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lunedì 13 novembre 2023

Marea - articolo pubblicato n° 4 - 2023

Paolo Groppo

Nato e cresciuto nel profondo Veneto democristiano, il mio percorso di avvicinamento alle tematiche femministe è stato casuale, graduale e non ancora terminato. Volendo fissare un punto di inizio, mi vien da pensare a quando, a metà anni 80, giovane consulente al Centro di Sviluppo dell’OCSE a Parigi, incontrai una sociologa americana originaria dei Caraibi, quindi di colore, sposata e separata da un italiano di cui però conservava il cognome. Winifred Weekes Vagliani, Winnie per gli amici; sembrava un po’ un pesce fuor d’acqua in quel mondo di economisti (principalmente) neoliberali, maschilisti e bianchi. Uno solo di loro aveva una visione più aperta, ed è grazie a lui se ho conosciuto la sua amica e collega Winnie. Lei lavorava alla questione dei diritti delle donne, salute, educazione e agricoltura, nei paesi in via di sviluppo, sull’onda dell’approccio Women In Development che era in voga all’epoca.

Per me era una novità assoluta. La mia formazione universitaria si era svolta tra la facoltà di Agraria di Padova e l’Istituto Nazionale di Agronomia di Parigi. Se la prima forniva un insegnamento molto tradizionale, centrato sulle tecnologie e la chimica per un’agricoltura “moderna”, con un implicito pregiudizio a favore della nostra superiorità occidentale, alla scuola francese scoprii l’importanza della storia agraria nonché dell’analisi comparata dei sistemi agrari. Molto più interessante la seconda, costruita passo a passo dal mio mentore e amico Marcel Mazoyer, sulle tracce dell’École des Annales di Marc Bloch, tanto da darmi un inquadramento metodologico che mi ha seguito tutta la vita. Malgrado il fatto che Mazoyer ci insegnasse il rispetto e la curiosità per capire le logiche contadine nel tempo e nello spazio, distruggendo sistematicamente i nostri pregiudizi occidentali sulla superiorità delle nostre agricolture moderne, anche lì, così come a Padova, mancava completamente l’attenzione alle persone che facevano l’agricoltura, sia uomini che donne. I loro ruoli erano talmente dati per presupposto che non c’era bisogno di approfondire: l’uomo era il capo, la donna no. Si studiavano “les paysans” (i contadini), ma era chiaro che erano gli uomini e le loro scelte tecniche e produttive che volevamo capire.  

In questo contesto, l’irruzione delle riflessioni di Winnie ebbe un effetto sconvolgente per me. Non solo perché cominciai a pormi le domande che a scuola nessuno faceva, ma anche perché mi resi conto che i miei professori maschi, passati e presenti, conservatori o progressisti, non erano assolutamente interessati al tema. Direi di più, la maggiore disillusione mi venne da un professore considerato ancora oggi come una bandiera degli ecologisti progressisti francesi, che considerava che il mio interessarmi al ruolo delle donne in agricoltura fosse connaturato al mio essere italiano.

Da quel momento in poi decisi di approfondire un tema nuovo per me, e ciò mi fece cercare continuamente delle persone che ne sapessero di più e con le quali poter crescere. Entrato alla FAO nel lontano 1989, malgrado alcuni sforzi individuali di un paio di colleghe che lavoravano nella divisione dedicata ai temi di “genere”, era molto difficile tradurre queste conoscenze iniziali nei progetti che stavamo formulando. La resistenza istituzionale e personale dei tanti colleghi maschi, non facilitava il lavoro. 

Ci vollero parecchi anni per riuscire a elaborare una proposta metodologica che considerasse la questione di genere come una variabile strutturale nell’approccio di sviluppo territoriale (basato sul trittico dialogo-negoziazione-concertazione) che stavamo portando avanti. Dal 2012, anno di prima pubblicazione del nostro testo (IGETI – Improving Gender Equality in Territorial Issues) a fine 2017, quando mi  sono dimesso dalla FAO, siamo riusciti a realizzare qualche progetto interessante, in particolare in Mozambico dove, al di là del riconoscimento legale dei diritti consuetudinari delle donne alla terra, abbiamo realizzato una serie di formazioni dirette non solo ai leader delle comunità, ma anche ai funzionari di polizia e del catasto locali, nonché ai giudici che venivano formati nel Centro di Formazione Giuridica e Giudiziaria. Usando approcci (e linguaggi) diversi: dal teatro a lezioni di diritto approfondito, inventando una figura di possibile intermediario/a tra le comunità e chi volesse “investire” nelle loro terre, la questione di genere ricevette una importanza rilevante nell’agenda di una parte della FAO. Si trattava di programmi che portavamo avanti con varie altre unità, dall’ufficio Legale alla Divisione di Genere, nonché le Divisioni della Terra e Acqua e il gruppo dei regimi fondiari al quale appartenevo. Anche a livello corporativo qualche passo avanti venne compiuto, ma avremmo dovuto ancora aspettare molti anni prima che la FAO adottasse una posizione istituzionale chiara su questi temi (il documento a cui mi riferisco, FAO Policy on Gender Equality, è uscito solo nel 2020).

Con gli occhi di oggi, posso dire che eravamo tutti concentrati sull’ambito produttivo: come far riconoscere diritti consuetudinari (e poi diritti ancestrali per i popoli e le donne indigene), sia nel lavoro di lobbying con i governi sia con i movimenti contadini (La Via Campesina in particolare) con i quali collaboravamo. In particolare, nel 2006, riuscimmo a riportare il tema della riforma agraria al centro del dibattito mondiale con la Conferenza (ICARRD) che realizzammo a Porto Alegre. Una sessione intera fu dedicata alla questione dei diritti delle donne, con una partecipazione attiva dei movimenti contadini, il che già era una novità per la nostra organizzazione.

Quando me ne andai dalla FAO, con l’amaro in bocca per questa tematica che non progrediva come avrei desiderato, decisi di continuare a mantenere dei canali di discussione con colleghe FAO specializzate nel tema, nonché con altre specialiste di un’associazione francese della quale facevo parte. Al suo interno si trovava anche una ex-guerrigliera guatemalteca, Patricia, che, dopo l’addio alle armi, si era concentrata sullo studio e insegnamento della questione di genere in America Centrale e Guatemala in particolare. Grazie a lei ho potuto capire ancora meglio l’importanza di valutare i rapporti di forza, e di costruire alleanze, per poter portare avanti temi come l’uguaglianza di genere.

Da questo insieme di contatti, letture e discussioni, è nata l’idea di scrivere un libro per mettere in chiaro le mie (e di altre amiche e colleghe) riflessioni personali, discuterne e vedere come condividerle pubblicamente (Quando Eva bussa alla porta – Donne, terre e diritti, Ombre Corte, 2023, con prefazione di Laura Cima). Questi anni di lavoro mi hanno portato ad allargare l’orizzonte e, pian piano, mi è tornato in mente il nome di una specialista di cui avevo sentito parlare da mio fratello e i suoi amici, negli anni 70: Mariarosa Dalla Costa.

Erano gli anni delle analisi infinite sulla questione del lavoro, con la centralità, assunta a dogma, della classe operaia. Mariarosa lavorava alla Facoltà di Scienze Politiche di Padova, guidata da Antonio (“Toni”) Negri, con un seguito di specialisti dell’operaismo tra i quali c’era anche mio fratello, che successivamente prese altre strade che lo portarono ad interessarsi alla questione della Memoria, dalla Shoah ai desaparecidos delle dittature militari latinoamericane.

Io ero piccolo, 14-15 anni, e ogni tanto li sentivo parlare, mio fratello e gli altri prof e amici quando passavano a casa, ed è lì che il nome di Mariarosa Dalla Costa mi entrò in testa, senza sapere bene il perché. Quello che ricordo era che, globalmente, la consideravano un po’ una rompiscatole, dato il suo interesse per quello che, anni dopo, avrei sentito definire come una “contraddizione secondaria del capitalismo”.

La lettura dei testi di Mariarosa, nonché una bella discussione a casa sua a Padova, mi hanno fatto fare un progresso ulteriore nella comprensione sia del tema “genere” in senso lato, sia dell’interesse, tuttora limitato, che il mondo cosiddetto progressista, manifesta nei riguardi della questione centrale dell’analisi di Mariarosa, e cioè la sfera domestica.

Ancora oggi, femministe italiane e francesi preferiscono parlare, per tutti i compiti necessari per tener in piedi e mandare avanti una coppia, di lavoro non retribuito oppure di lavoro riproduttivo. Non voglio entrare in polemica con queste posizioni, ma solamente esprimere l’opinione personale alla luce delle mie esperienze, letture e discussioni. 

Che negli anni 70 fosse coerente analizzare la sfera domestica a partire dal prisma lavoro, era abbastanza ovvio. Il problema, secondo me, era (ed è) che inevitabilmente parlare di lavoro significa parlare di retribuzione (e difatti spesso si parla di lavoro non retribuito). La soluzione adottata dalle classi medie ed alte è stata quella di terziarizzare i compiti, invece di affrontare il problema. Affittare il lavoro di altre persone, quasi sempre donne, spesso immigrate, con contratti regolari o meno, per eseguire quei compiti ripetitivi e quotidiani, dalla cura delle persone alla cura della casa, è sembrata la soluzione che mettesse d’accordo uomini e donne (di quelle classi che potevano permettersi di pagare, e delle famiglie povere che così trovavano lavoro).

Oggigiorno la rivisitazione della questione “lavoro” si va pian piano imponendo, ripensando in maniera diversa tutto il tema della cura, non più vista solo dall’angolo economico. Ed è in questo contesto che considero l’insegnamento di Mariarosa più centrale di prima. La sovversione sociale della quale parlavano lei e Selma James era ed è legata alla liberazione della donna, non al fatto di retribuire monetariamente il lavoro domestico. 

Partendo da queste riflessioni, la mia posizione attuale è che, se vogliamo cominciare a cambiare questo mondo, a partire da qualcosa che sia alla nostra portata, dobbiamo iniziare dalla sfera domestica. Come ben scriveva Elizabeth Cady Stanton, figura leader del primo femminismo statunitense nell'Ottocento, “la vera ragione dell'opposizione all'uguaglianza delle donne nello stato è che gli uomini non sono disposti a riconoscerla nelle loro case”.

Il dominio patriarcale sulle donne si è costruito storicamente da ben prima dell’arrivo del capitalismo, per cui credo che cercare di attaccare le basi di questa costruzione non solo possa essere alla nostra portata, ma possa avere effetti dirompenti sulla costruzione della società futura come la vogliamo. 

Voglio chiarire che partire dalla sfera domestica non significa dimenticare le battaglie per quanto riguarda la sfera pubblica. Come ricorda una conosciuta femminista cilena, Pamela Caro: “è necessario un doppio movimento: l’ingresso massiccio delle donne nella sfera pubblica e quello degli uomini nella sfera privata”. Cambiare i rapporti di potere domestici vuol dire costruire un rapporto diverso uomo-donna che possa poi trasferirsi alle attività fuori da quella sfera. Ecco perché dico grazie a Mariarosa, per avermi indicato la strada della lotta da intraprendere. Nella sfera domestica si inglobano una serie quasi infinita di compiti, come ha brillantemente ricordato Eve Rodsky nel suo libro “Come ho convinto mio marito a lavare i piatti”. L’idea della condivisione piano piano avanza nelle nuove generazioni, per cui dovrebbe essere possibile proporre di trasformare questa necessaria condivisione di tempo (più che di denaro) in un indicatore che mostri l’avanzamento o meno sulla difficile strada dell’uguaglianza di genere da parte di associazioni, movimenti e/o partiti che si professano progressisti. 

Assieme ad alcuni/e amici/che stiamo lavorando a un indicatore di parità domestica (IPAD nel suo acronimo) che parta dalla costatazione della ripartizione temporale (femmine-maschi) attuale di una lista di compiti da concordare (un indicatore dello stato iniziale) e permetta di monitorare l’impegno di quanti maschi vogliano procedere nel percorso verso l’uguaglianza. Sarebbero le compagne o spose di questi maschi a “certificare” le risposte indicate dai maschi, così da evitare manipolazioni ma nello stesso promuovere un dialogo interno che permetta di rendere espliciti i tanti compiti poco visibili ma fondamentali per fare andare avanti un rapporto di coppia.

Il tempo, al giorno d’oggi, è più importante del denaro. Quindi è fondamentale che anche i maschi mettano del loro tempo nei compiti domestici. Tempo, e non denaro. Mettere tempo maschile è fondamentale per liberare tempo femminile. Lo richiedono già da qualche anno anche le donne della Unión de Trabajadores de la Tierra argentine, e cioè “che l’uomo prenda la sua parte di responsabilità nella sfera riproduttiva e della cura, liberando tempo ed energie per le donne”. L’uso che poi ne farà il soggetto femminile di questo tempo “liberato”, non ci riguarda, è e deve restare una scelta personale.

In una società che si dice (a parole) sempre più sensibile alle problematiche di genere (con una Prima ministra  appartenente a un partito di destra che afferma di considerare questo tema come molto rilevante), con una proliferazione di dichiarazioni e promesse di tutti i tipi, poter mettere nero su bianco un indicatore che permetta di seguire i passi in avanti (sperati) verso un equilibrio di potere nella sfera domestica, potrebbe essere realmente un passo “sovversivo” come scriveva Mariarosa e di questo la ringrazio di cuore.

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