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giovedì 28 luglio 2016

Papa Francesco: siamo in guerra, ma non di religione

Magari a forza di dirlo qualcuno anche lo ascolterá. Proprio in questi giorni sto cominciando ad occuparmi di una delle tante crisi in giro per il mondo, questa riguarda illago Ciad e Boko Haram e le milionate di displaced people che hanno dovuto fuggire da casa loro. Essendo la gran maggioranza dentro il territorio della Nigeria, é da lí che dovrebbero partire le operazioni.

Giusto per ricordare a chi non avesse seguito i fatti, quella è la zona dove sono state rapite le studentesse (ricorderete la campagna anche di Michelle Obama con lo slogan Bring Back Our Girls...). Allora tutto lascia pensare che siamo al fronte della guerra con Boko Haram, e questo probabilmente spiega l'interesse della comunità internazionale a fare qualcosa adesso.

Siccome sono un tipo curioso, e con alcune fisse in testa, sono andato a cercare un po'nei siti del web, francesi, inglesi, italiani (tipo Nigrizia per esempio o APM...). Salta fuori una storia già sentita, attorno alla quale si è fatto il vuoto politico da parte delle autorità nigeriane già da parecchi anni. In estrema sintesi, gli effetti del riscaldamento globale sta accelerando i processi di desertificazione nell'Africa sub-sahariana e questo ha effetti concreti sulla riduzione delle disponibilità di pascoli per i pastori (Hausa in inglese, Peul per i francofoni). Questi sono allora obbligati a scendere verso sud, alla ricerca di nuove terre, e ovviamente vanno a finire nelle zone coltivate da altra gente, contadini di diversa origine etnica ed anche religiosa.

I morti dovuti agli scontri fra pastori e contadini si contano già a centinaia, se non addirittura migliaia come riportava La Repubblica nel 2012 (http://www.repubblica.it/ultimora/24ore/nigeria-strage-contadini-oltre-1000-massacrati-da-pastori/news-dettaglio/4131294). Il sito di Nigrizia riportava altre centiaia di morti pochi mesi fa (http://www.nigrizia.it/notizia/nigeria-centinaia-di-morti-in-scontri-etnici-nel-benue-buhari-avvia-le-indagini). Insomma, un conflitto che nasce per ragioni legate alla rarefazione delle risorse naturali, incrementato da una governanza debolissima (un'amica antropologa francese mi diceva già parecchi anni fa che la Nigeria, di fatto, era una finzione di Stato, dato che oramai ognuno operava per conto suo), incapace di gestire e di intervenire su questi problemi, una comunità internazionale cieca di fronte alle radici dei problemi e che comincia a mobilizzarsi solo quando la "minaccia" arriva acasa nostra. Da questo punto di vista dovremmo dire "per fortuna" che il conflitto sia visto come un conflitto religioso, dato che questo sta obbligando la comunità internazionale a muoversi, ma poi ti vien subito da dire: occhio! Il problema vero è un altro.
Ieri ho provato a proporre ai miei superiori che trovino il coraggio per dire chiaro e forte di cosa si tratta, un conflitto che va avanti da un decennio almeno, e che quindi troviamo, noi nazioni unite, il coraggio per metterci a lavorare sulla questione delle risorse naturali, dalla desertificazione alla convivenza fra pasdtori e agricoltori, nel rispetto mutuo delle parti. Sarà molto difficile, alcuni penseranno impossibile, ma se lasciamo che i problemi alla base restino irrisolti, poi non possiamo lamentarci che queste situazioni marciscano e diventino ingestibili a scala planetaria.

A seguire.

2016 L33: Jean-Christophe Rufin - Globalia

Edizioni e.o 2016
Magistralmente scritto da Jean-Christophe Rufin, autore dell’Uomo dei sogni, nella migliore tradizione della fantascienza, il libro ha diritto a un posto sul podio insieme ai classici del genere quali 1984 di Orwell e Il mondo nuovo di Huxley. Avvincente, ironico, amaro, sognante.
In un futuro prossimo, così prossimo da apparirci verosimile in maniera preoccupante, il pianeta è un unico grande stato in cui vige la democrazia perfetta: Globalia. A Globalia non c’è più povertà, non ci sono guerre, c’è totale libertà di opinione, la medicina ha fatto tali progressi che la vita umana sfida i secoli e la tecnologia è talmente progredita che non c’è più nemmeno il brutto tempo! È come se Globalia si fosse isolata dai problemi che affliggono il mondo ordinario. E l’isolamento è concreto, oltre che metaforico, perché i suoi territori sono protetti da gigantesche cupole di vetro che la separano da tutto il resto. Il resto sono le non-zone, i territori che Globalia non ha ritenuto opportuno inglobare e che, lasciati a se stessi e precipitati nel degrado, sono abitati da un’umanità regredita alla barbarie, un’umanità violenta, diffidente, brutale.
A tenere le fila di un sistema che apparentemente tutela l’individuo, ma in realtà lo controlla in maniera ossessiva, è un ristretto pool di magnati ultracentenari guidati da Ron Altman, da cui dipendono tutte le fonti di energia. A sfidare quella finta perfezione penseranno Baikal e Kate, due dei rarissimi giovani rimasti in quel mondo popolato da vegliardi, con un avventuroso tentativo di evasione che li porterà a confrontarsi direttamente con Ron Altman in una rocambolesca successione di colpi di scena.

Un po'difficile entrarci all'inizio perché non é il Rufin che ti aspetti di solito, ma poi ti prende... la fine mi lascia un po' perplesso a dire il vero... comunque resta un libro da leggere... non il suo migliore ma interessante

lunedì 25 luglio 2016

Tana liberi tutti


Ilvo Diamanti sulla Repubblica di oggi ricorda il lungo elenco di attentati che hanno toccato vari paesi europei (in particolare Francia e Germania) negli ultimi due anni. Manchiamo ancora noi italiani, ma é probabile che sia solo questione di tempo. Se a quella lista aggiungiamo la ancor più lunga lista di attentati compiuti lungo la linea del fronte della guerra contro gli islamisti di varia fede, avremmo bisogno di molte più pagine.

La questione per1o non è solo quella di allarmarci e sensibilizzarci, ma è quella di cercar di capire da dove proviene tutto ciò e che scenari abbiamo davanti a noi.

Torno quindi sul tema, con un breve riassunto storico di quei fatti che, a mio avviso, hanno contribuito a creare la situazione nella quale ci troviamo e dalla quale non so bene come ne usciremo.
I punti comuni degli attentati e delle guerre in corso nella dorsale di fuoco, riguardano da un lato la fragilità e a volte non esistenza dello Stato e delle sue istituzioni e, più in generale, di una governanza debolisima anche fuori dai confini statali. A questo si aggiunge l’immagine proiettata dal nord del mondo di un modello di società molto distante dai canoni locali, un modello dove a fianco di alcuni spaz privilegiati di diritti individuali riconosciuti, resta un margine enrome tra i valori promossi e le azioni concretamente portate avanti. Da un lato noi “esportiamo” democrazia, libertà, fraternità e uguaglianza, dall’altro, in pratica, portiamo avanti un dominio sempre più incontrastato delle forze di mercato private, non sottoposte a nessun controllo, un accaparramento delle risorse naturali degli altri degno del Far West e uno spregio totale per qualsiasi cultura diversa dalla nostra. Il risultato è una percezione crescente in vasti strati della popolazione che da parte nostra sia in atto un vero e proprio attacco al Sud del mondo e questo venga portato avanti da un vasto magma di “infedeli” e miscredenti, tutti confusi nello stesso calderone di essere nordisti.

Visto dal sud, non importa molto che la concentrazione del potere stia accelerando in mano a conglomerati finanziari di sempre più incerta proprietà, estesisi oramai ben al di là dei tradizionali confini degli stati nazionali, capaci di dettare le agende mondiali su quasi ogni settore e riducendo, se non annulando, tutti i diritti che decenni di lotte avevano portato alla nascita e crescita di una grossa classe media che, di fatto, ha fatto la gran differenza fra il passato e il presente. Che queste dinamiche di imporemineto siano all’opera anche al Nord, con partiti politici oramai tutti infeodati allo stesso credo monetarista e neo liberista, non interessa nella percezione semplificata che se ne ha dal sud.
L’inizio di questo percorso può ragionevolteme essere posto nel momento in cui gli americani hanno rotto il sistema del Gold Standard (1969), rompendo il sistema di parità monetarie che di fatto impediva l’esistenza dell’inflazione e che assicurava una stabilità certa a quei paesi, occidentali, ancorati al dollaro. Sul perchè gli americani lo abbiano fatto potremmo disquisire un bel po’. Alcuni pensano che la progressiva riduzione del tasso di profitto degli investimenti, dal dopoguerra agli inizi anni sessanta, fosse stata la vera ragione. Da quel momento si inizia la guerra del “ognuno per sè”, con monete in libertà a cercare di imparare come navigare nel mare magnum dell’economia mondiale, e col dollaro che stabiliva le regole, per cui alla fine era come quel detto calcistico per cui il calcio é uno sport dove giocano due squadre e alla fine vince la Germania. La rottura dell’equilibrio monetario ha portato anche alla nascita dell’inflazione come l’abbiamo conosciuta nei primio anni settanta, erroneamente attribuita ai paesi arabi, quando in realtà era il frutto della decisione americana del 1969.

Eravamo all’apogeo della supremazia americana. Tutti noi, indipendentemente dalle nostre visioni politiche, siamo cresciuti con quel sogno. Che però ha iniziato a sfilacciarsi. Quello che non capivamo da piccoli, quando Nixon firmava quel decreto di uscita dagli accordi di Bretton Woods, era che un’altra battaglia era stata dichiarata, che sarebbe diventata palese una decinna d’anni dopo. E cioè il progressivo rimpiazzo di una visione economica centrata sullo Stato e le sue istituzioni, con una centrata quasi esclusivamente sul mercato, il nuovo Dio che doveva rimpiazzare tutto il resto. Con l’arrivo di Reagan e della Dama di Ferro, nel 1980, si accellera questa trasformazione epocale che, per molti paesi africani, ancora fragilmente alla ricerca di un loro cammino post-indipendenza, significò l’inizio della fine. La mannaia dei Programmi di Aggiustamento Strutturali cadde su di loro, con ordini perentori di tagliare le spese pubbliche, nell’educazione, la salute e i sussidi all’agricoltura contadina.
Il periodo degli anni 80’in America Latina é diventato conosciuto come quello della “decada perdida”, ma lo stesso si può dire dell’Africa (anche se non si limitò a un decennio), e lo stesso toccò al Giappone nel decennio successivo. Anche noi europei entrammo nei periodi di austerità, e da lì non ne siamo più usciti.

L’America trionfante vagheggiava di un Nuovo Ordine Economico (Bush Senior) dopo aver spazzato via l’Unione Sovietica. Fukuyama teorizzava addirittura la fine della storia. Invece quello che stava succedendo era l’inizio di un mondo nuovo, ma non come se lo aspettavano gli americani.
La guerra di liberazione dell’Afghanistan, se da un lato era servita per eliminare l’influenza russa, aveva mostrato alle forze religiose disperse nella regione che, uniti, potevano cambiare i destini di paesi interi. Nello stesso periodo in Algeria gli islamisti radicali, riuniti sotto la sigla del GIA, arrivarono al potere democraticamente. Il primo segnale non fu percepito nelle nostre capitali, il secondo sì. Venne data carta bianca all’esercito algerino per far partire una guerra civile interna che fece almeno 20,000 morti, pur di “estirpare” il pericolo islamista.

Sotto le ceneri per1o il fuoco covava. I regimi al potere nei paesi africani avevano sempre meno margini di manovra economica per stabilizzare le loro dittature. Dovettero anche far finta di diventare democratici quando, sul finire degli anni novanta, gli occidentali decisero di dar loro una bella ripulitura di facciata. Elezioni dappertutto, ma sempre le stesse facce a vincere. Passata la febbre democratica, restavano sistemi di governanza in via di disfacimento, e un fuoco che cominciava a covare, alimentato dall’unico punto comune, nella diversità culturale, che li teneva tutti assieme: la religione.

Settembre 2001 segna un punto di svolta chiave: il Vietnam aveva mostrato che si poteva sconfiggere l’America sul terreno, adesso invece si dimostra che si può portare l’attacco al cuore del nemico. In termini di galvanizzazione delle truppe, l’effetto del 9-11 si produrrà ancora per lunghi anni. Lo Stato americano, oramai sempre più sotto il controllo della Finanza, non riesce a trovare delle risposte adeguate, banalmente perchè gli strumenti culturali per capire cosa stia succedendo non vengono usati, dato che non interessano una visione sempre più verticistica e tendente alla normalizzazione del pensiero unico.

L’individuo oramai la fa da padrone, nella teoria; in realtà la frammentazione del corpo sociale rende tutti i singoli più fragili e più facili da sottomettere, ma nello stesso tempo rende sempre più difficile una risposta di tipo “corporate”.

Le strampalate idee di esportare la democrazia, accompagnate da bombardamenti e vittime collaterali, nonchè una corruzione crescente nei ranghi politici del nord rendono sempre meno appetibile il prodotto che si vuol vendere al sud. Un prodotto che suona falso, che più che aiutare a risolvere problemi sembra generarne ogni giorno di più e soprattutto un prodott che è mille miglia lontano dagli standard culturali in voga al sud. Per cui, invece di accompagnarne una lenta evoluzione verso standard di diritti più alti, provoca l’esatto contrario: l’esempio del nord è un esempio da non seguire perchè rompe la società in tanti individui, per cui mina la tradizione e non la sostituisce con nulla di migliore. Se almeno questo “modello” permettesse una vita agiata nel Nord, creando lavoro per tutti, allora magari avrebbe qualche possibilità di sopravvivere. Ma non è più cosí. La continua rivoluzione tecnologica porta a una fase avanzata di distruzione di posti di lavoro, quindi con tassi di disoccupazione giovanile e non, altissimi, e con gli unici lavori che restao, quelli più umili, che vengono coperti da frotte di immigrati, clandestini o meno, dato che nesusno dei nostri si abbassa più a fare quei lavori.

Ed eccoci al giorno d’oggi. Dopo aver visto che gli attentati si possono fare anche a casa del padrone, diventa moneta corrente organizzarli anche nei paesi satelliti, giusto per portare la sfida e l’insicurezza anche da noi. Le lotte di supremazia al sud fra i vari movimenti, Al Qaida, Isis, Boko Haram e quant’altro, incitano a farne sempre di più di attentati, per mostrare chi sia il migliore nel compiere queste efferatezze. Adesso poi che nel mondo del mercato libero e virtuale, tutto si può trovare, basta un nulla per far s1i che una persona leggermente depressa e/o squilibrata, si metta in testa di farsi una bombetta in casa e vada a farsi esplodere. Tanto il valore della vita umana è sceso a livelli cos1i bassi che il nostro stupore di fronte a tali comportamenti, il nostro ragionamento che “ma non si rendono conto che vanno incontro alla morte certa?” non li puó toccare, dato che oramai non c’é nulla che li faccia sognare.

Ricordo durante la campagna elettorale per le presidenziali francesi del 1995, vinte da Chirac, una serata dei Guignols de l’Info dove il suo Primo Ministro, Eduard Balladur, appena dichiaratosi candidato contro Chirac, veniva interpellato, nella stessa trasmissione di pupazzetti, da un esemplare di teppista di periferia, che gli chiedeva: Fait moi rever! Fammi sognare... E Balladur rispondeva, inorridto di fronte a un personaggio uscito dal filmdi Scola Brutti... Mon Dieu (Mio Dio). L’incomunicabilità era arrivata al culmine. Chirac, vecchia volpe politica, ne fece il suo cavallo di battaglia, insistendo sulla Frattura Sociale. Lo votarono in tanti perchè sapeva icantare la gente, quella volta toccando ua corda sensibile già allora. Poi non fece assolutamente nulla, dato che anche lui era espressione di quell’elite che si giovava della frattura.

Oggi la frattura è evidente in tantissimi paesi, e nessuno più ci fa sognare (a parte il Papa forse).
Non abbiamo nulla da offrire ai nostri giovani, e ovviamente ancor meno ai giovani del sud. Questo perchè oramai non comandiamo più nemmeno a casa nostra, ma non per colpa degli immigrati, come tanti sempliciotti credono, ma perchè oramai comandano le banche e le istituzioni che loro hanno creato. Comanda Zonin a Vicenza, e ne mette 120mila sul lastrico. Comanda Draghi a Francoforte, e comandano i burattini che abbiamo nei governi, il cui unico discorso continua a essere: salviamo le banche.

Questo è il cammino sicuro per più attentati, più stragi e più immigrati. Se non cominciamo a cambiare modello culturale, e Dio sa se di tempo ce ne vorrà, non riusciremo più a riequilibrare questo pianeta. Ma bisogna incominciare, e l’inizio deve essere il capire cosa sta succedendo e il perchè delle cose, altrimenti è tempo perso.

Lo scenario peggiore comincia ad avverarsi: tana, liberi tutti, ognuno per sè e dio contro tutti. Uno si alza male la mattina, se la prende col mondo e va a farsi saltare...






lunedì 18 luglio 2016

2016 L32: Giorgio Faletti - Tre atti e due tempi

Einaudi

Come ogni gioco che si rispetti, anche il calcio ha la sua parte di finzione, le sue star, i suoi comprimari, le sue sceneggiature e le sue scenografie. Ha scaramanzie, funambolismi, colpi bassi, canaglie che si aggirano dietro le quinte, grossi interessi in ballo. Ma soprattutto ha un pubblico a cui di tutto questo non interessa nulla, migliaia di persone sugli spalti e in tribuna disposte a gridare, a imprecare e a giurare che, per quei novanta minuti più recupero, è tutto vero. Ognuno seduto con il fiato sospeso a vedere se finalmente quella benedetta palla si infila in quella maledetta rete. Così, a volte, arriva una domenica in cui si decidono le sorti del campionato, una domenica in cui si gioca la partita che vale una stagione, una domenica in cui le bandiere colorate sono pronte a sventolare in segno di trionfo o a sbiadirsi di bianco in segno di resa. Che accade allora, se proprio quella domenica, a pochi minuti dal fischio d'inizio di quella partita, il mister non si trova?

Semplice semplice, una storia lieve, ma secondo me può fare di meglio.

2016 L31: Marc Elsberg - Black-Out

Livre de Poche 2016

Et si le monde que nous connaissons, dépendant de l’électricité, était sur le point de disparaître ? Thriller européen brillamment mené, Black-out plonge le lecteur dans une réalité qui pourrait être demain la nôtre.

Par une froide soirée d’hiver, les lumières de Milan s’éteignent. Puis c’est au tour de la Suède, de l’Allemagne, de la France… : partout en Europe, le réseau électrique est en train de lâcher. Manzano, ex-hacker italien, croit savoir qui est responsable et cherche désespérément à en informer les autorités. Un flic français d’Europol, Bollard, se décide enfin à l’écouter, mais piégé par des d’e-mails compromettants, Manzano devient le suspect n° 1. Face à un adversaire aussi rusé qu’'invisible, alors que l' ’Europe s'’enfonce dans l'’obscurité et que plusieurs centrales nucléaires menacent la vie de millions d’êtres humains, commence pour Manzano une véritable course contre la montre.


Bel libro, consigliato, candidato alla Top

giovedì 7 luglio 2016

Paz en Colombia




Hace unos pocos días se ha firmado un cese el fuego bilateral y definitivo entre el gobierno del Presidente  Santos y las FARC (http://elpais.com/tag/proceso_paz_colombia/a), en presencia de un grupo de Excelencias que debían estar allí para testimoniar que también en Colombia algo se mueve. 

Estar en la foto era igualmente importante, aun cuando nadie sepa de verdad lo que pasará en la práctica con estos acuerdos de paz (fecha prevista para la firma del acuerdo de paz es el próximo 20 de julio). Y esto por varias razones, empezando por la falta de los detalles prácticos, pasando por el aún abierto conflicto con el ELN, para no hablar de los interminables e (¿) inderrotables (¿) para-narcos que, según dicen conocidos periodistas colombianos, (http://www.semana.com/opinion/articulo/antonio-caballero-cese-al-fuego-que-falta-para-la-paz/479155) todavía ocupan gran parte del país rural.

El camino (o la apuesta, podríamos decir) institucional decidido por el presidente Santos se parece un poco a las aventuras europeas de estos meses: el Brexit por un lado y el referendo constitucional en Italia en el próximo otoño. En el primer caso (del Brexit), la hipótesis de Cameron fue totalmente derrotada en las urnas, y en el segundo caso (el de Italia), la hipótesis deseo del Primer Ministro que sus propuestas de reformas constitucionales (acompañada por una nueva Ley electoral) sean fácilmente aprobadas por los votantes, así dándole un poder político mucho más fuerte de los demás actores, parece cada día más frágil y el riesgo de perder la votación y así deber salir del escenario político, tal como lo prometió el Premier Renzi, cada día más posible. El Presidente Santos ha decidido ir por un plebiscito en el cual los colombianos y colombianas deberían votar sobre unos acuerdos de paz cuyos detalles serán conocidos oficialmente solo un mes antes de la votación (http://www.semana.com/opinion/articulo/maria-jimena-duzan-plebiscito-por-la-paz-que-pasa-si-se-pierde/480167). Considerando el nivel educacional, y el bombardeo de los sectores más extremistas en contra de estos acuerdos, no es ciencia ficción considerar que el Presidente podría perder el voto, y allí nadie sabe lo que pasará. .

Sin embargo, mis preocupaciones van más allá de eso. El resultado más evidente de estas tantas décadas de conflicto ha sido, a la par de las decenas de miles de muertos, un número difícil de calcular pero que se estima en más de cinco millones, de desplazados internos (muchos de ellos hacia las grandes ciudades, otros hacia varios lugares distintos, incluyendo los países vecinos tipo Ecuador donde se fueron a trabajar en el campo de forma muy precaria). Los escenarios futuros se dividen entre los que piensan que estas familias volverán al campo, y que para eso haya que preparar condiciones de vida digna, y los que se preguntan si realmente ellos se irán, después de haber sobrevivido durante todo esos años en las periferias degradadas de las ciudades.

Personalmente pienso que no habrá un retorno masivo, y esto por varias razones: una de ellas es la aún débil institucionalidad pública que levanta muchas cuestiones sobre la democraticidad de las relaciones sociales en las zonas de retorno. No olvidemos que los acuerdos de paz son sólo con las FARC y no con todos los insurgentes (el ELN sigue en armas y hay quien opina que su estrategia podría ser de ir ocupando las zonas dejadas por las FARC a raíz del acuerdo para continuar los mismos tráficos ilícitos), ni se puede decir que los paramilitares y narcos hayan realmente dejado de existir.  Pensar que sea el ejército el garante de la institucionalidad me parece muy frágil. Como lo cuenta la abogada Claudia Erazo, de la Corporación Jurídica Yara Castro, en su entrevista sobre cómo va el programa de restitución de tierras, las amenazas por parte del auto llamado Ejercito Anti-Restitución (detrás del cual está los grandes intereses económicos del país) siguen, así como la ausencia de garantías.

Además, no hay una visión sistémica de lo que signifique volver a insertarse de vuelta en territorios abandonados (por la fuerza) muchos años antes y en donde hoy en día pueden estar viviendo otras familias, que a su vez se han escapado de otros lugares aún más peligrosos. Esto es lo que está ocurriendo en la zona de Santa Marta, como me lo contó una vieja amiga y luchadora del tema tierra de los últimos treinta años: hubo familias que querían volver, dentro del programa de restitución de tierra del gobierno; sin embargo sus tierras habían sido ocupadas (o compradas) por otras familias que habían huido de zonas más peligrosas. Resultado: un aumento de los conflictos, con las instituciones del Estado sin capacidad de controlar un espacio que, tampoco debemos olvidar, es inmenso y de difícil tránsito en muchas partes.

Hace unos años le envíe una nota al entonces ministro de tierra, contando con su asesor más cercano con quien nos conocíamos desde mis primeras misiones a Colombia, cuando desarrollamos una propuesta de abordaje sobre el tema tierra basada en palabras de orden como: diálogo, negociación y concertación. La propuesta era muy sencilla, y preveía ir reconstruyendo tejido social en los territorios, empezando por zonas menos problemáticas, solicitando un acompañamiento de las Naciones Unidas para alentar lazos de territorialidad no limitados solamente a la dimensión productiva. Facilitar una reinserción social negociada y concertada, para no olvidar que no todos los actores débiles se fueron, y que algunos se quedaron y que hoy en día podrían estar preocupados con la llegada de los “retornados”, familias que decidieron irse décadas atrás, y que de repente nadie más conoce en la zona, lo que despierta rencores, miedo y percepciones negativas.

El punto no es darle solo unas hectáreas, una casita, una vaquita y un poco de semillas a los retornados; esta no es una nueva colonización, sino un retorno en zona de pos-guerra todavía no pacificada. La experiencia nos enseña que sin un dialogo largo y detenido con los que siguen viviendo allí, incluyendo también familias de esos grupos de pobres locales, no habrá un retorno a la paz. Habrá un retorno parcial que, a la primera oportunidad, pasará a ser conflictivo una vez más.

Mi opinión es que la mayoría de las familias se quedarán en donde están, aún sea poco lo que tengan, para no perder ese poco, construido a lo largo de tantos esfuerzos. A lo mejor, dependiendo de las condiciones del “retorno”, enviarán unos de los miembros de la familia, para ver lo que pasa allá… ver si hay condiciones para que alguien del núcleo familiar pueda instalarse o, por lo menos, hacer fructificar lo que el gobierno promete, o sea eventualmente vendiendo lo poco de tierra que podrían recibir para usar esta plata en las periferias donde viven. Y es allí donde la cuestión del empleo vuelve a ser crítica. Que se trate de empleo en las zonas rurales, o empleo urbano, las necesidades numéricas serían muy grandes para pacificar realmente el país. Sin embargo, este no ha sido un conflicto donde se han destruidos ciudades enteras que necesiten ser reconstruidas, así que la fuerza motriz del sector de la construcción, que siempre ha servido en las posguerras como elemento clave para darle trabajo a la gente, no podrá jugar un papel importante. Peor aún, estamos en plena transformación del sector agro-industrial para mejorar su eficiencia económica para exportar, y esto significa una tendencia de aumento del capital y reducción de la mano de obra. Donde se podría crear trabajo seria el sector agrícola familiar, pero allí nos enfrentamos con unas décadas de salidas forzadas, causa el conflicto, y con las nuevas generaciones que, creo yo, tienen poca gana de volver a trabajar la tierra (por lo menos en números expresivos a nivel nacional).

Es por eso que, durante mi última visita al país, y gracias a otro viejo amigo, me encontré con representantes del sector industrial, tanto agrícola como no agrícola, para escuchar sus análisis de la situación, y su propio compromiso hacia la Colombia del pos-conflicto. Me quedé positivamente sorprendido de la lucidez de su análisis sobre la irreversibilidad del proceso de paz y de la necesidad que ellos también tenían de ayudar la reinserción a partir de la creación de puestos de trabajos en las distintas ramas de sus organizaciones. Esto me hizo pensar, una vez más, que confiar en las personas no es una mala idea. Obviamente sus posiciones eran abiertas para sentarse a dialogar con el gobierno y demás actores, a cambio de obtener algún beneficio también para ellos, lo que es normal en un proceso de negociación.

El único actor clave con quien no tuve oportunidad de encontrarme, pero con el cual tengo algún contacto epistolar, es con la Iglesia Católica. No creo que haya dudas sobre el empujón detrás de las ventanas que ha venido desde Roma para que las partes llegaran a un acuerdo. Creo también que la agenda del Vaticano, concretizada en la Laudato Sí, sea algo de muy progresista y que podría juntar muchas personas, más allá de un credo religioso específico. Las capacidades de las parroquias, y no solo de las ONG de base, podrían ser un elemento clave, si son bien valoradas, para que el proceso de paz realmente funcione.

Concluyendo, lo que viene adelante me parece un reto súper complicado. Me parece que hay una dosis de poca preparación t en todos los actores. De repente los únicos que realmente tienen claro, números a la mano, la cantidad de personas que podrán ser ayudadas en la reinserción, es el sector privado. Entre los actores externos, agencias de naciones unidas, donantes, ONG internacionales, creo que el camino sea todavía bastante largo para pasar de la típica competición a una verdadera colaboración. Sin embargo, también creo que siendo tan grande el desafío, sea posible que se convierta en una oportunidad que despierte lo mejor en todos nosotros. No es ni siquiera pensar cual podría ser el impacto de un acuerdo de paz que sea rechazado en el plebiscito y/o que no funcione en la práctica. Ninguno de los grandes actores tiene interés en volver a un pasado de tanta violencia. Los escenarios futuros son distintos para cada uno de ellos: lo que nosotros esperamos en términos de democratización del país, de apoyo decidido a los sectores marginalizados y en particular al sector de la agricultura familiar, no es necesariamente lo mismo que le puede interesar a otros. Todavía habrá mucha pelea, y debemos prepararnos para sumar fuerzas y coraje. Por mi parte confirmo mi disponibilidad para ayudar en lo que sea posible y a partir del fin del año 2017 estaré libre de prestar mis servicios a esta causa.




lunedì 4 luglio 2016

2016 L30: Renaud Séchan - Comme un enfant perdu


XO EDITIONS (2016)

Pour la première fois, l'autobiographie de Renaud Séchan.

E ho detto tutto. Per chi lo conosce, va detto che il libro aggiunge poco di nuovo, ma fa piacere leggere e "sentire" il racconto delle sue traversie. Notre pot est de rétour!