale tra comunità in lite da parecchio tempo. L’articolo lo potete trovare qui:   . 

Sulla base di questo lavoro, nonché sulle prime riflessioni elaborate a partire da alcune missioni tecniche nel nordest della Nigeria, zona di conflitto in corso con Boko-Haram, e dove ancora una volta la questione soggiacente era (e resta) quella tra pastori e contadini, proponemmo all’unità tecnica delle Emergenze della FAO, nonché ai rappresentanti FAO in quei paesi, di fare uno sforzo ulteriore per ottenere fondi e appoggio politico (sia dai governi che dalle altre agenzie ONU), per passare al livello superiore e pian piano avvicinarci alle sfere politiche principali.

Non siamo mai riusciti a ottenere una risposta positiva. Al contrario, gli sforzi iniziali che avevamo portato avanti, sono stati diluiti in modo tale che di quanto fatto e quanto proposto non è rimasto praticamente nulla.

Da parte mia ho insistito molto con i dirigenti della divisione delle Emergenze, soprattutto perché pensavo avere degli amici e non solo dei colleghi. Sono passati tre due anni, e non si sono più fatti sentire. Anche i miei giovani consulenti sono stati tagliati fuori, e la FAO Emergenze ha lasciato perdere il tema dei conflitti, in particolare quelli con i pastori, in tutta l’Africa, preferendo limitarsi a scrivere degli articoli, contrattare delle università e niente altro. Insomma, il solito adagio di Nanni Moretti: faccio cose, vedo gente.

In questi giorni ho ripreso in mano un libro di Eric Hobsbawm, Bandits, e ho trovato una frase che ha confermato i miei sospetti di fondo. Una frase  che, detta da uno specialista come lui, vale più di una conferma:
Se i contadini sono le vittime dell’autorità e della coercizione, lo sono non tanto a causa della loro vulnerabilità economica - in generale riescono a sopperire ai loro bisogni - quanto a causa della mancanza di mobilità.

Eccola qui la vera questione. Il controllo sociale da parte delle élite politiche si esercita molto meglio sulle popolazioni stanziali, che possono essere ridotte in schiavitù, povertà estrema e soprattutto indotte a fare solo quello che chi comanda ordina. Chi sfugge da questo controllo, perché é nomade, diventa un pericolo.

Ed ecco allora che si capisce meglio come mai la FAO, in particolare la divisione delle Emergenze, voglia evitare a tutti i costi di intervenire su questi conflitti. Perché se lo facesse dovrebbe entrare all’interno di dinamiche di potere che non piacciono a chi governa i paesi e ancor meno a chi governa la FAO o a chi vuol fare carriera al suo interno. Meglio, molto meglio, limitarsi a portare un po’ di aiuti, riempire pagine di dichiarazioni retoriche, cercare fondi per qualsiasi altra cosa che non sia il centro del conflitto e cioè la terra (e le altre risorse), le regole di accesso, uso e gestione, con tutte le dimensioni ecologiche, sociali, istituzionali e politiche che questo comporta.

Il risultato l’abbiamo sotto gli occhi: i conflitti aumentano, i pastori sono abbandonati e nessuno cerca di portare avanti uno sforzo serio per attaccare le radici dei problemi. 

Nella nostra ingenuità avevamo creduto a colleghi che, nei corridoi e nelle pause caffè, ci dicevano di essere assolutamente d’accordo con noi e che presto sarebbero arrivati i fondi e gli appoggi necessari. Ci sono voluti anni, ma alla fine abbiamo capito che quella che manca è la volontà, perché quello che interessa è la carriera. 

Come ho già augurato una volta in uno dei miei ultimi messaggi alla direzione delle Emergenze, dovete anche voi guardarvi allo specchio la mattina quando vi lavate. Io, e chi ha lavorato con me, possiamo farlo; voi, non ne sono sicuro.



martedì 13 agosto 2019

The great joke of the African Green Wall


I see regular promotional articles passing on the initiative called Great Green Wall that should save Africa from desertification and even stop (or at least slow down) the flow of migrants to Europe.

I don't want to waste time explaining the initiative because a small search on the net is enough and you will find hundreds of articles that explain it in detail and exalt it. That the project, as it was conceived, did not have many chances of success, has become evident even to the most ardent supporters. And here since 2012 the initiative has been radically changed, "no longer just new trees planted, but also a richer and more complex plant variety, encouraging the spread of native species and psammophilous, or adaptable to the dry climates of the desert, with the further intervention of the fauna in the sowing. In this way, the soil is helped to recover its ecological memory," https://oggiscienza.it/2019/03/08/great-green-wall-africa/). 

The main problem remains, which we have never wanted to see and which we continue to ignore. Apart from the considerations on the importance of climate change in the advancement of the desert, if we remain at a more practicable level and not of dreams, the centrality of man in these interventions remains. To promote the replanting of trees or bushes in arid areas with low population density and without having dealt in any way with the problem of the land rights of the populations concerned, whether sedentary or, more often, nomadic, means to go face to face with an announced failure.

An FAO study in 2007 insisted on the need for "Protecting the rights of land under customary tenure" (http://www.fao.org/3/a-ax353e.pdf) but nothing has been done since then. The local populations, as everyone who has worked there knows, have a very high distrust of their own rulers, a caste of corrupt people who do only their own business and who have never been interested (apart from the case of Thomas Sankara's Burkina) in the real problems of the peasants and farmers.

Men's relationships to natural resources, land and water, are governed by centuries of customary relationships, not necessarily written, which enjoy good credibility in the eyes of the people concerned. They are not fixed relationships, which can evolve over time and with appropriate stimuli, so we do not call them "traditional" because, in many cases, they are much more modern than the systems that we Westerners would like to impose.

The governments of those countries' unwillingness to recognise customary rights must also be understood in the light of the insistence of international investment banks, such as the World Bank, the Monetary Fund and all the major UN agencies, to insist on the backwardness of those agricultural systems and on the need to "modernise" them and certainly not to "recognise" them. 

Experiences on the ground (in other African countries) have led us to insist a lot, both within the FAO and with other UN agencies and with the Bank, on the need to rebuild the social pact that had been broken since the local populations and their institutions were never considered as an active part of the "Development" agenda. Beginning to better understand those systems, recognizing ancestral land rights, strengthening local institutions to resolve conflicts and more, those were the paths to take. We did it a bit, with positive results, showing that such an approach, which aimed to put the issue of trust at the heart of the proposal, and thus to restore channels for dialogue and consultation within a vision that wanted to reduce the central issues of the asymmetries of power existing between the poor local populations and those intervening from outside, be it government, UN agencies or development banks, such an approach I was saying, was key to restart the local social, environmental and economic dynamics. In addition to this, such an approach was key to working on the issue of conflicts over natural resources.

The outgoing Director-General of FAO, Ayatollah Grazianhi, did everything in his power to oppose this vision, but in doing so he was helped by many colleagues from the technical units working on these countries, in particular the Department of Forests and the Department of Agricultural Production. Years of attempts to explain to them, perhaps even leading them to talk to the communities, that they needed to attack the heart of the problem and not just the technical periphery, and no results.

They didn't do it because working on issues of land (and water) rights and asymmetries of power, meant risking to go against the top levels of the organization and thus preclude any career opportunities. That's why they developed an impressive rhetorical ability, what we would call "fuffa" in Italian, to turn around problems without ever facing them. Now many of them have retired, so their goal has been achieved. Some of them have become Senior Officers, others Service Chiefs and some even Division Directors. Even higher up, there was a Frenchman who knew these things but never wanted to risk his career, who became Assistant Director-General and, to complete the circle, an American, whom we had met in Mozambique in the roaring years of our work on behalf of community land rights, silenced and absent, came to be FAO number two.

That's why, after almost 30 years of work on these issues, I wanted to leave a written memory, a book where I tell you more calmly about this post. So that we don't forget, and to encourage the new generations to be less afraid and fight the internal enemies of development (provided that this word still makes sense).


The African Great Green Wall, like the Chinese one, will not stop the desertification and even less the arrival of migrants. I can assure you of that. 

La grande burla del Muro Verde africano


Vedo passare periodicamente articoli promozionali sull’iniziativa chiamata Great Green Wall che dovrebbe salvare l’Africa dalla desertificazione e addirittura fermare (o almeno rallentare) il flusso di migranti verso l’Europa.

Non ho voglia di perder tempo a spiegare l’iniziativa perché basta una piccola ricerca sulla rete e si troveranno centinaia di articoli che la spiegano in dettaglio e la esaltano. Che il progetto, come era stato concepito, non avesse molte possibilità di successo, è diventato evidente anche ai più accaniti sostenitori. Ed ecco che dal 2012 l’iniziativa è stata cambiata radicalmente, “non più solo nuovi alberi piantati, ma anche una varietà vegetale più ricca e complessa, favorendo la diffusione di specie autoctone e psammofile, ovvero adattabili ai climi aridi del deserto, con l’ulteriore intervento della fauna nella semina. In questo modo, si aiuta il terreno a recuperare la sua memoria ecologica,” https://oggiscienza.it/2019/03/08/great-green-wall-africa/). 

Resta il problema principale, che non si è mai voluto vedere e che si continua a ignorare. A parte le considerazioni sull’importanza del cambio climatico nell’avanzare del deserto, se restiamo a un livello più praticabile e non dei sogni, rimane la centralità dell’uomo in questi interventi. Promuovere il ripianto di alberi o cespugli in zone aride a bassa densità abitativa e senza essersi occupati minimamente del problema dei diritti fondiari delle popolazioni interessate, sedentarie o, più spesso, nomadi, vuol dire andare davanti a un fallimento annunciato.

Uno studio della FAO del 2007 insisteva sulla necessità di “Protecting the rights of land under customary tenure” http://www.fao.org/3/a-ax353e.pdf) ma da quella data in poi nulla è stato fatto. Le popolazioni locali, come sanno tutti quelli che ci hanno lavorato, hanno una sfiducia altissima nei confronti dei propri governanti, una casta di corrotti che fa solo gli affari loro e che non si è mai interessata (a parte il caso del Burkina di Thomas Sankara) ai veri problemi dei contadini e degli agricoltori.

Le relazioni degli uomini alle risorse naturali, terra e acqua, sono rette da secoli di rapporti consuetudinari, non necessariamente scritti, che godono di una buona credibilità agli occhi delle persone interessate. Si tratta di rapporti non fissi, che col tempo e con stimoli adeguati possono evolvere, per cui non li chiamiamo “tradizionali” perché, in molti casi, sono molto più moderni dei sistemi che noi occidentali vorremmo imporre.

La poca voglia dei governi di quei paesi di riconoscere i diritti consuetudinari va capita anche alla luce delle insistenze delle banche d’affari internazionali, come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario e tutte le grandi agenzie ONU, di insistere sul carattere arretrato di quei sistemi agrari e sulla necessità di “modernizzarli” e certamente non di “riconoscerli”. 

Le esperienze sul terreno (in altri paesi africani) ci hanno portato a insistere molto, sia dentro la FO che con le altre agenzie ONU e con la Banca, sulla necessità di ricostruire il patto sociale che si era rotto a partire dal momento che le popolazioni locali e le loro istituzioni non venivano mai considerate come parte attiva dell’agenda “Sviluppo”. Iniziare a capire meglio quei sistemi, riconoscere i diritti fondiari ancestrali, rafforzare le istituzioni locali per dirimere conflitti e altro, quelle sarebbero state le strade da intraprendere. Un po’ noi lo abbiamo fatto, con risultati positivi, mostrando che un approccio del genere, che mirava a mettere la questione della fiducia al centro della proposta, e quindi a ripristinare canali di dialogo e concertazione dentro una visione che voleva ridurre le questioni centrali delle asimmetrie di potere esistenti tra le povere popolazioni locali e chi interveniva da fuori, fosse governo, agenzie ONU o banche di sviluppo, un approccio del genere dicevo, era chiave per far ripartire le dinamiche sociali, ambientali e economiche locali. Oltre a questo, un approccio del genere era chiave per mettersi a lavorare sul tema dei conflitti legati alle risorse naturali.

Il direttore generale della FAO uscente, l’Ayatollah Grazianhi, ha fatto di tutto per opporsi a questa visione, in questo però aiutato da molti colleghi delle unità tecniche che lavoravano su questi paesi, in particolare il dipartimento delle Foreste e quello della Produzione Agricola. Anni di tentativi di spiegare loro, magari anche portandoli a parlare con le comunità, che bisognava attaccare il cuore del problema e non solo la periferia tecnica, e nessun risultato.

Non lo hanno fatto perché lavorare sulle questioni dei diritti alla terra (e all’acqua) e sulle asimmetrie di potere, voleva dire rischiare di mettersi contro i piani alti dell’organizzazione e quindi precludersi ogni possibilità di carriera. Ecco perché hanno sviluppato una capacità retorica impressionante, quella che in italiano diremmo “fuffa”, per girare attorno ai problemi senza mai affrontarli. Adesso molti di loro sono andati in pensione, quindi il loro obiettivo l’hanno raggiunto. Alcuni sono diventati Senior Officers, altri Capi Servizio e qualcuno addirittura Direttore di divisione. Ancora più su, c’era un francese che queste cose le sapeva ma non ha mai voluto rischiare la sua carriera, che è diventato Assistente Direttore Generale e, per completare il cerchio, un americano, che avevamo conosciuto in Mozambico negli anni ruggenti del nostro lavoro in favore dei diritti fondiari delle comunità, tacendo e assentendo è arrivato ad essere il numero due della FAO.

Ecco perché, dopo quasi 30 anni di lavoro su questi temi, ho voluto lasciare una memoria scritta, un libro dove le racconto con più calma di questo post. Perché non si dimentichi, e per incitare le nuove generazioni ad avere meno paura e combattere i nemici interni dello sviluppo (sempre che questa parola abbia ancora un senso).


Il grande muro verde africano, così come quello cinese, non fermerà la desertificazione e ancor meno l’arrivo di migranti. Ve lo posso assicurare. 

2019 L 35: Qiu Xiaolong - Mort d'une héroïne rouge

Seuil, 2003

Mai 1990, au bord des eaux boueuses du canal Baili, à moins de trente kilomètres à l'ouest de Shangai. Pour deux vieux copains de lycée, la partie de pêche va donner lieu à une découverte morbide, celle du cadavre d'une très belle jeune femme. La petite fête que donne chez lui l'inspecteur principal Chen Cao va en être troublée. Et le cher policier, poète à ses heures, va marcher sur des charbons ardents lorsqu'il découvrira que la victime, Guan Hongying, est une héroïne rouge, une "travailleuse de la nation", égérie de l'empire communiste. L'affaire est extrêmement sensible, donc, et il s'avérera dangereux de fouiller un peu trop loin...

Primo libro della serie dell'ispettore principale Chen, con tutti gli ingredienti che poi abbiamo ritrovato in seguito. La sua lotta per il bene, cercando di barcamenarsi con le regole del Partito, ma per fortuna, come Tex, ha sempre un amico (o amica - come in questo caso) ben piazzato ai piani alti per proteggerli delle furie ideologiche. Forse un po' troppo lungo e troppe digressioni, in particolare le poesie, che ritroviamo sempre in queste storie, ma che lasciano perplessi. 

domenica 11 agosto 2019

Uno strano film


Ieri sera mi è capitato di vedere, per la prima volta, un vecchio film di una trentina di anni fa. La storia è ambientata a Broccolino, in una parte della città abitata quasi esclusivamente da neri e dove si trova una pizzeria gestita da italo-americani e, di fronte, un negozio di frutta, verdura e tutto il resto, tenuto da una coppia sudcoreana.

Vi racconto brevemente la storia. Gli italo-americani e i sudcoreani sono gli unici a lavorare. Tutti gli altri, essenzialmente i neri e qualche sparuto portoricano, fan parte della categoria dei fancazzisti. Tre adulti passano le giornate seduti davanti a un muro rosso, i giovani vanno in giro a far cazzate, e nessuno di loro gli passa nemmeno per la mente di cercare un lavoro o di fare qualcosa di utile. L’unico che fa qualcosa è un nero che consegna le pizze dei latinoamericani a una velocità vicina allo zero. Il resto del suo tempo lo passa a discutere col proprietario del locale e a mandare a vaff uno dei figli. Da ricordare che il sempliciotto ha fatto un figlio a una portoricana, che vive in zona, e del quale si disinteressa totalmente. La compagna, idiota anche lei, lo manda a quel paese ogni due per tre, ma poi quando si presenta è subito disponibile per una botticella. L’unica saggia in tutto questo è la sorella maggiore del sempliciotto che gli ripete che è un buono a nulla e che sarebbe ora che diventasse adulto e che si prendesse le sue responsabilità.

Poi entra in scena un idiota, sempre nero, senza un soldo in tasca, che va a mangiare un pezzo di pizza e non è mai contento di quello che gli danno.  A un certo punto decide che il proprietario deve cambiare le foto appese ai muri (attori italoamericani famosi) e metterci la foto di un nero importante. Questo solo perché lo dice lui. Ovviamente il proprietario lo manda a cagare, giustamente.

Entra in scena anche il grande e grosso idiota. Un altro nero con un QI vicino allo zero, che passa le sue giornate andando a zonzo con una grossa radio in mano e con un’unica canzone, perché le altre non gli piacciono. Volume al massimo, rompe le balle a tutti. Finisce anche lui in pizzeria e il proprietario lo invita a spegnere quella radio, dato che il locale è suo. Nasce una prima baruffa, senza seguito, a parte la cacciate del grande idiota fuori dalla porta.

Il primo idiota decide di organizzare un boicottaggio della pizzeria, ma nessuno se lo fila, a parte il grande e grosso idiota. 

Una sera, orario di chiusura, quattro ragazzi neri arrivano in pizzeria per l’ultimo boccone. Una volta accomodati, ecco arrivare anche il grande grosso idiota accompagnato dall’idiota. Il proprietario gli ripete che la radio va spenta e manda a cagare l’idiota che torna a insistere sulla storia delle foto appese al muro e che a lui non piacciono. 

La temperatura sale e il proprietario prende una mazza da baseball e spacca la radio. 

Il grande grosso idiota prende il proprietario e lo butta per terra, poi finiscono per strada col grosso Idota che cerca di soffocare il proprietario, aizzato dal resto dei clienti e da altri neri che arrivano di corsa. Nessuno di loro cerca di fermare il grande e grosso idiota.

Grazie a Dio arriva la polizia che riesce a farsi largo e a prendere il grande e grosso idiota. Per evitare guai maggiori gli mettono un bastone sul collo e un grosso poliziotto lo tira in alto, fino a farlo soffocare. Un incidente, che non sarebbe dovuto succedere ma che soprattutto non sarebbe successo se almeno uno di quei neri si fosse preoccupato di salvare il proprietario togliendogli il grosso idiota di torno.

A questo punto si sveglia il sempliciotto, prende un bidone della spazzatura e lo manda a fracassare la vetrina della pizzeria. E’ il segnale dell’inizio della fine: tutti i neri si buttano dentro a rubare, spaccare e bruciare.

Risultato, la pizzeria è distrutta. Per pura fortuna il negozio dei coreani viene lasciato perdere.
Il mattino dopo, il sempliciotto si riprensenta davanti la pizzeria dove trova il proprietario affranto e, invece di chiedergli scusa per quello che ha combinato, gli chiede i soldi della paga della settimana. Il proprietario gli ricorda che con quei soldi nemmeno riuscirebbe a pagare la metà della vetrina che ha spaccato, ma il sempliciotto gli risponde dicendo che non gliene frega nulla.

Insomma, un film che la dice lunga su chi lavora (gli italoamericani e i coreani) e chi non fa nulla (i neri) e nemmeno cerca lavoro. Fornisce anche un’idea diversa degli incidenti che periodicamente succedono nelle periferie americane fra bianchi e neri, in questo mostrando chiaramente la colpa dei neri.

Insomma, un film che, se fosse stato un regista bianco, non avremmo avuto dubbi a classificarlo come di parte e razzista.


PS. Si trattava di Fai la cosa giusta di Spike Lee.
Devo ammettere che non ho capito bene cosa avesse in mente il regista.

domenica 4 agosto 2019

FAO: y el hambre sigue creciendo....


Finalmente llegó el primero de agosto de 2019. A partir de hoy, la FAO se ha liberado del desconcertante Director General brasileño, que llegó con magnificas intenciones (erradicar el hambre en el mundo) y ahora ha dejado atrás las ruinas de un mundo en el que el hambre ha estado creciendo durante tres años seguidos.

Que fuese el hombre equivocado en el lugar equivocado lo expliqué en detalle en mi último libro (https://www.elmisworld.com/libro/a-mana/), pero quizás vale la pena recordar algunos de los aspectos más controvertidos de este ayatolá Grazianhi.

Hijo de un famoso agrarista brasileño, conocido por su trabajo en la reforma agraria en el noreste de Brasil durante la era militar (sí, Brasil es una tierra de rarezas, como ésta), el padre, viejo amigo de Lula durante muchos años, fue encargado de preparar la parte agraria del programa presidencial para su primer intento de acceso al Poder Judicial Supremo. En resumen, en el mundo de la izquierda brasileña, interesada en los temas agrícolas, todos conocían al Padre José Gomes da Silva. El hijo, nacido en América pero con una muy baja propensión a las lenguas extranjeras, como todos han notado en los últimos años, ha traído consigo desde niño un complejo contra su padre que le ha llevado a escalar a cualquier precio la cima del mundo universitario agrícola, para intentar brillar de más luz y mejor que su padre. 

La necesidad de romper con la figura de su padre le llevó a negar desde el principio la importancia de la reforma agraria, prefiriendo la vía agroindustrial que le parecía el único camino posible. Por este camino, lógicamente, llegó a negar la importancia de la agricultura familiar, un sector que, según sus propias palabras, no tenía "expresión política", es decir, era inútil perder el tiempo con ellos.

Graziano se las arregló para entrar en el mundo académico y convertirse en el mandarín supremo, de quien dependían las carreras de innumerables profesores en el país. Nos enfrentamos con él desde principios de los años noventa, cuando con nuestro proyecto, del cual yo era el responsable FAO en la Sede, invitamos a nuestra contraparte (entonces el INCRA) a interesarse por el mundo de la agricultura familiar. En aquel momento era un concepto casi desconocido, a pesar de que era una realidad obvia para (casi) todo el mundo en muchas regiones del país, especialmente en las de la migración italiana y alemana. El equipo que habíamos reunido incluía a muchos profesores brasileños, así como a representantes del mundo de las ONG y de los movimientos campesinos. La condición mas difícil no era tanto convencer a la institución como al mandarín, ya que nuestros consultores pidieron que se le diera luz verde y que este trabajo no le creara problemas en su carrera posterior.

Así es como llegamos a oír esta famosa frase: la agricultura familiar no tiene expresión política. Pero, por su bondad, aceptó la petición de los otros profesores para que pudiéramos seguir adelante. La historia se resume en las siglas PRONAF, el mayor programa de apoyo a la agricultura familiar que ha implementado un gobierno latinoamericano. Con el paso de los años, el tema se hizo tan importante que las Naciones Unidas decidieron dedicarle un año especial, el 2014, pidiendo al ayatolá que se involucrara. Imagina su ira. Había fracasado en dos cuestiones clave: la reforma agraria, que la FAO, junto con la Vía Campesina, volvimos a incluir en la agenda mundial en 2006, y luego la agricultura familiar, que se convirtió en un tema central para las Naciones Unidas, y esto en contra de su voluntad.

En esos años, cuando murió su padre, logró ocupar su lugar como asesor de Lula, tratando de alejarlo de los temas de los que hablaba antes. Tal vez por eso Lula, una vez que llegó al poder, hizo todo lo posible para hacer lo contrario de lo que había prometido en la campaña electoral (y para lo cual había recibido los votos de las masas desfavorecidas), es decir, la reforma agraria. Como escribí en un artículo publicado por la FAO en 2012, Lula pasó a la historia como el hombre que mató a la reforma agraria en Brasil. Quizás debería haber añadido: gracias al consejo del ayatolá.

Lula al gobierno, la lucha contra el hambre se convirtió en la bandera nacional y mundial y nuestro arribista hizo lo imposible para que su amigo Lula creara un ministerio especial para él, a fin de dirigir todo el ambaradam. El carácter malhumorado, la incapacidad para trabajar en equipo y el cierre mental absoluto hicieron que unas semanas después de su nombramiento, unos dirigentes del Partido de los Trabajadores declararan públicamente todas sus reservas sobre este ministro. Unos meses fueron suficientes para que su reemplazo se convirtiera en un asunto presidencial y, por lo tanto, después de ni siquiera un año, fue expulsado. Mientras tanto, la marca "Fome Zero" se había convertido en viral, como el Spritz Aperol.

Este “brand” permitió a Lula encontrarle un trabajo en la FAO. Eran los años dorados de Brasil y todos miraban al presidente que hacía milagros, peor que el Padre Pío. Una vez que lograron colocarlo en el primer lugar de la lista de la FAO, el Fome Zero volvió a lo que era antes de Lula, el programa Bolsa Familia que continúa hasta ahora, con los habituales malos resultados.

Sin haber sido capaz de resolver el problema del hambre en casa en lo más mínimo, también por su conocida voluntad de luchar contra la reforma agraria (una condición necesaria, especialmente en el noreste, según el Premio Nobel Josué de Castro, autor del famoso texto Geografía del Hambre, publicado en 1946), Graziano fue incluso nombrado Director General de la FAO. Son bien conocidos los trucos al estilo Berlusconiano que le permitieron ganar, así como la deuda moral contraída con Perú que le dio el voto final a su favor. El torpe intento de ofrecer un puesto directivo a la esposa del ex presidente, una primera dama que terminó en la cárcel, así como al esposo y ex presidente, hizo de Graziano un personaje conocido en todo el mundo por su tráfico.

La ignorancia absoluta del mundo no latinoamericano, combinada con los defectos de nacimiento del personaje, hizo que una vez elegido no tuviera grandes ideas sobre qué hacer y cómo hacerlo. Su pasión por la gran agroindustria (en la que parte de su familia estaba metida, como me confirmò un amigo suyo brasileño ahora desaparecido, con plantaciones de caña de azúcar en São Paulo que, si pudiéramos ir a ver los orígenes de los títulos de propiedad, no tengo dudas de que encontraríamos aquellas maniobras que han valido la pena coniar la famosa palabra "grilagem"), le llevó a decir de inmediato que teníamos que centrarnos en ese sector y no hacer de la agricultura campesina una prioridad que en todo el mundo estaba bajo los intereses políticos y económicos de un mundo de hombres de negocios que mantenía a mil millones de personas hambrientas.

No sabía cómo estaba hecho el mundo, así que dejó de lado el tema de la tierra (donde yo trabajaba), es decir, los derechos de las comunidades campesinas, los pueblos indígenas, los nómadas, las mujeres, los pescadores, etc. Perdió una cantidad de tiempo sideral (y recursos) para discusiones inútiles sobre nuevas metas que deberían marcar indeleblemente su período de mando. Inmediatamente lanzó una campaña para cambiar la constitución de la FAO, que acababa de ser enmendada, para limitar los posibles mandatos de un Director General a dos, reducidos a cuatro años cada uno. Convirtió el tema de la comunicación para el desarrollo, uno de los temas en los que la FAO había trabajado mucho y bien, en una oficina de propaganda digna de los nazis de la década de 1930. 

Inmediatamente comenzó a ofender a sus oficiales, especialmente a las mujeres, y dedicó gran parte de la energía que le quedaba a destruir la moral de sus tropas, la única fuerza viva con la que podía contar. 

El autismo intelectual le llevó a rodearse de una banda de brasileños incapaces, italo-brasileños, chilenos, españoles, peruanos, italianos, etc., a los que llamamos "rebeldes sin causa". Se trata de personas que, sin la ayuda de su jefe, nunca habrían pasado una selección internacional para una agencia de la ONU. Obviamente, ahora que se ha ido, los ha asentado, unos tantos en la oficina regional para América Latina en Chile, donde planeaba retirarse ya que los tiempos han cambiado en Brasil y se arriesgaría mucho, dado el fin de su mentor Lula; otros los ha colocado en las oficinas de país, para ser los típicos representantes en Sudáfrica, o vice-representantes (como Haití). 

Habiendo logrado disminuir las capacidades técnicas de la organización y despojado de todo ímpetu al verdadero trabajo político, que consiste en hablar directamente con los ministros con los que trabajan para darles sugerencias que no son la retórica general habitual, la FAO se ha convertido en un organismo irrelevante, con personal sin motivación y cuyo papel es cada vez menos claro en la actual situación mundial. Basta pensar que Graziano, que alcanzó los niveles más altos de la FAO en 2006, tardó 10 años en darse cuenta del problema mundial de los conflictos por los recursos naturales. Así que fue sólo a finales de 2016, a instancias del Secretario General de las Naciones Unidas, Ban Ki Moon, cuando decidió preparar un documento corporativo sobre el posicionamiento de la FAO en estas cuestiones. En aquel momento, por decirlo así, yo era el único experto oficial en temas de tierra, trabajando en varios proyectos de este tipo (el enfoque metodológico que mis consultores y yo habíamos desarrollado durante más de una década se menciona en el documento corporativo): la decisión de Graziano fue enviarme al exilio en Bangkok, para evitar que siguiera trabajando en estos temas y para evitar que dentro de la FAO naciera un grupo de trabajo capaz de pensar, hacer y trabajar en estos temas. 

Ahora se ha ido y el tema de los conflictos ha desaparecido, incluso antes de que se haya convertido en una cuestión central. El colega que trabaja en eso, un inglés que, mas allá de escribir bien, no tiene experiencia en los temas clave de la tierra y el agua, ha contribuido, junto con sus jefes, a que la FAO pierda también este tren. Uno de los muchos....

Ahora bien es increíble la cara de palo con el que el ayatolá envía mensajes sobre los trabajos que ha realizado, testificando que su problema es realmente psicológico. Para los que conocen el portugués brasileño y sus expresiones, le deseé "¡que vaya a jugar bingo! Cuando alguien le preguntó a un ex-embajador latinoamericano de la FAO cómo había sido la época de Graziano, la respuesta no pudo ser más clara: "¡Él la cagó!


venerdì 2 agosto 2019

2019 L34: Sophie Hénaff - Art et décès


Albin Michel 2019
Silence, on tue ! C’est sur un plateau de cinéma que la plus sympathique bande de loosers du 36 Quai des Orfèvres fait son come-back, avec toujours à sa tête la célèbre commissaire Anne Capestan, obligée d’interrompre son congé parental pour sauver une ex-collègue. La Capitaine Eva Rosière, qui se consacre désormais à sa carrière de scénariste, est accusée du meurtre d’un réalisateur, retrouvé un couteau entre les deux omoplates, défoncé à la kétamine ! Eva avait, il est vrai, juré de le tuer… 
Le Cluedo peut commencer. Sa gamine sous le bras, Anne Capestan est prête.
Continua la serie, sempre una lettura simpatica per l'estate, anche se la magia si sta sciogliendo rispetto ai primi.