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domenica 30 aprile 2023

2023 L16: Maurizio de Giovanni - Anime di vetro

 

Einaudi, 2015

C’è la morte nell’anima di Luigi Alfredo Ricciardi. Imprigionato nel guscio della solitudine piú completa, che non permette a nessuno di intaccare, è sulla soglia della disperazione. All’ottavo appuntamento con i lettori del commissario dagli occhi verdi, piú che mai protagonista in una indagine dove tutto è anomalo, Maurizio de Giovanni ci regala la meraviglia di un romanzo in cui le anime di ciascuno si rivelano fatte di vetro: facili a rompersi in mille pezzi, lasciano trasparire la fiamma che affascina e talvolta danna, e occorre allora il sacrificio della rinuncia, che può apparire incomprensibile ed esporre alla vendetta. Prende cosí forma un congegno narrativo misteriosamente delicato e struggente, vertiginoso e semplice, che spinge Ricciardi su strade rischiose. E lo costringe a fare i conti con sé stesso e i propri sentimenti. Mentre le pagine sembrano assumere la voce di una delle piú celebri canzoni partenopee, per carpirne il piú nascosto segreto.

Nel vuoto della piú profonda crisi, Ricciardi sente che non riesce ad aprirsi alla vita. Che cosa gli ha impedito finora di accogliere l’amore di Enrica, o quello di Livia? C’è poi grande bonaccia in città sul fronte del crimine, e lui non trova soddisfazione in casi da nulla. Quando la bellissima, altera Bianca, contessa di Roccaspina, gli chiede di indagare su un omicidio già ufficialmente risolto da mesi, il commissario deve decidere se seguire o no il proprio istinto e accettare di condurre, per la prima volta, una indagine non autorizzata. Di tempo ne avrebbe. E se c’è di mezzo una ingiustizia, bisogna mettervi riparo. Maione, via via piú preoccupato per lui, si mette in testa di proteggerlo da sé stesso e nel suo zelo diventa il centro di una esilarante galleria di apparizioni del mondo della strada: come Bambinella, qui in stato di grazia. In un crescendo implacabile che esalta intorno a Ricciardi il vigore di tutti i personaggi, vecchi e nuovi, pieghe della narrazione avventurose o buffe aspettano il lettore a ogni passo. Il commissario viene coinvolto dalla vicenda come non avrebbe mai creduto. E nello scrutare al tempo stesso la propria anima, in cerca di una possibilità di nuova vita, sottovaluta forse i pericoli che lo circondano. Qualcuno lo ha messo nel mirino e aspetta solo che Ricciardi faccia un passo falso.

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Mi è piaciuto molto, potrebbe anche finire nella top dell'anno.

lunedì 24 aprile 2023

2023 L15: Arnaldur Indridason - Le Mur des silences

 


Points, 2023

Dans une vieille maison, dans laquelle toutes les femmes qui y ont vécu se sont senties oppressées sans raison, un mur de la cave s’effondre et on trouve un corps.

Konrad, très intrigué par ce cadavre inconnu, enquête et fait resurgir des affaires traitées dans ses trois romans précédents. Par ailleurs, il presse la police d’élucider le meurtre de son père mais il a oublié qu’à l’époque il avait menti et se retrouve inculpé.
Toujours dans une ambiance à la Simenon et avec un Konrad très ambigu, moyennement sympathique et noyé dans l’alcool. Le Mur des silences est un beau roman noir sur la violence familiale, la vulnérabilité, les sacrifices et l’impunité, dans lequel les cold cases ressurgissent toujours.

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Molto interessante, un giallo che non finisce ... 

venerdì 21 aprile 2023

2023 L14: Vasilij Grossman - Vita e destino


Adelphi, 2022

«Ho appena terminato un grande romanzo a cui ho lavorato per quasi dieci anni...» scriveva nel 1960 Vasilij Grossman, scrittore noto in patria sin dagli anni Trenta (e fra i primi corrispondenti di guerra a entrare, al seguito dell’Armata Rossa, nell’inferno di Treblinka). Non sapeva, Grossman, che in quel momento il manoscritto della sua immensa epopea (che aveva la dichiarata ambizione di essere il Guerra e pace del Novecento) era già all’esame del Comitato centrale. Tant’è che nel febbraio del 1961 due agenti del KGB confischeranno non solo il manoscritto, ma anche le carte carbone e le minute, e perfino i nastri della macchina per scrivere: del «grande romanzo» non deve rimanere traccia. Gli occhiuti burocrati sovietici hanno intuito subito quanto fosse temibile per il regime un libro come Vita e destino: forse più ancora del Dottor Živago. Quello che può sembrare solo un vasto, appassionante affresco storico si rivela infatti, ben presto, per ciò che è: una bruciante riflessione sul male. Del male (attraverso le vicende di un gran numero di personaggi in un modo o nell’altro collegati fra loro, e in mezzo ai quali incontriamo vittime e carnefici, eroi e traditori, idealisti e leccapiedi – fino ai due massimi protagonisti storici, Hitler e Stalin) Vasilij Grossman svela con implacabile acutezza la natura, che è menzogna e cancellazione della verità mediante la mistificazione più abietta: quella di ammantarsi di bene, un bene astratto e universale nel cui nome si compie ogni atrocità e ogni bassezza, e che induce a piegare il capo davanti alle sue sublimi esigenze. «Libri come Vita e destino» ha scritto George Steiner «eclissano quasi tutti i romanzi che oggi, in Occidente, vengono presi sul serio».

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Oltre due mesi di lettura per questo capolavoro che, non varrebbe nemmeno la pena dirlo, sarà nella Top dell'anno.

martedì 18 aprile 2023

Crisi climatica: una manna dal cielo (per alcuni)


 Cerchiamo di spiegare in parole semplici come si possa fare soldi con la crisi climatica.

 

Partiamo da due principi: il primo che ogni crisi è (anche) una opportunità e, secondo, che ogni impresa privata se può fare più soldi, li farà.

 

In soldoni, quando pensiamo alla crisi climatica pensiamo all’inquinamento e al riscaldamento globale. Gli occhi puntano diretti alla CO2, l’anidride carbonica che alberi, piante marine e alghe trasformano in ossigeno. Quindi se noi riuscissimo a fare in modo che piante (e il resto) aumentassero la loro trasformazione della CO2, saremmo a cavallo. 

 

Una prima possibilità è quella di piantare alberi, cosa che da decenni la FAO ripete (e monitora) e che tante industrie del settore fanno. Non vengono create foreste, come le intendiamo noi, ma semplicemente delle piantagioni forestali che regolarmente vengono tagliate così da essere vendute. Caso tipico sono le produzioni di eucalipti per fare carta per le nostre stampanti. Gli eucalipti consumano una quantità esagerata di acqua che pompano dal sottosuolo, crescono rapidamente e quindi sono molto redditizi per chi li pianta.

 

Questa era una risposta del tipo win-win nel mondo neoliberale. Si tagliavano le foreste primarie, magari accaparrandosi le terre dei popoli indigeni che le gestivano da sempre – ma senza titoli di proprietà – e si ripiantavano eucalipti, pini o altre essenze simili. Il fatto che la biodiversità si riducesse a zero era una “esternalità” che non interessava a nessuno.

 

Poi arrivò il protocollo di Kyoto, a dimostrazione che eravamo diventati tutti sensibili al tema ambientale. Il protocollo prevedeva l’operazione chiave per salvare capra (profitti industriali – bancari – finanziari) e cavoli (l’ambiente): la compensazione.

 

La mia industria poteva continuare a inquinare, a patto che compensasse questi disastri con delle buone azioni da realizzare da qualche altra parte, per esempio piantando alberi.

 

Il meccanismo di compensazione inventava quindi un nuovo mercato, quello dei crediti carbonio: inquino da una parte, mettendo tanta CO2 nell’aria, e compenso piantando alberi altrove o, più semplice, acquistando dei crediti da chi aveva piantato gli alberi al posto mio e, producendo O2 e consumando CO2, aveva acquisito dei crediti carbonio da vendere.

 

Il mercato non si è sviluppato molto, ma il principio è stato fissato. A quel punto, ci si è resi conto che al di là degli alberi, un sistema complementare era quello di interrare la CO2, proprio come il verbo lo indica, e cioè mettendola sottoterra. 

 

Qui si apre un problema diverso, e molto attuale. Il nodo del problema è quello di misurare quanta CO2 metto sotto e come posso affermare che resterà sotto terra per un lungo periodo. Si aggiunga il fatto che stiamo parlando, soprattutto, di terre agricole, il busillis diventa più complicato, perché bisogna accertarsi che certe tecniche che aiutando a interrare la CO2 vengano seguite scrupolosamente. 

 

Si inventa allora l’agricoltura di precisione o la digitalizzazione dell’agricoltura. Tutti i grandi players si sono buttati a capofitto: da Microsoft a Bayer e alle banche. 

In pratica si mettono sotto contratto dei lavoratori agricoli (una volta erano contadini ma, come ho spiegato nel libro sulla crisi agraria, oramai sono più degli operai che altro) i quali, in cambio di un pagamento addizionale, poca roba in verità, si impegnano a seguire un protocollo di tecniche particolari, usando strumenti, sementi e, spesso, prodotti chimici, secondo il buon volere del titolare, e questo per un periodo minimo di una decina d’anni. 

 

Exit la libertà del contadino di coltivare quello che considera più opportuno o vantaggioso. Exit la (bio)diversità delle colture e avanti con l’industrializzazione e la uniformizzazione delle colture.

 

L’ex-contadino si impegna anche a fornire tutti i dati necessari per mandare avanti l’ambaradam della agricoltura digitale, miliardi di dati che vanno nel cloud così che una agenzia di rating o monitoring possa controllare e, con algoritmi spaziali, stimare quanta CO2 è stata catturata. Questi valori si trasformano poi in bond, cioè prodotti finanziari immessi sul mercato dei crediti carbonio.

 

Vista da un punto di vista eco-femminista questa è una pratica che accelera la trasformazione dell’agricoltura di una volta, quella dei prodotti sani, diversificati, fatti da mani contadine, in prodotti standardizzati che poi finiscono nei nostri piatti col termine francese della “malbouffe”. Mangiamo e beviamo male, sempre peggio, così che poi oltre la fame (830 milioni, dati FAO) ci troviamo adesso con oltre 1 miliardo di obesi (dati OMS).

La qualità di quello che viene prodotto non interessa a Microsoft, Bayer o JP Morgan: il business sono i crediti carbonio che servono anche per compensare i danni causati dalle grandi centrali di trattamento dei Big-Data. Uno dei più grossi data center in uso ha bisogno di oltre 100 Megawatt (MW) di potenza disponibile (Energy Innovation, “How Much Energy Do Data Centers Really Use?” 17 March 2020, https://energyinnovation.org/2020/03/17/how-much-energy-do-data-centers-really-use/)

Con questo sistema, compensazione, crediti carbonio … non si incentiva nessun cambio strutturale nel sistema economico, anzi più si cercano forme di compensazione (aleatorie, perché tutte le stime fatte dagli algoritmi sulla CO2 catturata valgono come le previsioni al Lotto di mio nonno) più si continuerà a inquinare. Il fatto che si riesca a nascondere tutto questo dietro cortine di fumo come l’agricoltura di precisione, è ancora più preoccupante, perché è chiaro che saranno tanti i polli politici nostrani a dire che bisogna appoggiare questa ricerca in agricoltura, invece di difendere la biodiversità e la diversificazione.

Il fatto poi che gli agricoltori siano definitivamente trasformati in operai al soldo di entità che con l’agricoltura non hanno nulla a che vedere, non lascia ben sperare per il futuro.

 

 

domenica 16 aprile 2023

Un piano Mattei per l’Africa. Sogno o son desto?


 Quando il 6 marzo del 1957 il Ghana raggiunse, per primo, l’indipendenza dal potere coloniale britannico, si sentì spirare il vento della storia: da lì a pochi anni gran parte dei paesi africani si liberarono dalle catene imposte dalle potenze coloniali europee, ed iniziarono la ricerca di strade nuove per il loro futuro.

 

Una prima generazione di leader nazionali, spesso influenzati dalle idee socialiste, portò a pensare che potesse nascere qualcosa di veramente diverso dal mondo come lo conoscevamo nelle nostre contee.

 

La logica della guerra fredda si impose però rapidamente, per cui i nuovi stati indipendenti, fragili economicamente e istituzionalmente, furono costretti a schierarsi da una parte o dall’altra. Il sogno di un socialismo africano si infranse ben presto di fronte al prezzo da pagare per l’appoggio sovietico (e successivamente cubano in alcuni paesi), che si sommava alle tendenze megalomani di vari di questi leader, ben presto scalzati da una serie di colpi di stato che portarono al governo dei personaggi molto inclini alla corruzione e portati verso un tribalismo che, rompendo il sogno di costruire degli spazi di armonia tra i vari gruppi etnici, anche al di là delle frontiere (emblematico il caso del progetto di unificazione tra la Guinea Bissau e Capo Verde, entrambe ex-colonie portoghesi arrivate all’indipendenza nel 1975, progetto fortemente voluto da Amilcar Cabral, che non si realizzò. A causa di un colpo di stato in Guinea nel 1980), aprì spazi crescenti e ancora oggi incontrastati, alle forze militari che presero in mano i destini di gran parte dei paesi africani.

 

La mancanza di infrastrutture fece sì che tutti i primi presidenti decidessero di affrontare questo scoglio centrale per promuovere il loro sviluppo. Chi dice grandi opere sa anche che, spesso, questo significa grandi debiti, e così fu, soprattutto quando, sull’onda dello shock petrolifero del 1973, che aveva ridistribuito la manna finanziaria verso i paesi arabi produttori di greggio, la necessità di impiegare in qualche modo quegli ingenti quantitativi di risorse, portò a finanziare un sinnumero di grandi progetti in Africa, mal preparati dalla Banca mondiale, e che si trasformarono in una montagna di debiti. Per porre fine a questa crisi, di cui era co-responsabile, la Banca mondiale impose i famigerati Programmi d’Aggiustamento Strutturale, con tagli radicali alla spesa pubblica, in particolare nella salute, educazione e servizi ai piccoli agricoltori. L’erba sotto i piedi veniva così falciata, chiudendo, già allora, ogni qualsiasi speranza per un futuro diverso, democratico e indipendente per i paesi africani.

 

Fu agli inizi degli anni 90 che i potentati del Nord, stanchi degli eccessi delle dittature che avevano aiutato a insediarsi al governo, così da assicurare i flussi di risorse verso le ex-potenze coloniali, delle riforme vennero imposte, in particolare la necessità di organizzare delle elezioni “libere” e “democratiche”. Questo perché, dall’indipendenza in poi, praticamente tutti i dittatori avevano pensato che non fosse necessario il passaggio dalle urne, dato che i popoli non erano preparati ed erano malati di tribalismo. Obbligati a farlo, la stampa internazionale elogiò queste “elezioni” che, nei fatti, servirono solo a ratificare il potere nelle mani di chi l’aveva. L’alternanza democratica è sempre stata un bene assai raro in Africa, tanto che ancora oggi, ci stupiamo se, una volta tanto, succede che un’opposizione vinca le elezioni e prenda il potere senza che arrivi subito un colpo di stato militare.


La militarizzazione dei governi andava di pari passo con la scomparsa di una stampa libera e della trasparenza nella gestione degli affari interni, il che permise un aumento considerevole della corruzione. Gli occidentali non si sono mai preoccupati realmente con questo problema, dato che, alla fine della fiera, i soldi rubati dai governanti, venivano nascosti in conti bancari presso le nostre banche, quindi servivano a finanziare il nostro di sviluppo.

 

Va anche ricordato che, siccome nessuno dei leader dell’indipendenza, e ancora meno quelli che vennero dopo, veniva dal mondo rurale, l’agricoltura contadina finì sempre per essere l’ultima ruota del carro del tanto anelato “sviluppo”. Si nazionalizzarono terre e imprese agricole, per continuare con lo stesso modello agro-esportatore, con la scusa di aver bisogno di soldi contanti per finanziare lo sviluppo nazionale. Ignoranti e, eventualmente, appoggiati da consiglieri del nord, formati nelle scuole neoliberali, la lotta contro i diritti consuetudinari sulle risorse naturali è stata un tratto comune di tutti i governi africani, di destra come di sinistra, e questo fino ai giorni nostri.

 

L’ideologia di sviluppo era la stessa, da una parte o dall’altra della cortina di ferro: estrarre plus-lavoro e risorse naturali dalla campagna per finanziare lo sviluppo industriale. Che le campagne restassero povere, non era un problema per nessun partito politico, tanto era evidente che i contadini, nelle campagne, non votavano, o, se lo facevano, avrebbero seguito le direttive del partito al governo.

 

Col tempo, il tribalismo che animava molti dei presidenti e primi ministri, mostrò i suoi frutti deleteri, in particolare quando successe il genocidio ruandese. In realtà, per chi, come me, ha abbastanza capelli grigi per ricordarsi del Biafra, la storia era già chiara all’epoca. Spingere un gruppo contro un altro per l’unica ragione di voler controllare, in esclusiva, i beni naturali: petrolio nel caso nigeriano, la terra nel caso ruandese.

 

La lezione del 1994, così come quella precedente, non insegnarono nulla ai dirigenti africani, che continuarono a soffiare sul fuoco del tribalismo e nazionalismo. E le guerre e i conflitti aumentarono in maniera esponenziale, parallelamente alla perdita di capacità di governare da parte di élite sempre più truffaldine, corrotte e violente.

 

Da parte nostra, europei ed americani, abbiamo aiutato questo vento, mettendo a disposizione armamenti a tutti quanti, in cambio di un accesso a tutte le loro risorse naturali, sopra e sotto suolo. 

 

Alcuni stati hanno cominciato a rompersi, confermando la fragilità della loro costruzione, imposta dalle potenze coloniali sulla base dei loro (e nostri) interessi, senza alcun rispetto per la storia africana. La Somalia e la Libia sono due esempi sotto gli occhi di tutti, e non saranno certamente gli ultimi, vedendo cosa succede in paesi come il Mali e il Burkina.

 

Siamo così arrivati all’oggi dove, a una già complicata situazione creata negli ultimi 60 anni, aggiungiamo la questione religiosa, su cui soffiano i movimenti estremisti islamici, e la crescente presenza cinese che ripete gli stessi schemi da noi imposti per decenni se non secoli.

 

In questo contesto, la nostra Presidente del Consiglio torna a casa da Addis parlando di un’ottima missione e del ruolo che l’Italia pensa di poter giocare con il fumosissimo piano Mattei per l’Africa (che sembra ridursi al Mediterraneo nelle intenzioni di “Giorgia”) e che sembra sarà svelato ai comuni mortali ad ottobre.


Sono molto curioso di capire quale sia la filosofia ispiratrice e, ovviamente, le risorse che saranno messe in campo, ma sono altrettanto curioso di capire come si muoverà l’opposizione, in particolare il PD rinnovato di Schlein. La questione va al di là dei migranti, tema sul quale il PD avrebbe da scontare ancora parecchi anni di vergogna per i lager di Minniti, che potrebbero piacere tanto a Salvini quanto a Giorgia. Capisco che l’ossessione di questo governo sia rappresentata dai migranti neri che sbarcano sulle nostre coste, ci invadono e, nel giro di pochi anni, realizzeranno “le grand remplacement” di cui tanto parlano i cospirazionisti europei, amici di Matteo e Co. La frase a effetto: aiutiamoli a casa loro, se non sbaglio la usò già il buon Bossi qualche decennio fa, ma non si è mai sentito di alcuna analisi e proposta da parte di questo mondo politico. Non che da sinistra le cose siano andate meglio, perché a parte la solita retorica buonista, nei fatti, una volta al governo, anche loro hanno continuato ad appoggiare quella che io chiamo la CHARINESS, facendo una crasi tra la carità (charity) e gli affari (il business).

 

Quindi, da qui a ottobre c’è tempo per elaborare, discutere e rendere pubbliche le visioni, gli interessi che si vogliono difendere, e le azioni concrete con i relativi fondi.

 

Per cominciare, ricordandoci che in Africa l’agricoltura è ancora un settore importante per mano d’opera impiegata, e che nostro interesse sarebbe di rafforzare queste agricolture contadine locali, piuttosto che continuare a distruggerle come facciamo da decenni, mettiamo sul tavolo una cifra: noi europei dedicheremo quasi 400 miliardi di euro per sovvenzionare le nostre agricolture nel periodo 2023-2027. Non sto qui a ricordare come gran parte di questi soldi vada all’agribusiness e settori impresariali e non certo ai piccoli contadini, perché questa sarebbe un’altra storia. 

 

Insomma, noi difendiamo le nostre agricolture, e oltre ai soldi, usiamo le barriere tariffarie e sanitarie, tutte cose concesse nel gran gioco della competizione tra grandi blocchi mondiali, americani, europei …

 

Gli africani, da quando si sono resi indipendenti, non hanno mai potuto difendere le loro agricolture. E questo non era discutibile. O così, o pomì si diceva una volta. Le scelte di politica economica sono state tutte dettate dal modello neoliberale che imperversa dalla seconda metà degli anni 70 nel mondo intero. Minimo ruolo per i governi, e massima libertà per le imprese, le banche e la finanza.

 

Quali intenzioni abbia Giorgia su questo tema, lo vedremo ad ottobre. Ma lo stesso vale dall’altra parte.

 

La “governance”: sfido chiunque a trovare un 3-4 governi che si possano dire democratici e capaci, tecnicamente e finanziariamente, di gestire, con bassi livelli di corruzione e con buona trasparenza, gli affari nazionali. Io non ne conosco molti, forse il Botswana potrebbe essere un buon candidato. Conoscendo poco il Kenya, avevo qualche speranza, malgrado il forte tribalismo, le continue lotte etniche e tutto il resto dell’ambaradam. Poi ho letto questo articolo (https://www.courrierinternational.com/article/dette-le-kenya-ne-paye-plus-ses-fonctionnaires-et-frole-la-banqueroute-budgetaire) e scopro che il buon presidente Ruto non paga più da mesi i funzionari del suo governo (a causa dei debiti che vanno ripagati). 

 

Insomma, la realtà è fatta di governi malpreparati, corrotti, funzionari sotto o non pagati (quindi aperti alla corruzione), il tutto condito da una ideologia che vuole dare pochissimo spazio ai governi e molto spazio al settore privato. Nella situazione reale, questo significa nessun controllo su cosa facciano e come operino questi impresari privati.

 

Per costruire una capacità tecnica e politica in grado di affrontare i numerosi e imbricatissimi problemi generati da decenni di mal sviluppo stimolato dall’occidente, ci vorrebbe un’inversione di tendenza minimo minimo a livello di tutta l’Europa, dopodiché servono risorse e tempo. Cioè una visione di medio lungo periodo che non vedo in giro. 

 

Sul serio qualcuno pensa che questo governo (per il momento sospendo il giudizio sul PD di Schlein) sarà in grado di proporre un’inversione di tendenza che passi per ridurre le protezioni all’agribusiness, aiutando le agricolture contadine del Sud a rafforzarsi, in primis per la loro sicurezza e sovranità alimentare, dando loro appoggio politico per una iniziativa che porti a ridefinire il protezionismo al nord e il mercato libero senza controlli ai Sud?

 

Onestamente io non ci credo. Sarà più facile ripetere i soliti inviti retorici, magari un mega summit, dove i paesi del Nord promettano che aiuteranno i sistemi scolastici e sanitari pubblici (sottolineo pubblici e non quelli privati) a rimettersi in piedi, che finanzieranno a tassi agevolati risorse per pagare insegnanti, infermieri/e e medici per i prossimi decenni così da rimettere in piedi le società locali. Saranno promesse che costeranno poco e non renderanno nulla, per il solito ragionamento che i contadini non votano (oramai non vota più nessuno per cui, chi se ne importa?) e, ancor peggio, che la vita media di un parlamentare o uomo/donna che faccia politica è di molto inferiore al tempo necessario per rimettere questo continente in condizioni tali da avere una società civile forte, capace di liberarsi dai troppi dittatori e dai militari che li sostengono.

 

Che poi, in tutto questo, qualcuno si ricordi che forse varrebbe la pena puntare sulle donne più che sugli uomini, mi pare realmente un sogno che difficilmente si avvererà. Giorgia, in quanto donna, madre e tutto il resto, potrebbe insistere su questo: una iniziativa per dare più forza alle donne africane, a partire dalla sfera domestica, condizionando aiuti futuri non solo al rispetto generico dei diritti umani, ma a un deciso cambiamento nei rapporti societali, con gli uomini che finalmente inizino a far qualcosa anche loro nella sfera domestica, e che sia lasciato maggiore spazio nella politica alle donne. Su questo prima o dopo si dovrà andare allo scontro, anche militare, con i salafisti, AlQaida Maghreb, Boko Haram e compagnia, perché a forza di lasciar fare queste generazioni di dittatori ci siamo allevati in seno il veleno dell’estremismo (presente oramai in pianta stabile anche negli USA e in Brasile) che prefigura un avvenire molto oscuro per le nuove generazioni.

 

Il mio invito è che Elly Schlein inizi a pensare a una visione di medio-lungo periodo, per l’Africa e non solo; che si circondi di persone esterne al circolo partitario e che un gruppo di questo genere aiuti a pensare le grandi sfide e, da lì, cosa sia possibile proporre e con chi. Sarà un lavoro immenso, che lei da sola non potrà nemmeno abbozzare, ma a me vien da pensare che ci siano le risorse umane pronte ad aiutare in questa riflessione, andando oltre la retorica abituale, e che siano capaci di pensare oltre quello che sembra diventata la nuova bibbia della sinistra italiana, e cioè l’enciclica Laudato Sì. Non è pensabile che una fetta importante della società italiana, che si riconosce nella speranza che incarna Elly Schlein in questi mesi, sia ridotta a pensare che l’unico testo fondante del rapporto tra la Natura e l’Uomo (e la Donna, caro papa Francesco, ve la siete dimenticata nell’enciclica…) sia quello scritto da un rappresentante di uno stato estero. 

 

Coraggio, diamoci la forza e il coraggio per iniziare questo cammino.