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lunedì 31 luglio 2017

Adieu Giakarta (inizio)


Sto lasciando Giakarta, con un mix di sensazioni, dopo una settimana molto intensa. Siamo venuti su richiesta del governo per capire un po’ meglio il loro programma di “riforma agraria” e, se possibile, trovare forme per aiutarli.

L’Indonesia è un mondo di tantissimi gruppi etnici, fra grandi e piccini se ne contano un migliaio, per cui non stupisce che si parlino oltre 400 lingue diverse, anche se col Bahasa si va più o meno dappertutto. La vicinanza con le Filippine li rende un po’ simili a loro, e così differenti dai Thai. Molto più affabile sorridenti, non hai mai la sensazione che dietro un sorriso di facciata nascondano una irritazione di fondo per la tua presenza.

Isole, grandi e piccole, fanno di questo paese un qualcosa di difficile da capire. I massacri (genocidio) ordinato dal golpista Suharto nel 1965, che costarono la vita ad almeno 500 mila militanti comunisti, ha segnato il paese per lunghissimi decenni. Il potere è stato nelle mani militari fino al 1999 ma, come spesso succede, il ritorno alla democrazia è stato molto di facciata e ancora poco di sostanza. Il potere vero, quello economico, e finanziario, resta saldamente in mano di forze nazionali e internazionali che, nel tempo, si sono fatte furbe. Ecco perché, a differenza dei casi classici latinoamericani, la terra non è quasi mai in mani “formalmente” private, ma resta statale, con concessioni che di fatto limitano il rischio, sociale ed economico, delle imprese.

L’Indonesia è, essenzialmente, una foresta. L’isola centrale ha seri problemi di sovrappopolazione per cui, da tempo, è iniziata una politica di migrazione interna promossa dal governo, che installa famiglie povere e poverissime in altre isole, ovviamente senza interessarsi granché delle popolazioni indigene locali. Senza entrare troppo nella storia, basti ricordare che ancora oggi, direttori generali di ministeri chiave del presidente Jokowi, un “progressista” agli occhi occidentali, negano l’esistenza di “indigeni” (e quindi di tutte le loro lotte per i diritti sulle terre), sostenendo che siamo tutti indigeni, per cui non esiste nessuna necessità di un trattamento particolare per loro.

Da decenni la lotta di questi ultimi è proprio per far riconoscere la loro esistenza, dato che le terre o sono dello stato o sono dei privati. Ma, come dicevo prima, meno del 3% sono in mano private per cui si può parlare di un quasi monopolio statale. L’eredità coloniale sta alla base di questa concezione, che non è mai cambiata negli anni. Di conseguenza, al non trovare uno sbocco semplice, le lotte dei movimenti pro-indigeni, si sono cristallizzate sul concetto di proprietà statale e proprietà privata. Dopo anni di lotta, nel 2012 sono riusciti a far iscrivere all’ordine del giorno una Constitutional Rule, approvata l’anno seguente col numero 35, che riconosce alle terre delle comunità indigene lo status di proprietà privata.

Da lì ne discende un obbligo per lo stato di identificare queste foreste, delimitarle e darne la titolarità alle comunità. Facile immaginare le resistenze interne, anche dentro quello stesso governo attuale che promette una riforma agraria a favore dei più poveri.

Per questo ci hanno chiesto di venire, per vedere se abbiamo qualche idea per velocizzare il processo. Le resistenze sono coalizzate su due fronti: da un lato, il più duro, riguarda l’emissione di regolamenti (by law) da parte dei capi distretto che riconoscano l’esistenza delle comunità e quindi diano l’avvio al processo di identificazione territoriale.Questi regolamenti vengono raramente emessi perché una volta che la terra esce dal controllo locale, loro perdono una possibilità di fare business, pulito o meno che sia. Inoltre, solo per arrivare a richiedere l’emissione di questi regolamenti, sono necessari una serie di studi e documenti, fra cui la mappa del territorio richiesto, che prendono molto tempo e risorse alle ONG già povere di suo. Connesso a questo problema, politico istituzionale, viene il tema della precisione mappale.

L’Indonesia è un paese che ama produrre mappe. Ogni ministero ne ha, e più di una. Essendo le mappe una concretizzazione dell’informazione, e quindi del potere, nessuno vuole scambiarle con gli altri. Le specifiche tecniche sono diverse, ecco per cui a parte i concessionari privati, che usano tecnologia satellitare all’avanguardia e quindi sanno tutto, ogni 24 ore, di cosa succede sulle loro foreste, il governo non ha un’idea chiara di nulla. Spinti dalla banca mondiale, da anni cercano di mettere assieme una sola mappa, col programma che si chiama proprio One Map. Prima di vincere le resistenze ci vorranno ancora molti anni, ma nel frattempo si sta arrivando a un accordo sulla scala richiesta quando si presenta una mappa per richiedere un titolo, concessione o altro. La scala è 1:50,000, maggiore di quanto sia in uso normalmente. Inoltre ci si sta dirigendo verso l’uso delle cosiddette stazioni totali, apparecchiature topografiche moderne, care, ma di alta precisione. Il rischio quindi è che tutto il lavoro fatto dalle ONG per presentare le richieste delle comunità indigene non vada bene e sia da rifare, non solo verificare come sarebbe scritto nella legge. Le ONG argomentano che il materiale è troppo caro, ma onestamente l’operazione ha un senso, dato che la precisione nei dati evita futuri contrasti. 

Le nostre riflessioni sono iniziate da questo punto. Il collo di bottiglia tecnico e istituzionale, secondo noi potrebbero essere affrontati assieme, con una strategia, che ho proposto al mio capo missione, basata su lavori portati avanti durante parecchi anni in Angola e Mozambico. Da un lato, per evitare l’emissione lunga e complicata di un regolamento nuovo per ogni comunità, cosa che rischierebbe di intasare i già poco efficienti uffici locali, si potrebbe pensare a un meccanismo di verifica sociale, dove siano i vicini, comunità o individui, a “garantire” che il territorio di cui stiamo parlando è da molti anni gestito dalla comunità richiedente. I vicini di fatto parteciperebbero all’esercizio di delimitazione territoriale, e nei vari punti del confine, le coordinate verrebbero controfirmate sia dalle autorità comunitarie che da quelle dei vicini. In questo modo, con un diagnostico rapido, ma garantito dai vicini, si riesce a dare una validità storica alla comunità richiedente, evitando i tentativi di manipolazione da parte di pseudo-comunità costituite da concessionari privati che in quel modo avrebbero accesso ad ulteriore foresta. L’altro aspetto, per quanto riguarda la qualità delle mappe e il materiale da usare, il nostro suggerimento è di far partecipare i tecnici del governo al momento della verifica finale di terreno; loro verrebbero con i loro strumenti, il che garantirebbe la qualità da loro desiderata, nonché la giustezza delle coordinate dei punti di confine che sarebbero misurate da loro stessi e controfirmate dalla comunità e dai vicini.

Questo tipo di esercizio è abbastanza veloce e assicura un buon livello di inclusione. Oltretutto permette, al momento di studiare il territorio con i membri delle comunità, di dare un spazio loro alle donne, in modo che vengano fatte delle mappe mentali sia degli uomini che delle donne separatamente. In questo modo si stimolano anche le donne a dare la loro opinione, sul territorio, il suo uso e altri problemi. Alla fine i due gruppi vengono messi assieme e si discute fino ad arrivare alla mappa territoriale consensuale. Fondamentale in questo esercizio è di accertarsi che non ci siano conflitti in corso, altrimenti tutto il processo si fermerà non appena si andranno a misurare i punti contestati. Va detto che in questi venti anni e passa di lavoro fatto, non abbiamo mai avuto problemi di questo tipo. Ovviamente anche perché abbiamo scelto di iniziare in zone tranquille, per far conoscere l’approccio, mostrare agli uni e agli altri che possono lavorare assieme, in modo da creare quella fiducia iniziale che è il capitale fondamentale di tutte operazioni di sviluppo.

Vedremo che andrà a finire. Nei prossimi giorni e settimane tornerò sull’argomento. Chi volesse saperne di più troverà sul sito FAO la nostra pubblicazione su Participatory Land Delimitation.


La riflessione continua. 

Aggiungo anche alcune foto delle riunioni, così magari mi ricorderò le loro facce in futuro... comincio con le ONG, AMAN, la più grossa rete nazionale in favore dei popoli indigeni, il loro oramai ex capo che adesso corre per un posto di governatore, e il responsabile Asia della Land Coalition, un buon amico.


Assicurazioni catastrofe (continua) Post 5

Nuovo millennio: da dove farlo iniziare?
Sembra esserci un consenso popolare nel far iniziare il secolo nuovo dal 9 settembre 2001, a causa degli attentati alle torri gemelle. Io sarei dell’idea di considerare anche altre alternative: una è quella di considerare il 2005, quando l’uragano Katrina colpì la zona della Louisiana negli Stati Uniti (vedi foto). La ragione tiene ai costi incorsi dal sistema nel suo complesso: le stime aggiornate girano attorno ai 150 miliardi di dollari, di cui solo la metà erano assicurati. Si è trattato finora del disastro più caro da quando vengono contabilizzati. (da notare che 8 su 10 dei disastri più cari sono successi tutti dopo l’anno 2000, quasi ad annunciare un trend di costi crescenti che non si sa bene come coprire).

Sulla prevedibilità dei danni che un uragano del genere avrebbe potuto realizzare nella città di New Orleans sono stati realizzati documentari molto interessanti, in particolare quello del terzo canale francese (Thalassa: https://www.youtube.com/watch?v=0IH-SmTu8tE), a dimostrazione di cosa si poteva e doveva fare prima del disastro annunciato. 
L’altra proposta è di prendere il mese di dicembre del 1999 quando due uragani (Lothar e Martin) colpirono a distanza di pochissime ore le stesse zone forestiere della Francia. Lo stato francese, assicurato contro questi rischi, chiese quindi di essere rimborsato: il pool di assicurazioni non concordò con le indicazioni del servizio meteorologico francese che parlava di due uragani. Secondo loro si trattava di un singolo evento, mentre i francesi sostenevano fossero due. Andarono a finire in tribunale, dato che le somme in gioco erano colossali. Al di là del come sia andata a finire, quello che interessa è che questo provocò un cambio di strategia che abbiamo sotto gli occhi tutti noi, ma che abbiamo ancora difficoltà a percepire: la spinta per una progressiva privatizzazione dei servizi metereologici (ci torneremo dopo).
Allora, siamo nel secolo nuovo, ma gli istinti sono sempre gli stessi: come moltiplicare i profitti. Il sistema bancario si è oramai specializzato in creazione fantasiose sempre più complicate: dai futures di cui parlavamo prima, siamo passati agli swaps, poi i CDS (Credit Default Swap) e finalmente i derivati climatici e i Cat-Bond (foto). Il denominatore comune resta lo stesso: con una somma modesta si vien esposti a un rischio molto, troppo grande, difficilmente valutabile dalla stessa Banca che ti vende il prodotto. Una roulette russa che recentemente ha messo sul tappeto l’economia della mia terra veneta e di Vicenza in particolare, grazie ai maneggi di Zonin e compagnia, ma che aveva colpito in modo inequivocabile fin dal 2008 con la crisi dei sub-prime.

Nel settore delle risorse naturali, la vecchia idea di promuovere un mercato delle terre non avendo dato grandi risultati, ci si è spinti ai margini della legalità con un processo di accaparramento conosciuto come “grabbing”. Il più famoso riguarda le terre, ma dietro questo ne vengono altri, quello delle sabbie comincia ad essere conosciuto soprattutto dopo che paesi come la California e, in questi giorni, la Cambogia, hanno vietato l’esportazione delle loro sabbie verso l’estero. https://landportal.info/news/2017/07/cambodia-bans-sand-exports-after-environmental-group-pressure e, soprattutto, questo articolo de The Guardian: https://www.theguardian.com/cities/2017/feb/27/sand-mining-global-environmental-crisis-never-heard
Più volte mi è stata posta l’eterna domanda, se si poteva fare ancora di più: la risposta è ancora una volta: si!
La magia della finanza è quella di riuscire a creare soldi dal nulla; cosi come lo hanno fatto con i derivati immobiliari, sono riusciti a creare un mercato per l’aria che respiriamo. Per arrivare a questo hanno dovuto però rafforzare due strategie parallele: da un lato continuare nello smantellamento delle istituzioni statali responsabili della governabilità dei nostri paesi, attraverso la promozione sostenuta del nuovo mantra della “good governance” allineata ai principi e diktat del mondo occidentale, e dall’altro lato investire risorse nella riflessione intellettuale, in modo da rendere più forte l’armamentario neoliberale a coprire la manbassa fatta sulle risorse naturali.  
Sminuire e distruggere le istituzioni pubbliche era stato l’elemento centrale delle politiche di aggiustamento strutturale che negli anni 80 avevano colpito peggio dell’uragano Katrina, gran parte dei paesi africani e vari altri latinoamericani. Basati sull’ideologia neoliberale per cui il mercato risolve i problemi che lo Stato crea, la Banca mondiale e il FMI concentrarono i loro sforzi in pochi settori, chiave per lo sviluppo dei paesi del Sud: educazione, salute e servizi pubblici agli agricoltori. Hanno funzionato benissimo nel distruggere quel poco di Stato che erano riusciti a mettere in piedi. La corruzione, molto presente prima, ha dilagato dappertutto da quegli anni in poi, non essendoci più una società civile educata e pronta a reagire di fronte alle ladrerie perpetuate dai loro governanti, spesso tenuti in piedi da forze militari occidentali.
La distruzione dei servizi sanitari fa sì che a ogni epidemia di minima gravità i morti si contino per migliaia e i rischi di pandemia si espandano rapidamente. Un mercato d’oro è stato offerto alle ONG occidentali invece di preoccuparsi di ricostruire i necessari servizi sanitari pubblici. Finalmente, togliere i servizi di estensione agricola, ha aperto una strada maestra per gli stessi servizi offerti dalle multinazionali della chimica, quelle che controllano sementi, insetticidi e fertilizzanti, macchinari e mercati finali. In questo modo si capisce perché la biodiversità agricola si riduca e prosperino sempre più varietà geneticamente modificate. E chi non sta al gioco ha una sola soluzione: gambe in spalla e avanti verso nord!
(continua)

sabato 29 luglio 2017

Assicurazioni Catastrofe (continua) Post 4


La Cina è vicina? (o no?)

Mentre queste cose succedevano nel mondo “libero”, altre dinamiche erano in marcia nel resto del mondo. Non torno sullo smantellamento dell’Unione Sovietica che apri un’autostrada al vento neoliberale verso Est. Mi riferisco qui a tendenze di fondo del sistema terra: i trends demografici e la progressiva distruzione di risorse naturali. Il combinato disposto di una popolazione in crescita e di una disponibilità calante di terre di ottima o buona qualità, ha inevitabilmente cominciato a creare delle difficoltà, delle frizioni, che a volte hanno cominciato ad assumere i toni della disputa e del conflitto. Aggiungiamoci poi la scarsa conoscenza che avevamo (e abbiamo ancora) delle dinamiche di funzionamento dei nostri ecosistemi, ed ecco quindi che a volte si generano dinamiche preoccupanti per le generazioni attuali e future. Chi volesse saperne di più sul tema dei conflitti legati alle risorse naturali, terra in particolare, può andare a leggere qui di seguito: http://landportal.info/book/thematic/land-conflicts.

Il caso della Cina è emblematico; alcuni di noi forse ricorderanno gli slogan di una vita fa: la Cina è vicina. Non ne sapevamo nulla allora e anche adesso non è che ne sappiamo poi molto. Quel poco conosciuto pero è fonte sufficiente di preoccupazione. Usando le cifre attuali, la Cina dispone di meno del 10% delle terre arabili disponibili, mentre deve alimentare una popolazione che rappresenta circa il 20%. La disponibilità di terra per capita è all’incirca di 0.09 ha (meno di mille metri quadrati). Se la Cina comunista fosse un paese conosciuto per il suo sapere agronomico, magari potremmo preoccuparci un po’ meno. Il problema di fondo è che al posto di affidarsi alle conoscenze millenarie accumulate, il Partito ha deciso fin da subito di applicare all’agricoltura gli stessi schemi mutuati dall’industria statale.

Il deficit storico dei partiti di sinistra, europei e russi in particolare, nel capire la natura particolare del settore agricolo, è stato studiato e se ne conoscono i dettagli dei dibattiti interni. La Feltrinelli pubblicò un libro nel 1977 che reputo fondamentale ancor oggi (https://books.google.co.th/books/about/Il_dibattito_sulla_questione_agraria_nel.html?id=hnGoNQAACAAJ&redir_esc=y). Io ne venni a conoscenza semplicemente perché il traduttore italiano era mio fratello e quindi ne ricevette una copia che anni dopo ebbi modo di leggere.

Il risultato dell’applicazione di un metodo basato sull’ignoranza è stata la desertificazione crescente di cui soffre oggi il paese: dati recenti dell’ente responsabile delle foreste cinesi indicano una espansione della desertificazione a un ritmo da 2.500 a 10mila kilometri quadrati l’anno. Grosso modo 400 milioni di cinesi sono a rischio desertificazione (http://www.geocases1.co.uk/printable/Desertification%20and%20land%20degredation%20in%20China.htm). La mappa che ho messo qui da un’idea del livello di stress idrico (mancanza d’acqua), l’altra faccia della medaglia della desertificazione che avanza.


Questo per dire che, ci piaccia o meno, anche se adesso cominciano a rendersi conto del problema (e sognano di piantare un miliardo di alberi per fermare il deserto… ) prima di riuscire a modificare queste tendenze di fondo ci vorranno decenni. E siccome la produttività agricola dei cinesi non è esattamente quella dei vietnamiti, ci sono ragioni di preoccuparsi, nonché di capire perché i cinesi siano alla disperata ricerca sia di terre altrui (land grabbing) sia di comprare tutto quello che trovano sul mercato delle scorte alimentari. 

Aggiungiamoci poi che l’aumentato livello di vita porta anche a un consumo diverso da prima: non solo riso ma anche proteine animali, che hanno bisogno di ancor più superficie per essere prodotte. Riassumendo: sti cinesi li avremo sulle (s)palle ancora per parecchi anni prima che si possano calmare. Saranno un elemento perturbatore perché le quantità di prodotti alimentari a cui devono accedere saranno ancora crescenti per parecchi anni prima che miglioramenti sensibili nei livelli di produzione locale e una riduzione della popolazione permettano di invertire il trend.

Altri deserti stanno avanzando, i cosiddetti deserti verdi. Rimpiazzano le foreste primarie laddove ancora esistono. Da una parte sono le piantagioni di palma da olio e dall’altra le piantagioni di eucalipti. La ragione invocata è sempre la stessa: la domanda di prodotto (in questo caso la cellulosa per la carta) aumenta e quindi deve aumentare la superficie in produzione. Con l’emergere (adesso un po’ stemperato) dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cine e Sudafrica), le aspettative sono che negli anni a venire la domanda continuerà a crescere, dai cui pressioni crescenti in questo senso. Per quanta riguarda l’olio estratto dalla palma, visto da Bangkok, sembra lontano il punto di inflessione verso una regressione. Ci sono paesi, come quello dove sto andando in missione, o un altro qui vicino, che ne fanno quasi una questione di priorità nazionale per cui le foreste date in concessione, tutte su territori ancestralmente appartenuti a comunità indigene, non si possono nemmeno discutere.

Abbiamo quindi davanti a noi un futuro che si presenta sempre più nero. Le nazioni unite dicono che bisognerebbe quasi raddoppiare la produzione alimentare da qui al 2050. Tornerò un’altra volta per spiegare perché non credo sia un obiettivo ragionevole.

(continua)
China water stress.jpg

2017 L31: Pierre Pouchairet - Mortels Trafics


Fayard, 2016

À croire qu’il est plus important d’intercepter des « go fast » de cannabis que d’arrêter des tueurs…
Si la marchandise est perdue, rien ne vous protègera plus, même pas les barreaux d’une prison…
Une rumeur assassine s’en prend à l’innocence d’une famille.
La violence des trafics mobilise Stups et Crim’ au-delà des frontières, dans le secret d’enquêtes mettant à l’honneur des tempéraments policiers percutants, parfois rebelles, toujours passionnés.

contrariamente a molti commenti, trovo questo libro non all'altezza. Ci è voluto molto per arrivare alla fine, insomma non mi è piaciuta la storia ma soprattutto il tono super specialistico dello scrittore... ripassi a settembre

martedì 25 luglio 2017

Assicurazioni Catastrofe (continua) Post 3

Post 3

Con Reagan al potere si potevano finalmente consolidare i due sogni del mondo finanziario: da un lato eliminare il solo potenziale ostacolo ideologico, l’Unione Sovietica, ancora vista da una parte degli occidentali come un baluardo anticapitalista, e dall’altro cominciare l’attacco in grande stile a quella fonte enorme di profitti che va sotto il nome di Ambiente.
La storia delle famose guerre stellari è cosa nota. Una partita di poker ben portata avanti dagli americani, rilanciando a livelli di spesa militare sempre più alta finché i russi vennero costretti alla resa finale firmata da Gorbatchev. Tutti felici, il nemico non c’era più e da quel momento in poi si poteva cominciare a parlare di un nuovo ordine mondiale.

Quello di cui ci ricordiamo meno sono i primi attacchi sistematici all’ambiente (americano), attraverso l’eliminazione delle prime leggi di protezione dell’ambiente e la riduzione del personale dell’agenzia responsabile per l’ambiente americano (EPA). Va ricordato che nel sistema democratico americano, agenzie come l’EPA possono far del male sul serio a chi non rispetta le leggi, sia egli un privato cittadino o il Presidente della Repubblica. Ragione per cui bisognava attaccare sia le leggi che chi era istituzionalmente predisposto al loro controllo, il tutto senza farsi troppo scoprire dall’opinione pubblica.

Con l’arrivo di Bush senior l’attacco all’ambiente diventa più sofisticato e strutturale. Viene così approvata una politica conosciuta come la No Net Loss Wetlands Policy. Roba da specialisti, ma che possiamo tradurre, in soldoni, nel modo seguente: una banca creata specialmente per finanziare operazioni di recupero di queste aree umide, si incaricherà di recuperare, restaurare e preservare l’habitat locale vendendolo al settore privato. Da parte dei privati, l’acquisto di porzioni di questi territori (azioni) servirà loro per compensare azioni meno benevole per l’ambiente che abbiano intenzione di fare altrove. Vengono poste in questo modo le basi del mercato delle compensazioni.

La compensazione è il meccanismo chiave che regge tutto il sistema attuale: io voglio fare un investimento in una zona protetta, per esempio voglio scavare un pozzo petrolifero in una riserva dell’amazzonia. Sono sicuro che ne combinerò di tutti i colori, danneggiando flora e fauna e rompendo equilibri millenari. A quel punto io “compenso”. Compro delle buone azioni per proteggere qualche componente dell’ambiente in altre parti del mondo e, una mano lava l’altra. La mia coscienza è a posto, l’ambiente… non lo sappiamo.

A partire dall’introduzione del meccanismo delle compensazioni sono sorti una serie di controversie, più attuali che mai:
  • Il diritto di distruggere, spesso in modo irreversibile delle specie o degli ambienti naturali straordinari, rari o vulnerabili;
  • Il carattere non rimpiazzabile o compensabile delle specie, habitat o funzioni ecosistemiche legate ai vari ambienti;
  • La tendenza alla mercantilizzazione o monetarizzazione della nature, se non addirittura alla finanziarizzazione attraverso la vendita di servizi ecosistemi;
  • I metodi di equivalenza per prevenire, compensare o riparare i danni ambientali: sono basati su ipotesi non comprovate nel tempo.

Clinton, il tanto amato Clinton, non fece nulla per togliere queste politiche, dato che alla fine era appoggiato dalla stessa cricca economico-finanziaria. Bush junior ovviamente riprese con buona lena i propositi del padre (e di chi gli stava dietro), aprendo la strada a simili interventi anche in altre risorse naturali: acqua e aria. Più recentemente, anche Obama si sarebbe allineato a queste stesse politiche, mantenendole tutte.

Un ventennio che ci lascia un’eredità che potremmo definire, usando le metafore care al nostro Renzi, come quella di una asfaltatura generale di tutto quanto proteggeva l’ambiente.
Sarà in questo periodo quando verrà realizzata la Cumbre di Rio de Janeiro nel 1992: tutti i governi del mondo riuniti per discutere di cosa fare per la protezione dell’ambiente mondiale. Tanti governi, fra cui gli americani, a difendere esattamente il contrario. Se ne usci con l’accordo di Kyoto che non riuscì mai a decollare realmente. 20 anni dopo si sarebbero ritrovati ancora a Rio (2012): in Brasile comandava la sinistra e eravamo tutti (?) contenti: stavolta avremmo vinto noi e avremmo costretto i cattivi a chiedere scusa. Non andò cosi. Nel 1992 erano solo governi. Nel 2012 la metà del partecipanti erano i CEO delle principali compagnie private del mondo, dalla Coca Cola in giù. Vinsero loro, ancora una volta.


(continua)

sabato 22 luglio 2017

Assicurazioni Catastrofe (segue) Post 2

Assicurazioni Catastrofe (segue)
Post 2

Una volta decisa la svolta finanziaria, bisognava far sì che le politiche ufficiali del governo si allineassero, in modo che ci fosse una coerenza fra quanto detto e quanto fatto. In situazioni teoriche ideali, verrebbe da credere che innanzitutto sarebbe venuta la politica a dettare il cammino, e poi le scelte concrete per mettere in pratica quella politica. Nella realtà funziona in modo diverso: la scelta fu fatta dal mondo economico-finanziario privato, che forzò la mano al Congresso e poi si attivò per far sì che le politiche pubbliche si allineassero su quanto già deciso nei fatti.

Nixon avrebbe potuto continuare a fare la sua parte, dando il suo assenso politico a quelle decisioni prese in altre sedi, se non fosse stato per quello sfortunato incidente del Watergate che lo portò a lasciare la Casa Bianca. In quella feritoia si introdusse l’uomo delle noccioline per fregare la presidenza ai cari repubblicani, ma senza la forza proveniente dal mondo economico e finanziario, il povero Jimmy Carter dovette tornarsene alle sue piantagioni nel sud e lasciare finalmente campo libero al nuovo vento neoliberale che soffiava già da qualche anno.

Fortuna (loro e sfiga nostra) volle che il vento soffiasse nella stessa direzione anche in Gran Bretagna. Fu così che mentre a Torino ancora rimpiangevano i gemelli del gol, Pulici e Graziani, arrivarono sulla scena i gemelli del brigantaggio: Reagan e Thatcher. Gli intellettuali che stavano dietro a queste due figure da avanspettacolo erano i teorizzatori della supremazia assoluta del libero mercato, la scuola di Chicago di Milton Friedman e compagnia. Avendo avuto la possibilità di testare le loro politiche grazie ai regimi gentilmente disponibili dei militari cileni e sudamericani, vedendo cioè all’opera la congiunzione della (i) forza militare, (ii) dell’imposizione politica e (iii) dello strapotere finanziario, si era deciso che questo modello dovesse essere proposto (o imposto) al mondo intero. 


I due gemelli fecero di tutto per distruggere le regolazioni pubbliche statali, tagliare i diritti dei lavoratori e promuovere un modello di società dove esisteva solo l’individuo. Furono i ruggenti anni 80, dai quali non ci saremmo mai più rialzati, non avendo coscienza che quello che a noi sembravano essere ancora i frutti del boom economico degli anni 60, in realtà erano gli ultimi fuochi di un benessere che se ne stava andando, riconcentrandosi poco a poco nelle mani di pochi.

Il ruolo giocato dai mass media, già allora ben controllati da quello stesso grumo di potere che spingeva per queste politiche, è ben conosciuto da noi: il modello tette e culi di Canale 5 era quanto doveva esser dato all’ascoltatore medio, per allontanarlo in modo strutturale da riflessioni più profonde.

Nel tema che ci è caro (le risorse naturali), il neoliberalismo si tradusse con le teorizzazioni della necessità di trasformare i diritti consuetudinari delle popolazioni locali, indigene o meno, in diritti di proprietà all’occidentale. L’obiettivo era sempre lo stesso: bisognava creare dei mercati di questi beni, e il primo che venne lanciato fu il mercato della terra. 

Decenni di lotta per delle riforme agrarie che democratizzassero la distribuzione della terra, vennero spazzati via dalla bufera dei mercati fondiari originati dalla banca mondiale e a cui tutte le altre organizzazioni del sistema si associarono. Tutto quello che era “tradizione”, diritti consuetudinari etc. erano viste come retaggi di un passato da poveracci, quindi da buttar via, modificare il prima possibile e, soprattutto, con un modello unico che facilitasse l’arrivo dei capitali privati. Anche per i piccoli pescatori e le loro magre risorse, le cose cominciarono ad andar male. Anche se l’attenzione su di loro sarebbe stata posta vari anni dopo, in particolare durante la Presidenza Obama, in realtà la privatizzazione delle risorse alieutiche era già in marcia da prima 


I teorici di questa svolta avevano già scritto i loro vangeli anni prima, e quello di Hardin continua a circolare neanche si trattasse del Protocollo dei Saggi di Sion.
In un mondo dove si faceva crescere l’ignoranza e dove la riuscita individuale (all’americana) veniva presentata come il modello ultimo della nostra vita, anche una base intellettuale traballante come quella che sosteneva questo progetto di società riusciva ad imporsi. Le voci contrarie o non allineate venivano allontanate e marginalizzate, e il centro della scena veniva stabilmente occupato dagli imbonitori da cabaret.

(continua)

venerdì 21 luglio 2017

Complimenti a Di Caprio per la (falsa) immagine di ambientalista


L’attore: «L’obiettivo principale è quello di fare qualcosa per cambiare il mondo»


Leonardo Di Caprio veut sauver une île grâce à un hôtel de luxe

Potremmo continuare e ne troveremmo moltissimi giornali da tutto il mondo a celebrare la famosa star e la sua sensibilità ecologica.

Poi per sbaglio andiamo a finire sul solito programma comunista Thalassa trasmesso dal terzo canale pubblico francese. Chi volesse andarlo a vedere completamente, ecco l’indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=AJ_Ig4g3pa . Trascrivo qui sotto il pezzo che mi interessa evidenziare; si parla del Belize e si intervista un pescatore locale e attivista ecologista:


A quel punto ho cercato meglio, e allora trovo che anche la IUCN, forse la più reputata agenzia conservazionista al mondo, ha qualche problema con questo “eco” resort di lusso:
While the resort's ambitious sustainability has been widely praised, local residents — in particular the fishing community — are concerned that its approval will mean the end of access to critical fishing grounds.[…] “Sixty-six feet of all coastal waters are all considered Queen’s land because it belongs to the public," said one concerned resident during a discussion of the project's recently-completed 430 page Environmental Impact Assessment (EIA). "You may own land, but from high tide, sixty-six feet on to land is public access. And not only are you blocking that, but you are encroaching on the marine reserve and developing in that water."

Marissa Tellez-Kohlman, vice regional chair of Latin America for the International Union for Conservation of Nature/Species Survival Commission, raised concerns with the Belizean Reporter that the EIA was conducted without input from local marine biologists.
"Why did they hire international marine and terrestrial biologists to perform surveys instead of Belizean scientists?" she said. "Given my expertise, I have been asked to travel to various countries in the world to provide my expertise. Yet, I never go into another country without consulting locals or local scientists."

Trovo che anche i giornali locali danno voce alle comunità locali e alle loro preoccupazioni: Concerns arise over Leonardo DiCaprio’s Blackadore Caye project


Certo che confrontare uno degli attori più famosi e amati dal pubblico, che dedica il Golden Globe ai popoli indigeni http://www.eraonlus.org/it/1/item/11717-leonardo-dicaprio-dedica-il-golden-globe-ai-popoli-indigeni.html#.WXFvuISGNhE e dubitiamo molto che alla fine la battaglia possa essere vinta dai piccoli pescatori locali…

Resta il fatto che a scuola bisognerebbe insegnare come leggere le informazioni e il sano principio della triangolazione e della verifica. Magari un giorno anche i giornalisti di Vogue, Figaro Madame, La Stampa e quant’altro impareranno il loro mestiere.

giovedì 20 luglio 2017

Assicurazioni Catastrofe (Cat-Bond) e la vaselina: quale rapporto?

Post 1
Oggi metto per iscritto una ulteriore ragione del mio profondo malessere dovuto al voler ficcare il naso in profondità su tutto quello che circola attorno al tema sviluppo/sottosviluppo. Dopo tanti anni dovrei aver imparato che in fondo in fondo si rischia di ritrovarci nelle fogne e quindi sentir puzza, e non profumo. Colpa mia, non me ne vanto, ma almeno lo spiego.
Premetto che, essendo un inguaribile e pericolo sinistrorso, quello che scrivo è ovviamente soggetto a cautela: dico sempre agli studenti che ho incontrato nella mia vita di non credere mai a quello che viene loro raccontato; di verificare le fonti e di cercare di farsi una idea propria, di controbattere, argomentare, ma non su basi ideologiche. Importante è non farsi intortare, non essere ingenui. Io propongo una lettura storica, che mi sembra coerente, ma che non può pretendere di essere “la” verità. 
La storia parte da molto lontano e magari alla fine la spartirò su post successivi, andando per periodi. Vedremo alla fine.
La ragione per cui la scrivo oggi semplicemente dipende da un ennesimo segnale interno che indica la volontà della mia organizzazione di aiutare ad aprire le porte al mondo delle assicurazioni dentro i temi del terzo mondo. Per capire le ragioni del mio umore nero, ripartiamo dall’inizio.
C’era una volta… sì, ma quando? 1969-1971 
L’allunaggio della Apollo 11 in questo stesso giorno di 48 anni fa (20 luglio 1969) fu il segnale planetario della superiorità raggiunta dagli Stati Uniti nei confronti del dirimpettaio URSS. Questa era la facciata: comandavano loro, gli americani. Per noi italiani o europei dell’ovest andava benissimo, non stavamo lì a chiederci chi fossero questi “americani”: era il governo degli Stati Uniti, cioè la forza pubblica e democratica che reggeva la società americana, o erano altri interessi, privati questa volta, anche se pur sempre americani?
Passarono pochissimi anni e successe qualcosa che non capimmo subito, ma che avrebbe avuto conseguenze strutturalmente devastanti per il nostro mondo: la fine del Gold Standard, cioè della parità oro-dollaro che aveva retto il sistema finanziario mondiale dalla fine della seconda guerra mondiale. Fu il Presidente Nixon a dichiararlo (https://www.youtube.com/watch?v=iRzr1QU6K1o), ma fu ben presto chiaro che dietro di lui non stava il cittadino medio americano, ma forze finanziarie ben più potenti.
Val la pena ricordare quanto scrisse uno dei principali assessori del Presidente francese De Gaulle, J. Rueff immediatamente dopo la dichiarazione di Nixon: “abbandonando il Gold Standard, l’unico sistema che aveva funzionato, il mondo sarebbe andato verso una crisi dopo l’altra, dalla deflazione all’inflazione, dal boom al collasso economico” (Le Péché monétaire de l'Occident).
Col vecchio sistema, esisteva una tassa di cambio fissa per le principali monete del mondo (quelle convertibili, quindi escludendo il rublo) rispetto al dollaro, con l’oro che serviva da base per tutti. Rompere quel sistema significava lanciare nel mare aperto dei tassi di cambio, una serie di monete di peso politico diverso. La principale, il dollaro, poteva fare il bello e cattivo tempo (entro certi limiti), mentre le altre iniziavano a vagare senza idee chiare sul valore rispettivo. Si creava cosi la possibilità dell’inflazione, cioè la perdita di valore di una moneta in un certo lasso di tempo, rispetto a un’altra o rispetto al valore di certe merci. Prima si poteva comprare della merce nel giorno X, chiedendo fosse consegnata mesi dopo, sapendo che il prezzo sarebbe stato lo stesso. A partire da cambi fluttuanti, il prezzo di oggi era conosciuto, ma il prezzo futuro diventava una incognita, una scommessa. Queste scommesse sul valore futuro delle monete diventano il sale del mercato dei “futures”, creato a Chicago nel 1972. Lo si creò li semplicemente perché questo sistema di anticipare prezzi e valori futuri esisteva già nel mondo agricolo americano, con una borsa agricola basata a Chicago, anche se ovviamente era piccolo e ristretto a un solo settore.
In questo mercato si scommetteva sul valore futuro di una moneta: quanto ci sarebbe voluto in Lire, Franchi, Sterline per comprare una certa quantità di merci fra un tot di mesi. Questi contratti, dove si specificava quanta merce sarebbe stata consegnata in tal posto a quel prezzo, prendono il nome di “derivati” (nome che ritroveremo più tardi parlando della crisi iniziata nel 2008).


Prima domanda che mi viene fatta: ma perché gli americani si inventano di rompere un meccanismo che funzionava bene dal 1945? Risposta: perché il tasso medio di profitto sul capitale stava scendendo pericolosamente come mostra il grafico che ho aggiunto. Se si voleva continuare a fare soldi, bisognava inventarsi qualcos’altro: la rottura delle parità monetarie apriva delle possibilità incredibili per i gestori di capitali.

martedì 18 luglio 2017

Stiamo perdendo: 897 a Zero!


Il 14 luglio in Francia è tradizione festeggiare la presa della Bastiglia, simbolo della rivoluzione e delle tanto declamate parole di libertà, uguaglianza e fraternità. Ma da anni mi chiedo se non ci si renda conto dello scollamento crescente tra la società sognata e la società reale, quella in cui viviamo adesso. Se vogliamo mettere un numero a questo scollamento, eccolo lì nel titolo: da anni, in occasione di queste festività, i ragazzi delle periferie sbandate celebrano a modo loro, per ricordarci che esistono e che hanno non solo rabbia in corpo ma oramai un odio crescente verso la società di facciata. 897 auto sono state bruciate in Francia in quella notte del 14 luglio. Il dato, come riportano i giornali   (http://www.lefigaro.fr/actualite-france/2017/07/15/01016-20170715ARTFIG00132-festivites-du-14-juillet-le-nombre-de-voitures-brulees-en-legere-hausse.php) è in leggero aumento rispetto all’anno precedente.

Ieri sera ho rivisto un vecchio film degli anni 90, l’Odio (la Haine) e sono rimasto sorpreso di quanto fosse ancora attuale ai giorni nostri. Le periferie abbandonate di allora, quelle che vennero chiamate i “territori perduti della Repubblica” (Emmanuel Brenner, 2004, edizioni Mille e una notte) sono passate indenni attraverso decenni di politiche pubbliche totalmente aliene a quelle realtà. Prima di quello, avevo guardato un altro film documentario rappresentativo di cosa stiamo diventando noi paesi europei: Merci patron di François Ruffin. E’ la storia dell’emblematico padrone di gran parte delle marche del lusso francese e mondiale, quel Bernard Arnault che dopo aver chiuso molte delle fabbriche francesi che producevano le sue marche di lusso ha decentrato la produzione alla ricerca di sempre maggiori profitti, ma non solo, alla ricerca di disperati disposti a lavorare per salari sempre più bassi ed è arrivato a chiedere la cittadinanza di un altro paese per poter risparmiare sulle già poche tasse che paga e di una delle tante famiglie da lui rovinate. Due facce della stessa medaglia, due società che hanno sempre meno da dirsi e che comunicano attraverso gli scatti di febbre come nelle occasioni citate sopra.

Il patto sociale scricchiola, l’individualismo avanza, usando anche mentite spoglie come i diritti individuali riguardo sessualità e procreazione. Le classi medie si vedono erodere sempre più velocemente quel benessere che sembrava un bene acquisito e per il quale non ci fosse bisogno di continuare a lottare. Per arrivare a questo è stata necessaria un’opera di pulizia mentale, far dimenticare la nostra storia recente, le lotte che hanno permesso alle classi meno abbienti di contenere lo strapotere delle classi agiate, favorire politiche redistributive e un accesso pubblico all’educazione, salute e ricreazione (ferie). La televisione, soprattutto quella privata ma poi seguita anche dalla pubblica, ci ha messo del suo in questa opera di smantellamento della coscienza popolare, nonché nel mettere in luce personaggi sempre più lontani dalle nostre realtà, inarrivabili per le loro ricchezze e che dovevano assurgere a nuovi miti per le nuove generazioni. Non più il valore lavoro, lo sforzo individuale e collettivo, il preoccuparsi degli altri, cose che quando eravamo giovani imparavamo tutti, sia che andassimo nelle sezioni del partito comunista (o nella sinistra extra parlamentare) o che andassimo a giocare in parrocchia. 

Erano valori condivisi, sui quali abbiamo costruito un periodo storico che, malgrado le morti, tragedie e bombe varie, tutti ricordiamo come un periodo globalmente felice. Eravamo felici perché ci sentivamo molto più uguali e simili di adesso. Certamente c’erano le invidie, i dissapori, le lotte partitiche e quant’altro, ma nessuno ha mai messo in dubbio il fatto che fossimo una stessa comunità. E, soprattutto, eravamo certi che avremmo avuto un futuro per il quale valeva la pena battersi. Un futuro diverso per ognuno di noi, ma il futuro c’era.

Adesso ci svegliamo ogni giorno di più pensando che ce lo stanno portando via, che ci siamo divisi in tantissimi gruppetti che alla fine restiamo soli come individui. Non abbiamo più un qualcosa che ci leghi, sia esso partito, movimento quant’altro, a larga scala. Ci rifugiamo nel particulare, e, per fortuna almeno lì, qualcosa cerchiamo di fare.

Ma attorno a noi avanza il fuoco distruttore. Il fatto che si arrivi a considerare come un fatto banale che nemmeno merita più attenzione, quello di bruciare quasi un migliaio di auto, preoccupa. Preoccupa perché il livello di indifferenza è arrivato a livelli altissimi. Cosi come la nostra indifferenza.

Non ho risposte da dare che vadano al di là del piccolo esempio che porto avanti col mio lavoro. Ma anche dentro la mia stessa organizzazione sento che l’afflato per gli altri, quella empatia che dovrebbe portarci a capire chi siano gli altri e intervenire sulle cause profonde di questi problemi e non restare solo e sempre in superficie, sta scomparendo.

Viviamo nel carpe diem perenne, senza renderci conto che non siamo più su una tavola orizzontale, ma abbiamo iniziato una lunga discesa verso un futuro che non mi piace. Sono preoccupato, e sto male, male dentro.

lunedì 17 luglio 2017

2017 L30: Arnaldur Indridason - Le lagon noir


Points, 2016

Reykjavík, 1979. Le corps d'un homme vient d'être repêché dans le lagon bleu, qui n'est pas encore aussi touristique qu'aujourd'hui. La victime serait tombée d'une très grande hauteur, peut-être a-t-elle été jetée d'un avion. En découvrant qu'il s'agit d'un ingénieur qui travaille à la base américaine de Keflavik, l'attention de la police se tourne vers de mystérieux vols secrets effectués entre le Groenland et l'Islande. Les autorités américaines ne sont pas prêtes à coopérer et font même tout ce qui est en leur pouvoir pour empêcher la police islandaise de faire son travail. Conscients des risques qu'ils prennent, Erlendur et Marion Briem poursuivent leur enquête avec l'aide d'un officier de la base. En parallèle, Erlendur travaille sur une vieille affaire non résolue : une jeune fille disparue sur le chemin de l'école, quarante ans plus tôt. Les témoins disent qu'elle sortait avec un garçon de Camp Knox, un quartier pauvre, où les gens vivent dans les baraquements abandonnés par les soldats américains après l'occupation de l'Islande. Le petit ami ne sera jamais retrouvé et les parents mourront sans savoir ce qu'il est advenu de leur fille. Erlendur est contacté par une tante qui lui demande de trouver la vérité. Erlendur a trente ans et vient de divorcer. Le personnage est plus jeune, plus ouvert et bien moins désillusionné et sombre que dans l'avenir que nous lui connaissons. Il travaille depuis peu à la brigade d'enquêtes criminelles sous les ordres de Marion Briem et ne cache pas ses positions contre la présence américaine sur le sol islandais. Indridason construit un univers particulier, un personnage littéraire de plus en plus complexe ; peu à peu le roman noir est absorbé par la littérature et la qualité de l'écriture.

Un classico. Né troppo avvincente né troppo al di sotto. Un puro Indridason, che aiuta a passare qualche momento simpatico, ricordando il livello di povertà che aveva l'Islanda e la solita necessità di vendersi al più forte, in questo caso gli americani, in cambio di quattro soldi per una enorme base militare. 

venerdì 14 luglio 2017

Ricordi d’infanzia


Giornata uggiosa qui a Kofangan, ne approfitto quindi per metter giù dei ricordi che mi girano in testa da alcuni giorni.

Avevo nove o dieci anni e, una volta arrivata la primavera inoltrata, quando si cominciava a sentire nell’aria l’estate che si avvicinava, era il momento di ripensare al nostro terreno di gioco. Già una volta avevamo dovuto cambiare posto, dato che ci avevano costruito sopra la fabbrica Cangini, uno che doveva fare agende o cose del genere. Avevamo ripiegato sul terreno delle Arti Grafiche, un pezzo di terra senza rete che ne impedisse l’accesso e che, contando sulla benevolenza del guardiano della fabbrica, padre di uno dei nostri amici, Paolo come me, ma milanista, potevamo usare per giocare a pallone.  

In teoria facevamo parte anche noi del quartiere Ferrovieri, per cui avremmo potuto usufruire del campo da calcio dietro la chiesa, ma in realtà la nostra zona era sempre stata a metà strada fra i Ferrovieri e Sant’Agostino (dove avevano un campo ancora migliore). Non eravamo ne carne ne pesce e quindi dovevamo arrangiarci. Gli altri campi erano già preda di altre bande che vivevano lì vicino per cui era una battaglia persa in partenza.

A primavera quindi bisognava occuparsi di andare a cercare i pali che sarebbero serviti per le porte e le traverse. Il gruppo di solito era composto da Sergio Rigo, Mirko “puntalina” Bernardotto e Roberto “Jek” Trentin. Armati di menaroto, andavano nei campi di Scalchi, laggiù verso il Retrone, dove adesso hanno fatto un parco molto bello. All’epoca erano solo i campi di Scalchi, nome mitico, mai visto in faccia. Una volta tornati con i pali, di fatto iniziavano lavori sul terreno. In qualche modo bisognava tagliare le erbacce e, come facile immaginare, i volontari non erano mai troppi. Ricordo che io prendevo un falcetto in garage da mio padre, e stando attento a non tagliarmi le gambe, andavo a fare la mia parte. Il terreno non era nemmeno tutto piano: una parte più bassa e umida nelle sere d’estate ospitava le ultime lucciole che abbia visto in vita mia. Quando pioveva si formava una specie di piccolo stagno, e Dio sa da dove, saltavano fuori girini e poi rane. Ma poi tutto seccava e quindi si poteva giocare tranquilli. La terra era dura, caderci sopra non era mai un piacere ma a quell’età quello era l’ultimo dei problemi.

Il più importante era quello di delimitare il terreno di gioco. Non era concepibile giocare senza aver definito cosa fosse dentro e cosa fosse fuori. La forma del terreno era grosos modo rettangolare, e quindi cercavamo di arrangiarci dando un senso geometrico che correggesse la sua forma iniziale. Fondamentale era poi definire il cerchio di centrocampo, o almeno un centro del campo da cui cominciare e le due aree di rigore. Usavamo del gesso che andavamo a prendere in una discarica in viale dell’Industria, dopo Cangini e prima di Stocchiero. Qualcuno buttava in quell’angolo sperduto vari avanzi di lavorazione e noi dentro a rimestare con le mani. Lo facesse oggi uno dei nostri figli li meneremmo col bastone. 

Delimitare il terreno era un rito che ci permetteva di entrare nella zona dei grandi, quelli che avevano un vero campo da calcio. Eravamo fieri di quel lavoro che doveva ripetersi ogni primavera. Anche le porte erano fatte un po’ a occhio, si parlava con quelli che sarebbero stati i portieri per chiedere loro se erano troppo grandi o se poteva andar bene così. Per le traverse era ancoraggio perché tanto eravamo piccoli e non ci saremmo mai arrivati, quindi le mettevamo un po’ alte, così, come capitava.

A quel punto restavano alcune casette da regolare: innanzitutto il pallone. Veri palloni di cuoi ce li sognavamo per cui ci accontentavamo con quello che trovavamo. Una volta mio fratello mi portò in regalo da un suo viaggio all’estero, un pallone di cuoi, con camera d’aria, una sciccheria. L’unico problema era che la fessura per introdurre la camera d’aria era molto grande e poi bisognava stringere con dei lacci di cuoi e poi ripassarli sotto per evitare che si riaprisse. Bisognava stare attenti a non colpirei testa proprio lì, perché di restava il marchio delle stringhe per una settimana. Il pallone era anche pesante, cuoio d’altri tempi, per cui non potevamo certo tirare delle “fucilate” come in sogno ci sarebbe piaciuto.
Risolto anche questo aspetto, bisognava far le squadre. Eravamo in quella fascia d’età di passaggio, dalla giovinezza più totale (quando bastava buttar lì un pallone e tutti gl correvano dietro, essendo quello lo scopo: arrivarci vicino e dare un calcio per mandarlo avanti, non importa dove)alla fase di quasi adulto quando il giocare a calcio già era diventato quasi iù un gioco ma una prova dove si doveva battere l’altra squadra. Cioè quando eravamo due gruppi opposti, e cominciavi a tifare o per l’uno o per l’altro.

Noi eravamo lì in mezzo. Le squadre si facevano e disfacevano all’inizio e alla fine di ogni partita. Due “capitani” più o meno autoproclamati facevano a testa o croce e cominciavano a scegliere i compagni di gioco per quella partita. Ovviamente tutti cercavano di accaparrarsi i migliori, lasciando le scartine per ultime. Ivano Trentin, detto “bain” (come i pallini da caccia per quanto era veloce) era una delle prede più ambite. Ma anche mio cugino Giorgio Taldo, solido difensore con propensioni all’attacco. Mirko Bernardotto, detto “puntalina”, perché tirava spesso di punta, cosa assolutamente riprovevole, faceva parte delle scartine. Paolo Centofante, figlio del guardiano delle Arti Grafiche, era invece un’ala molto veloce, quasi come Ivano, per cui anche lui era tra gli ambiti. Sergio Rigo era una roccia che era meglio avere nella tua squadra che contro. Ogni tanto venivano anche i cugini Fin, che abitavano di fronte al campo. Erano più grandi di noi per cui avevano già altri interessi da curare, ma per la voglia di tirar quattro calci, ogni tanto capitavano. Giancarlo era il peggiore dei due, nonni sapeva mai se valeva la pena passargli la palla o far finta di non vederlo. Caio invece sembrava un signore di passaggio, ogni tanto ci metteva la sua buona volontà e allora ti rendevi conto che non era un buono a nulla, ma poi mollava tutto e girava per il campo camminando come avesse paura di sudare. Fu lui a darmi un soprannome che pochi ricordano: Faso Tuto Mi. Questo capitò durante una partita quando invece di passargli la palla e magari segnare, decisi di voler scartare mezzo mondo, neanche fossi stato Vendrame, e lui da lontano mi chiamò così: ciò, fato tuto mì, ma la vuto pasare quea bala? Non la passai e me la feci fregare miseramente. 

Non importava molto chi vincesse o chi perdesse, ma lo stare assieme. Non c’era molta cattiveria, anche se ovviamente, ognuno voleva vincere. Ma una volta finita la partita, non restava nessuna animosità per il semplice fatto che era chiaro a tutti noi che eravamo un gruppo solo, per cui non aveva nessun senso litigare fra di noi. Una comunità, ecco cosa eravamo, senza saperlo. Una comunità aperta dove si accettavano anche i faresti, tipo Zanetti, “el mato”. Non sapeva colpire il pallone nemmeno per sbaglio, il suo regno erano le moto da cross e la sua passione fare avanti e indietro da Sant’Agostino fino ai Ferrovieri, se ci arrivava, su una ruota sola. Lo sentivi arrivare da lontano, testa sempre girata da una parte per sentire meglio il rombo del motore, a tutto gas ruota davanti per aria. El mato Zanetti, raramente, ma capitava anche lui. Poi andò a sbattere contro un albero e la storia finì lì.

Non avevamo arbitri, perché non se ne vedeva l’utilità. Nessuno osava far finta di cadere, un po’ alla Chiarugi, quell’attaccante della Fiorentina che un paio d’anni prima aveva anche vinto il campionato, con lui che appena arriva dentro l’area di rigore bastava un soffio di vento e cadeva sempre invocando rigori a ogni piè sospinto. Nessuno di noi avrebbe osato fare il Chiarugi, perché la sanzione dell’esclusione sociale sarebbe stata automatica. Si poteva essere bravi o buoni a nulla, il gioco era fatto per giocare e non per battere gli altri. Quindi niente imbrogli. Poi col tempo saremmo cresciuti anche noi, e tutto questo rimase un ricordo che era sparito in qualche parte della mia memoria.

Non avevamo spettatori, forse perché eravamo troppo brocchi, o perché non avevamo le magliette che rappresentassero una squadra contro l’altra. Per quello bisognava andare ai Ferrovieri la domenica mattina, quando giocava la Ronzani e, se erano i più giovani a giocare, rilasciavano entrare senza pagare. Poi quando scendeva in campo la Terza Categoria, che per noi era come la serie A, allora bisognava pagare, e noi sparivamo tutti, non avendo mai un soldo in tasca. Nella Ronzani ci giocava mio cugino, che poi andò anche a fare un provino col Varese, che allora giocava in serie A, e lo presero anche. Credo avesse quindici anni, insomma dovevamo essere attorno al 1974. Sfortuna volle che quell’estate la Ronzani fosse invitata a un torneo in Germania, e ovviamente ci andò anche lui. I tedeschi erano dei duri, e lui si fratturò un menisco. All’epoca questo era un segnale di morte. I tempi di recupero dopo l’intervento, erano lunghissimi, praticamente restò un anno senza giocare. Partì lo stesso per Varese, dove faceva scuola e studio, ma non riuscì mai a recuperare realmente e venne scartato. Tornò a casa e finì a giocare nello Zané, senza gloria ma senza altre rotture.

La storia delle magliette era un problema che si cercava di risolvere a livello individuale. Quando ero piccolo, penso siano stati i miei genitori a regalarmi la maglietta dell’Inter, col numero di Mazzola. Poi Paolo Centofante arrivò con una maglia del Milan fiammante nuova, ma eravamo già verso i dodici-tredici anni. All’epoca, non potendo più usare la maglietta dell’Inter, troppo piccola, recuperai una maglia nera che trovai a casa e ci feci sopra, con un nastro che attaccai io stesso con ago e filo, il numero uno. Non so dove trovai anche una stella e la misi davanti sul cuore. L’Inter aveva vinto il campionato e il suo portiere era Lido Vieri, da Piombino. Non avendo altre magliette, decisi quindi che quell’anno avrei fato il portiere. Non per passione, solo perché dovevo allinearmi con la maglia che avevo.

L’anno successivo, di ritorno dall’Inghilterra, mio fratello mi portò una maglia che disse essere quella del Manchester United. Non essendo lui un specialista del calcio e non essendo mai stato io, e i miei amici, in Inghilterra ci credemmo tutti. Il dubbio venne a un tipo che giocava a rugby e che trovavate i laccetti che avevo davanti, nonché le fasce colorate orizzontai e non verticali, facessero pensare piuttosto a una maglia da rugby e non da calcio. La cosa non mi importò un fico secco. Disegnai il numero undici, forse in ricordo di Mariolino Corso, vai a sapere, dato che non conoscevo nessun giocatore inglese a parte Bobby Charlton, e avanti a correre. 

Dicevo prima del senso di comunità allargata che avevamo. C’erano un paio di personaggi, un po’ forestieri per la nostra zona, uno veniva quasi dai Ferrovieri, e l’altro addirittura da San Giorgio in Gogna (quasi l’altro mondo a quell’epoca), che si univano ogni tanto a giocare con noi. Il primo, Gianni Fava, era un po’ ritardato; ragazzo gentile, più grande di noi, non faceva del male a una mosca, solo che la sua stazza muscolare era parecchio più sviluppata e quindi bisognava ricordargli di non esagerare, perché si andava sempre a finire al tappeto quando si cercava di prendergli la palla. Gianni era figlio di un operaio della Olivotto, dove lavorava anche mio padre. Le proteine non erano mai state troppe in famiglia, e quindi vedendo il padre si intuiva da dove fosse venuto il figlio. Un giorno il pane decise di colorarsi i capelli. Capitava ogni tanto che agli uomini venisse questo ghiribizzo. Di solito però si andava su colori semplici, marrone o nero, il tutto per coprire i primi grigi all’orizzonte. Lui scelse, va a capire perché, un color arancio carota. Mio padre lo battezzò subito: Nuvola Rossa. E Gianni Fava diventò così il figlio di Nuvola Rossa.

L’altro tipo era più preoccupante. Giravano voci su di lui, che fosse un “culattone”, cosa che, all’epoca, racchiudeva l’insieme di tutte le nefandezze possibili. Come era abbastanza comune in quegli anni, anche lui aveva il suo soprannome: Gianni “Ossi”, mai saputo il perché. Gianni Ossi aveva sempre una borsa con lui, dove teneva probabilmente giornaletti “sporchi” da far vedere ai ragazzi. Va detto che io non ho mai sentito nessun caso di denuncia da parte di persone del quartiere, probabilmente essendo un soggetto ai margini, poveraccio senza lavoro probabilmente e forse di tendenza omosessuale, questo faceva di lui un soggetto da evitare.

Alcune volte vennero a giocare anche altri ragazzi dei Ferrovieri, probabilmente invitati da mio cugino. Uno, Gianni Mina, andò poi a finire a fare un provino alla Spal, allora in serie B. L’altro era Paolo Quaresima che però non era un granché a calcio, la sua passione essendo il basket. Poi, essendo più grande d un paio d’anni, aveva anche adocchiato una ragazza che abitava dopo la una nostra e prima di Santagostino, la “Cia" Giaretta, che faceva furore col suo Fantichino, sigaretta in bocca e occhiali da sole. 

Forse per colpa di Quaresima, ma anch’io provai a darmi alla pallacanestro come dicevamo. Gigi Lumasini e Mirko Milan erano le due torri e pivot, Quaresima, i due Cattin e Guglielmini gli altri pezzi forti e poi, per completare, qualche ragazzetto alle prime armi come il sottoscritto. Non feci una gran carriera, solo due partite. In entrambi riuscii fare due canestri, e uno dei Cattin, il più rabbioso, mi soprannominò “cecchino”. Ero tutto contento e avrei tanto voluto continuare, ma la seconda partita andammo a farla in trasferta al Mercato Nuovo: decisione presa all’ultimo minuto senza possibilità di avvisare casa. Tornai più tardi del solito, io felice per i due canestri, mio padre molto meno. Il consiglio fu di cambiare sport.


Non era facile all’epoca, perché a parte il calcio ufficiale, via Ronzani, che però passava per una selezione che non avrei mai superato, e tolta la pallacanestro, non c’era altro. Beh, c’erano cinque ragazzi che volevano metter su una squadra di pallavolo, a cui mancava il sesto. Ritrovai in quel gruppetto il mio vecchio amico Zorro, poi un paio di colleghi del “Canova”, la scuola di geometri che avevo iniziato, Icio Uraghi, altro compagno d’infanzia e non ricordo chi fosse il quinto. Ogni tanto veniva giocare con noi il cugino di Zorro, molto bravo, però faceva parte di un altro quartiere e di un’altra squadra, preci se volevamo esistere, dovevamo essere in sei anche noi. E così fu. Durante un 5-6 anni giocai a volley, non più pallavolo, ma già volley-ball: arrivammo anche ad avere uno sponsor, un nome ufficiale e maglietta e pantaloni: l’Argine volley-ball era nato, a fianco del più famoso e quotato Argine Basket. Ma lì stavamo già diventando grandi, e cominciavo a perdere di vista Mirko “puntalina", Ivano “bain”, Jek e tutti gli altri.