Visualizzazioni totali

domenica 25 aprile 2010

Ventesimo libro 2010: Il paradiso è altrove - Mario Vargas Llosa




Il nuovo romanzo di Vargas LLosa tesse due trame contigue per sangue e ideali, due storie vere ed emblematiche. Flora Tristán, mente vivace attratta da ogni forma di sapere, nacque a Parigi nel 1803 figlia illegittima di un colonnello peruviano. Sposa di un litografo pieno di rancori, scelse la separazione in una società che non l'accettava e in Perù iniziò la sua carriera di scrittrice, denunciando con forza i soprusi cui erano sottoposte le donne e sognando la loro liberazione dalla discriminazione. Per il nipote, il pittore Paul Gauguin, l'utopia da realizzare fu una società in cui la bellezza fosse patrimonio di tutti.
grandissimo libro di Vargas Llosa, da piangere quasi. La descrizione della vita di Flora Tristán, la sua lotta per l'uguaglianza, le condizioni di vita degli operai e delle donne come le descrive lei...indimenticabili; la parte sul nipote, Paul Gauguin é semplicemente perfetta. Entra di diritto nei top ten dell'anno.

Sotto traccia – Maputo, cena dall’Alentejano

MS ha fatto parte anche lui del vareigato mondo della cooperazione; fin dai primi tempi in Mozambico, quando i murales rivoluzionari riempivano i muri piú delle pubblicitá onnipresenti di adesso; tempi in cui non c’era nulla da mangiare, anche i cooperanti avevano la tessera per mettersi in fila alle due di notte per una gallina. Non c’erano peró bimbi per strada a chiedere l’elemosina e nemmeno tanta prostituzione. Solo un mondo diverso, con una guerra incombente, molto forte e pesante.

MS aveva, ed ha, una passione, o forse piú di una. Sicuramente le montagne sono qualcosa di molto importante nella sua vita, legate ai suoi ricordi Ampezzani. Ancora adesso, in missione in Afghanistan, é partito con altri colleghi ed amici a farsi un trekking in montagna. Cose da pazzi verrebbe da pensare, ma il metro di giudizio per chi ci é nato nelle montagne é diverso.

L’altra passione che sempre si porta dietro é quella di mettere una macchina fra il suo occhio e la realtá circostante, di preferenza Nikon anche se, per tutte le evenienze, ha sempre una piccola Canon che lo accompagna. Le fotografie spesso ssono lo specchio dell’anima e nel suo caso, dopo aver visto e rivisto il suo libro di fotografie, il suo reportage sul Sud Sudan, volevo capire meglio cosa e come, il perché di quelle foto fatte cosí.

Dovreste comprarvene una copia, anche se non so dove si venda, proveró a chiederglielo stasera e domani agigorneró questo blog con i dati. E’ un libro che forse non ti aspetti da qualcuno che per decenni oramai é stato in mezzo a questo Sud del mondo, girando parecchi paesi e vedendo sempre le stesse tristi realtá di fame e morte, malattie ed ingiustizie.

MS é uno sottotraccia; timido secondo me, che mi ricorda altri Cimbri delle nostre montagne; ha un fondo tremendamente positivo nei confronto dell’uomo, e questo é il messaggio centrale che ha voluto portare da Juba, capitale del sud Sudan, dove ci ha passato cinque anni. Anni difficili, di tende e bivacchi, non di hotel e aria condizionata, ma di latrine difficili da gestire, strane e pittoresche a volte che, da sole, meriterebbero un piccolo reportage fotografico dice lui. Ma ancora da fare.

Il reportage lo ha fatto invece nei campi dei pastori, nei raggruppamenti delle popolazioni dislocate dalle guerre, negli incontri fortuiti o no con questo e quello, politici, militari, contadini e contadine, bambini ed adulti. E gli é uscito il sorriso: il libro é tutto un messaggio positivo, e senti che dietro c’é qualcuno che, pur non essendo un credente nel senso stretto, ha una fede nell’uomo.

Il Mozambico se l’é vissuto dentro, per molti, lunghi anni, finendo per metersi con una mozambicana che, diremmo noi maschi, di palle ne ha quattro. M. L’ho conosciuta poco, torna oggi dal nord del paese col resto della truppa, bimbi e bimbe e forse stasera staremo lí a soffrire assieme le peripezie della Roma. Fa il medico, chirurgo per la precisione, con una forza e dedizione che solo una donna puó avere. Laureata e specializzata in chirurgia nelle nebbie milanesi, un sogno che lei rincorreva fin da quando aveva cinque anni. Questo voleva fare, e questo ha fatto, per aiutare il suo popolo. Impossibile farle cambiare idea. Una donna d’altri tempi, chissá se definirla rivoluzionaria le piacerebbe o no.

MS e M fanno una coppia particolare, una volta che li hai conosciuti non li dimentichi. Ricordo la prima volta che ci siamo conosciuti con MS, a Luanda, e il suo parlar schietto e senza giri di parole é sempre stato bello, onesto e chiaro. Inutile girarci attorno, pan al pan e vin al vin, cosí si dice su dalle nostre parti.

Hanno visto cambiare il paese, il loro paese, in modo cosí rapido che gli é difficile capirlo adesso: quando venne qui la prima volta se ne innamoró; adesso, mi dice, uno che venga in quello che é il Mozambico attuale, piú ricco, piú moderno, non so se si innamorerebbe di questo posto. Si sta meglio adesso, sicuramente, ma si respira anche qua lo stesso vento individualista che chissá dove ci porterá.

M. continua a dirgli “perché non fai un libro di foto sul Mozambico? Ne hai migliaia, anzi decine di migliaia di foto fatte...” La stessa domanda che gli ho fatto io, mangiando un pernil de porco con patate al forno, annaffiato da un bianco leggero e ben secco in quel ristorante che da quando sono arrivato é diventato la base delle mie refezioni, l’Alentejano, vicino al Polana shopping (ve lo consiglio, se non gli si brucia la cucina, cosa che succede un po’ troppo spesso, é ottimo per il rapporto qualitá/prezzo; ancor di piú se siete fumatori perché lí potete godervi in santa pace una sigaretta dopo il pranzo, oppure, chi non fumasse, una amandoa amrga...). Un libro sul Mozambico ha bisogno di sentire un amore come quello che fu negli anni scorsi, e che non é piú lo stesso oggi. Il paese cambia, non piú sogni, e cerca di reinventarsi poco a poco. Forse lo fará sto libro, ma intanto godetevi i sorrisi del Sudan.

PS. Proprio ieri pomeriggio, grazie ad un altro amico di lunga data che vive qui, PdW, siamo andati a conoscere un giovane artista plastico mozambicano, di soli 23 anni ma una testa piena di idee e di cose fatte molto interessanti. Ne parleró un altro giorno, per dirvi che nel reinventarsi questo paese ha ancora delle energie interne molto interessanti da liberare. Vado a farmi un caffé adesso.

sabato 24 aprile 2010

Se io fossi – altro giorno a Maputo

Mattina fresca e nuvolosa come non te la immagini in Africa. Pare sia stato un inverno freddo come non si ricordavano da almeno dieci anni. Sono andato a far la spesa in un nuovo supermercato appena aperto qui vicino all’hotel. Una specie di centro commerciale come queli a cui siamo abituati: vestiti, cibi, lotterie e tutto l’ambaradam abituale. Tante facce non piú nere, ma nemmeno bianche: la geografia fa sí che qui si vedano tanti indiani e tanti asiatici, probabilmente cinesi. L’impresione fugace é che ai posti di comando ci siano quelli che investono nell’educazione ed hanno i soldi, mentre i locali restano sempre sotto nella scala sociale. Nulla di nuovo ovviamente, ma 35 anni dopo l’indipendenza forse potevano sperare in qualcosa di diverso. Il paese cresce, ma sembra crescere per pochi. Almeno non ci sono i conflitti evidenti laddove ci asono risorse del sottosuolo, petrolio e diamanti. Detto questo, la questione delle terre é e resta un tema centrale perché é una delle poche fonti di lavoro e sussistenza per gran parte della popolazione.

Leggevo stamattina del vicino Sudafrica, dove dal ritorno di Mandela fino ad oggi, solo il 4 percento delle terre é stato redistribuito, contro un obiettivo del 30. In campagna dicono che non si sono accorti ancora che sia finito l’apartheid... e adesso uno dei giovani leader della ANC ha deciso di riprendere i vecchi slogan incendiari, canzoni di lotta incitando ad uccedere i Boeri, e a mandare messaggi a Mugabe in Zimbabwe dicendo che quella é la strada da seguire. Pochi seguono queste storie finché non scoppia il caso emblematico, come quel leader razzista ammazzato poche settimane fa, Terreblanche. Ma basti ricordare che dal ritorno della democrazia ad adesso, poco piú di una decina d’anni, le stime sono di oltre 3 mila contadini bianchi ammazzati nelle campagne sudafricane. Cioé siamo seduti su un altro vulcano, non proprio spento. Il Mozambico, lí vicino, fa figura dell’amico piccoletto che sta lí con i grandi e che se succede qualcosa, rischia di farsi trascinare.

Coscienza di questi problemi siamo in pochi ad averla e credo che non interessi molto la gente, nemmeno su da noi, finché poi ti ritrovi gli immigrati alla porta ed invece di capire vorresti semplicemente buttarli a mare, stile Calderoli e la Lega.

I limiti dell’essere umano. Tante chiacchere ma alla fine, strucca strucca come diciamo noi veneti, gli metti li pane e circense e quello si accontenta.

La gente qui é simpatica, ti parla facilmente e non é sempre lí a chiederti soldi o qualsiasi cosa. Stando un po’ attenti giri per strada a piedi, vai nei bar, ti prendi un caffé, leggi i giornali (che lottano per sopravvivere ed essere un po’ indipendenti, a volte pagandolo con la morte), hai servizi che cominciano a funzionare, insomma un paese del sud che anela a non restare sempre sotto. La classe politica é quella che é, noi ci abbiamo messo secoli per arrivare ad avere, ogni tanto, un buon político di cui ricordarci, ma siamo ancora pieni di ladri, papponi e condannati vari per cui é abbastanza normale che ci ritroviamo in situazioni simili qui al sud. Tanto insistere sulla trasparenza, democrazia, partecipazione, ovvio che é giusto, ma dobbaimo anche renderci conto dei tempi, che non possono essere dettati da noi.
A volte ci guardano come beste rare. Penso in particiolare nel settore lavorativo mio, ed ai colleghi con cui lavoro qui, nazionali e non. Noi sempre affannati a spingere perché le cose vadano piú in fretta, loro che, per gentilezza, ti rispondo toudo bem, ma poi la velocitá non cambia; la burocrazia deve dimostrare di avere gli stessi difetti che ha al nord, i politici devono ricordare che sono loro a comandare e le stesse dinamiche le ritrovi poi giú per la scala sociale. Lavori con un collega per molti anni su queste questioni ambientali, partecipative, l’importanza di costruire assieme etc.. poi appena viene promosso vice capo, eccolo lí a fare il dittatoriello.... qui comando io... mah, forse é inevitabile....

Lunedí inizieremo vari workshops, il nostro che tratterá di questioni di genere dentro i temi acqua e terra, per un pubblico mozambicano, ed i nostri colleghi ne apriranno uno sulla gestione delle terre a partire da martedi sera, con rappresetnanti da tutti i paesi CPLP (lusofoni). Potrebbero essere momenti interessanti, uan goccia in piú nel mare immenso delle cose necessarie, da fare, per pruomovere una riflessione, le famose parole che cambiano il mondo.... almeno ci proviamo.

PS. Hanno delle buone birre qui, sia bianche che scure. Preferisco la Laurentina, preta.

giovedì 22 aprile 2010

Parole per cambiare il mondo. Maputo día 1

Rieccoci qui, a Maputo, in quel paese che, da anni oramai, é una scuola aperta di quanto succede attorno alle risorse naturali, terra e acqua, del loro accaparramento da parte di pochi, degli stratagemmi usati, delle resistenze in alto, del "cosa ci facciamo noi qui".

Siamo arrivati qui poco dopo la fine del conflitto, guerra civile, che ha strangolato il paese fin dalla sua indipendenza nel 1975 (ascoltatevi la canzone di Bob Dylan, album Desire, dedicata a questo paese: I'd like to spend some times in Mozambique). Erano i primi anni 90 e noi venivamo qua con la sola arma che abbiamo con noi ancora oggi: parole per cambiare il mondo.

Questa l'ho presa a prestito da un grande e famoso scrittore peruviano, da un libro dove narra, fra le altre cose, le gesta di Flora Tristán, del suo prodigarsi per lottare per un mondo piú corretto, dove uomini e donne avessero uguali diritti. Una riformista che venne considerata come una pericolosa rivoluzionaria in quella Francia gretta ed ottusa della metá del secolo XIX.

Anche lei si chiedeva il senso di quelle parole, abbinate ad un'azione che oggi ci fa sorridere, ci appare velleitaria.

Mi guardo dentro e mi chiedo quanto velleitari siamo anche noi a continuare a credere nella forza delle idee, delle piccole cose, quanto siamo riusciti ad incidere realmente e profondamente in queste realtá strutturatesi durante molti secoli, attorno all'ingiustizia.

Domanda vana, mai avremo la risposta. Ma se da un lato il dubbio rimane, ci accompagna, dallº altro questo stesso dubitare ci dá la forza di continuare, di andare avanti.

Diceva quello dell'Appennino (Pavana): la mia parte ve la posso garantire ... (firmato F. Guccini)

Cortocircuito Cubano

Ero li, l'altro giorno, stanco ed ancora a riposo causa una febbre e mezza bronchite, guardando Benicio del Toro interpretando il CHE. Un misto di immagini d'epoca, il Che a New York alle Nazioni Unite, Benicio-Che sulla Sierra Madre a mostrare l'umanitá del futuro MITO.

Quanto grande fu quest'uomo, capace di dare una dimensione epica ad una rivolta tutto sommato non molto diversa da altre giá successe prima.

Dare un senso umano, una speranza; per questo fu prima allontanato, gentilmente, da Cuba e poi ammazzato in Bolivia.

Dare un sogno a della gente povera, per far sí che la loro vita potesse diventare migliore, libera.

Sono stanco, e non riesco a vederlo fino alla fine. Per antica abitudine prima di andare a letto faccio un po' di zapping, passo per i canali francesi e li vedo delle donne vestite di bianco. Parlano, gridano e attorno a loro si avvicinano altre donne, diverse, facce piu' inquadrate, uguali, a gritar consignas, ovvio, loro sono rivoluzionarie. Sempre di Cuba si trattava. Quella di allora e quella di adesso.

Caro Ernesto Guevara, quanto ti sarai rigirato nella tomba vedendo a cosa si sono ridotti i sogni di allora ....

sabato 17 aprile 2010

I poareti i ghe ze sempre stà, cossa vorli adeso?

Questa frase la diceva un amico di mio nonno tanti, ma proprio tanti anni fa e così ci è stata riportata, ironicamente, da mio padre. Era un modo di dire riferito al fatto che la povertà era un qualcosa esistito da sempre e che non si capiva perché adesso i poveri protestassero, quasi pensando di poter cambiare qualcosa. Non so se abbia avuto parte nella mia formazione, o se semplicemente il caso mi ha portato a lottare per far sì che questi “poareti” un giorno potessero stare meglio. Ma c’era anche un aspetto di ineluttabilità delle cose in quella frase; tanti hanno detto che avrebbero lottato per i poveri ma alla fine la situazione non è mai cambiata sul serio. Se guardiamo alle cifre attuali, mai come adesso, con più di un miliardo che soffre la fame, ci rendiamo conto dell’attualità di questa frase. Solo grazie (sic!) all’ultima crisi alimentare, il numero è aumentato di quasi 150 milioni. Quasi centocinquanta milioni in poco più di un anno, e nemmeno questo è servito a smuovere le coscienze della gente.

La tensione morale non c’è, e lo vediamo bene noi in Italia dove non vediamo nessuna tensione per lottare contro le mafie. Malgrado la presenza del papato qui a Roma, al fondo delle cose il sentimento che domina è quello del menefreghismo; finché va avanti per me, perché preoccuparsi degli altri?

Mi guardo attorno dentro quelle mura dove lavoro ogni giorno, e non sento nulla di questa tensione; sento invece chiacchiere della vita che va, delle spese da fare al negozietto qua sotto, di andare al mare il week end o dell’ultima mostra o film, carino, che si è visto. Mai, dico mai, in ventun anni che ci lavoro, che mi sia capitato di sorprendere due persone a discutere, preoccupate, della povertà del mondo, del poco che facciamo e del molto che potremmo fare. La lotta per la sopravvivenza si coniuga come una lotta per l’avanzamento del posto, il che ovviamente implica una attività permanente di sparlare degli altri, potenziali concorrenti.
Fare o non fare nulla non cambia assolutamente niente. Eppure si potrebbe fare, si potrebbe sognare che, grazie a noi, una rivoluzione pacifica, basata sul dialogo, sulla credibilità tecnica, sul dar la voce a chi la voce non ha mai avuto, ecco partire dalle parole che per decenni abbiamo buttato al vento, partire da lì per costruire qualcosa che vada a colpire dove fa male e dove bisogna mettersi a smuovere le montagne.

Charles Fourier era così sognatore da credere che la gente a cui si rivolgeva, la borghesia illuminata, la gente importante, sarebbero andati da lui a chiedergli cosa si poteva fare; fece pubblicare un annuncio sui principali giornali di Parigi nel 1826 per dire che lui sarebbe stato disponibile, nei giorni settimanali, da mezzogiorno alle due del pomeriggio, al suo indirizzo di casa, per spiegare la sua ricetta per cambiare il mondo. Durò dodici anni, finchè poi morì, ma nessuno, proprio nessuno, di quelli a cui si rivolgeva, si presentò mai a chiedere questi famosi consigli. L’errore era nel credere che chi faceva parte della struttura di potere potesse essere interessato ad abbattere quel sistema che gli provocava tante ricchezze.

Ecco, noi siamo di fronte alle stesse problematiche scelte di Fourier: la povertà tocca la metà della popolazione umana, in un periodo quando, mai come adesso, in questi decenni, la mano invisibile del mercato che ha fatto crescere tanto questa economia mondiale, avrebbe dovuto portare risultati tangibili. Non lo ha fatto e non lo farà, perché si tratta di un meccanismo che funziona per chi i soldi li ha già, chi sta dentro, mentre per chi sta fuori vale sempre l’altro proverbio veneto: schei fa’ schei, peoci fa’ peoci i soldi fanno soldi, i pidocchi fanno solo pidocchi).
Cosa potremmo fare noi, delle nazioni unite, che lavoriamo per una organizzazione che si dice voler lottare per eliminare la fame nel mondo? E perché proprio adesso?

Dobbiamo, e dico dobbiamo, sognare! Mettere degli specchi in tutti gli angoli del nostro edificio, per obbligare tutti noi a guardarci in faccia, a vedere cosa è rimasto dentro di noi della vogli di lottare che avevamo quando siamo entrati. Dovremmo prenderci per mano e cominciare a proporre qualcosa che abbia senso, senza necessariamente pensare in rivoluzioni; dall’alto non verrà mai niente, e lo stato di quei paesi governanti da gverni cosidetti di sinistra, sta lì a dimostrarlo. Sono passati 14 anni oggi, dal massacro dell’ Eldorado dos Carajas, nel Parà, Brasile, dove la polizia dello stato del Parà ha massacrato una ventina di leader contadini provocando emozione nel mondo intero. Ci si rese conto della situazione della campagne brasiliane e l’ emozione fu totale. Adesso dovremmo esser qui a celebrare il fatto che un processo sia stato fatto, che gli assassini siano a marcire in carcere e, soprattutto, che oggi nelle campagne del parà non ci sia più lo schiavismo. Ma non è così, sfortunatamente, se andrete a fare un giro, per le prossime vacanze, nel sud del parà, troverete ancora adesso gli schiavi nelle campagne. Tutti lo sanno, ma loro restano sempre lì.

Ecco perché vi dico che non si può aspettare che le iniziative partano da sopra. Non succederà. Mai! Dobbiamo iniziare dal basso, dal nostro intorno, da lì cominciare a ricreare un mondo di dialogo, fiducia e comprensione, in modo che aumenti anche la fiducia in noi stessi e che iniziamo a non aver paura a proporci attivamente, rispetto alle strutture che ci imprigionano e ci bbligano di afre i progetti così e cosà perché i donanti li preferiscono scritti in questo modo.. e se vuoi lavorare devi convincere i donanti.. ma devi anche evitare di far paura ai governi, e adesso ancor meno devi spaventare i famosi investitori internazionali. Lo capite che quello che ci insegnano è la paura? E’ il conformismo di non parlare ad alta voce, di comportarsi bene a tavola, tagliarsi i capelli e andare a messa la domenica. Lo stesso processo di omologazione, con la differenza che noi saremmo quelli che dovremmo mandar fuori i messaggi di cosa fare contro questa fame e questa povertà. Ed invece .. a messa… poi scopri che i preti (e vescovi) sono diventati pedofili, e cominci a dubitare… Ecco, vi propongo di non attendere quel momento, ma di cominciare a dubitare prima, fin da adesso, ma dubitare da un lato ma assieme riprendere fiducia in noi stessi. Osate le vostre idee. Osate dire a voce alta quando vi dicono di limare di qua e togliere di là… Imparate ad avere fiducia negli altri.. sappiate che fuori da questo edificio la gente, i poveri, hanno ancora fiducia negli ideali che rappresentiamo, per cui siate degni di quelle tavole di marmo lì nell’entrata.

Bisogna incominciare ad agire; perché noi e perché adesso? Perché siamo noi ad aver scelto di lavorare contro questa povertà e questa fame, perché siamo andati nelle università e abbiamo studiato i meccanismi che perpetuano questo stato di cose, per cui non abbiamo scuse per dire che non sappiamo cosa fare. Lo sapppiamo, solo che abbiamo paura di provare a farlo, perché poi il capo non sarà d’accordo.. etc. etc… Ma dopo quando avete finito le feste del sabato sera, siete tornati a casa, stanchi della passeggiata al mare o dello shopping con gli amici.. ma vi capita mai di passare davanti ad uno specchio e dirvi: ma cosa sto facendo della mia vita? Sto ingannando me stesso e gli altri? Reagite, alzatevi in piedi e cominciate dai progetti dove lavorate, dai documenti che dovete rivedere e mettere in forma per i donanti….

Perché adesso? Chi mi conosce sa che questo faccio e questo dico da quando ho iniziato questo lavoro; a volte mi chiedo come abbiano fatto a prendermi; se dovessi passare un concorso adesso, mi brucerebbero vivo piuttosto che prendermi. Quindi adesso nel senso che ognuno prima o dopo arriverà alle stesse conclusioni che vi ho scritto qui sopra. Spero che ci arriviate e che non siate morti dentro. Spero che qualcuno legga queste pagine nei prossimi giorni, non per darmi ragione o per cercare un capopopolo, ma per prendersi in mano e cominciare a dirsi: anch’io posso far qualcosa… ecco, in quel momento varrà la pena trovarci… io intanto vado avanti.. finchè non mi fermeranno…

giovedì 15 aprile 2010

Diciannovesimo libro 2010: L'anno della vittoria - Mario Rigno Stern





L'anno della vittoria, continuazione ideale della Storia di Tönle, è quello che va dal novembre 1918 all'inverno successivo e racconta la storia di una famiglia e di un paese che devono risollevarsi dall'immane naufragio della guerra. Il lento ritorno alla vita, la fatica di riannodare i fili degli affetti e dei sentimenti, la riscoperta di luoghi e ritmi di vita perduti: Rigoni Stern dà voce alle cose, alle persone, alla natura nei loro aspetti piú autentici, testimonianze di un'umanità di confine che vince nonostante la Storia.

mercoledì 14 aprile 2010

Diciottesimio libro 2010: Storia di Tönle - Mario Rigoni Stern,

Einaudi - Collana: ET Scrittori / Tascabili

La storia di Tönle Bintarn, contadino veneto, pastore, contrabbandiere ed eterno fuggiasco è l'odissea di un uomo che tra la fine dell'Ottocento e la Grande Guerra rimane coinvolto per caso nei grandi eventi della Storia e combatte una battaglia solitaria per la sopravvivenza sua e della civiltà cui sente di appartenere.L'anno della vittoria, continuazione ideale della Storia di Tönle, è quello che va dal novembre 1918 all'inverno successivo e racconta la storia di una famiglia e di un paese che devono risollevarsi dall'immane naufragio della guerra. Il lento ritorno alla vita, la fatica di riannodare i fili degli affetti e dei sentimenti, la riscoperta di luoghi e ritmi di vita perduti: Rigoni Stern dà voce alle cose, alle persone, alla natura nei loro aspetti piú autentici, testimonianze di un'umanità di confine che vince nonostante la Storia.

lunedì 12 aprile 2010

Localismo, malattia infantile del razzismo?

Sará stata l’avanzata della Lega in Italia, oppure risultati simili raggiunti da altri partiti e movimenti in altri paesi europei, ma mai come adesso si sente parlare di localismo, presentato come una specie di soluzione ai problemi che le societá moderne incontrano, ed eventualmente come un contraltare alla globalizzazione, cosí da attirare un pubblico sempre piú vasto.

Difficile scappare da queste discussioni, cosa per cui ho deciso anch’io di dire la mia. E come mi è giá capitato in altre occasioni, lo spunto riflessivo lo prendo dal territorio dove vivo, Formelluzzo on Arrone, 30 kilometri a nord di Roma.

Si tratta di un paese di agricoltori e qualche raro pescatore che ha sopravissuto nei secoli ai margini della grande storia; contadini che lavoravano nei latifondi della Chiesa prima e poi privati, con un orizzonte che raramente andava al di lá delle mura cittadine, tanto che, ancora nel secondo dopoguerra, il viaggio a Roma, una volta nella vita, rappresentava quasi un miraggio per molti paesani. Pochi erano i paesani, un migliaio furono contati nel censimento fatto a metá del ‘800, e di molto non dev’essere cambiata la cittadina se le lotte per la terra di inizio ‘900 vedevano tutto il paese schierato, assieme al Sindaco, per occupare le terre dei padroni, e si contavano un po’ piú di ottocento persone attive.

Si conoscevano tutti quindi, nel bene e nel male. Gli stranieri entravano molto difficilmente, tanto che con quelli di Trevignano (uno dei tre paesi del lago, oltre and Anguillara e Bracciano) non si parlavano (il dialetto trevignanese era incompatibile con l’anguillarino) e le donne di Anguillara non si dovevano sposare con questi foresti.

Il boom economico italiano ha poi portato vari romani a cercare casa fuori cittá, potendosi muovere con mezzi pubblici e soprattutto privati che permettevano loro di risiedere anche fuori porta. Lí i paesani scoprono che i foresti possono anche portar soldi, per cui cominciano le prime lottizzazioni illegali in modo da vendere pezzettini di terra per costruire case che poi saranno sanate col tempo.

Questo modello è andato avanti per decenni: da un lato offrire terre e case (in realtá soprattutto case, perché avevano capito subito che era meglio farle costruire dalle ditte locali e vendere il prodotto finito) a quelli da fuori, a prezzi certo non stracciati ma nel contempo mantenere il controllo politico del paese nelle mani degli indigeni, dato che quelli da fuori erano visti come potenziali portatori di problemi.

Una societá chiusa, dove ci si sposava in famiglia, con pochi apporti di sangue esterno, non ha potuto cambiare ed anzi ha esacerbato un localismo di rapina sul territorio. Questo diventa piú evidente quando, con la ricchezza che comincia a girare, i lavori piú umili non li vuol piú far nessuno e quindi vengono gli immigrati a farli: dall’agricoltura all’edilizia, interi settori stanno in piedi grazie a stipendi bassi che vengono accettati quasi esclusivamente da quelli di fuori.

Questo localismo trasversale è il modello che abbiamo davanti agli occhi adesso: destra e sinistra lo hanno portato avanti assieme, spartendosi la torta finché è stato possibile, alternandosi, ogni tanto, al potere locale, ma senza che si notino modelli di sviluppo diversi che ci sia su un partito o un altro. E’ il localismo che tiene sotto controllo i politici locali. Una classe politica di non alto livello culturale, condizionata dalle famiglie e dai famigli, che non riesce ad esprimere altro che non sia questo vendere il territorio, prendere i soldi e metterli in banca (guardate il numero di sportelli che si sono aperti negli ultimi 15 anni dalle nostre parti) oppure tentare la via commerciale, con negozi che durano lo spazio di un’estate.

Questo è il modello di localismo che hanno in mente quelli da Varese e dintorni. Fare affari con chi capita, sfruttare chi sta sotto ma soprattutto mantenere il controllo politico nelle mani dei “locali”. Solo che è un modello malato intrinsecamente, dato che porta a sottolineare quella linea di frattura fra Noi e Voi, dove il Voi sono tutti gli altri, che non devono poter accedere alla categoria del Noi. I Voi devono portare soldi e mano d’opera, e i Noi devono poterne beneficiare. Finché la torta aumenta tutto puó stare in piedi, solo che quando cominciano le prime avvisaglie della crisi, allora ci si rende conto che i Voi sono tanti (dato che li avete voluti per far star in piedi il vostro modello) e quindi pian piano cominciano le parole velate, le differenze, i pregiudizi diventano piú forti e da lí il passo seguente è quello che porta ad un razzismo sotto traccia prima e poi sempre piú evidente.

Noi siamo nella fase di transizione: la quantitá di stranieri che vivono in paese è aumentata moltissimo, e gli “indigeni”adesso sono una piccola minoranza, che peró controlla ancora il potere. Solo che la torta non cresce e la crisi comincia a battere. Sarebbe stato bello poter discutere di questi temi, cominciare ad affrontarli prima che le cose iniziassero a peggiorare, e proprio per questa ragione avevamo fatto prima un film (Quando gli albanesi eravamo noi), poi una festa in piazza, stranieri-anguillarini, con un secondo video sulla festa stessa. L’idea era, con una giunta di sinistra, sindaco giovane e promettente, con un’economia in crescita e buoni rapporti tra gli uni e gli altri, di usare questi esempi per aprire un dibattito pubblico, guidato da una classe politica che fosse all’altezza. Si sperava che ci fosse una capacitá di usare il locale come radice di un processo di sviluppo, ma con politici in grado di capire le sfide superiori e quindi fare un lavoro pedagogico, di educazione e orientamento della base elettorale, in modo da far avanzare la democrazia. Questo è il localismo che ho in mente. Purtroppo la dimostrazione della pochezza dei nostri politici locali è stata evidente. Non si è mai voluto affrontare il tema, e quando la stessa demanda la posi al candidato (sconfitto) dell’ultima tornata elettorale, del perché non spendeva una parola sulla questione, per lanciare almeno il dibattito (considerando che anche Fini si era espresso a favore del voto locale agli immigrati), di dire qualcosa che potesse far pensare che le forze progressiste erano capaci di uscire dalle solite logiche di potere locale, e che avevano deciso di proporre una visione del territorio, una visione dove gli attori, tutti, avrebbero avuto la possibilitá di esprimersi, di esser protagonisti, ecco.. nulla di questo è successo …

Capisco quindi che non è questione di Lega, PDL o PD. La Lega ha capito prima degli altri che poteva metter radici in questo localismo senza futuro, dove si guarda avanti con gli occhi dietro la testa, sognando (anzi inventandosi) un passato idilliaco mai esistito nella realtá; ma tanto la gente ha bisogno di sogni per cui invece di farli crescere era piú semplice sfruttare questi lati piú limitati dell’essere umano. Il problema è che dall’altra parte non si è mai capito che cosa volesse dire partire dal locale per guardar lontano. Si è fatto come si faceva a destra, copiando un modello che peró geneticamente non gli apparteneva, per cui a quel punto meglio stare con la lega che almeno è grezza, localistica, senza visione di futuro, avara e profondamente razzista. Ci aspettavamo una capacitá di elaborare piú grande da parte dei partiti di sinistra, forse magari troppo idealistica, ma invece ci troviamo davanti lo stesso affarismo, senza un afflato di visione futura. Il problema è che dimentichiamo che la nostra economia sta in piedi se riesce ad esportare, cioè se qualcuno la fuori ci compra i nostri prodotti; non abbiamo la forza delle nostre ambizioni; il nostro mercato interno da solo non ci fa stare in piedi, per cui o esportiamo e portiamo a casa i bigliettoni, o non andiamo da nessuna parte. Questo per dire che avremmo interesse ad esser noi i primi ad avere una visione che vada al di lá dei confini del campanile di casa nostra, per proteggere il nostro territorio e far venire i turisti a visitarlo e portare risorse. Dovremmo essere aperti agli altri, per sperare che poi questi “altri” ci comprino le nostre tecnologie, le nostre macchine e i nostri design. Invece ci prepariamo un futuro gretto, chiuso, con i campanili trionfanti e con le proposte di sottotitolare le fiction in dialetto invece di imparare le lingue straniere.

Buona giornata a tutti

domenica 11 aprile 2010

Ricetta Xuor: salsetta x accompagnare ravioli al vapore

se vi capita di aver voglia di mangiare dei ravioli al vapore e non avete un ristorante cinese buono lì vicino, come capita a noi di Anguillara, allora potete comprarvi i ravioli al supermercato (x esempio a Prima Porta hanno una sezione di Cibi dal mondo interessanti) e, dopo averli scaldati al vapore, accompagnarli con la salsetta inventata da Xuor che vi spiego qui sotto. Dopo averla provata avrei tendenza a dire che la trovo migliore degli stessi ristoranti.. provate voi..

Ingredienti:
Salsa per Nem
Salsa di Soya
Sakè (quello che vi danno alla fine del pranzo come digestivo)
Peperoncino piccante rosso (metà)
Cipollina fresca (piccola)
Gingembro in polvere
Coriandoli in polvere

Una porzione di salsa Nem, una di salsa di Soya, mezza porzione di Sakè, peperoncino tagliato molto sottile e idem per la cipollina. Un cucchiaino (a caffé) di coriandolo e mezzo cucchiaino (a caffé) di gingembro.

Mescolare il tutto e servire sopra i ravioli.

Il signor Pietro e la sua bicicletta

Lo vedo la mattina presto, su e giù per la Mola Vecchia, faccia sole, freddo o pioggia. Ogni tanto si siede lì al ponticello, sul muretto, e chiacchiera con chi ha voglia di fermarsi a farlo. Per molto tempo mi sono chiesto il perché di questa vita, di una routine che non cambia, estate come inverno, e nemmeno la domenica (mattina).

Anch’io mi fermo ogni tanto a parlar con lui, delle sue biciclette, delle disgrazie del mondo e dei tempi andati di Anguillara. Pietro (per tutti Fischietto) ne sa di cose, ma quello che fa la differenza, credo io,è il sorriso sempre sulle labbra, che va assieme ad una dose di ironia, gentile, lieve, che fa si che la sua presenza sia diventata un’amica preziosa, che io, e credo molti altri, cerchiamo la mattina quando usciamo oppure anche più tardi quando siamo a casa ed andiamo a far le spese o comprare il giornale a mezza mattinata. Lui è lì, su e giù, con un ritmo lento, pronto a salutare e rispondere ai colpi di clacson che, chi lo conosce, gli manda.

Da vecchio anguillarino conosce molte storie del paese com’era, della gente che lo abitava e delle stranezze che facevano. Ma non vive nel passato, anzi ha mantenuto una apertura mentale e una voglia di sapere che fa di lui un buon ascoltatore, paziente ed attivo.

Anni fa mia figlia aveva anche proposto di offrirgli un telefonino perché potesse avvisare le famiglie del posto se succedeva o vedeva qualcosa di strano, dato che lui di fatto aveva ripreso le funzioni degli antichi daziari che, sulla stessa strada della Mola Vecchia attendevano i paesani che tornavano dai boschi comunali con la legna, per verificare che avessero preso solo la legna morta, altrimenti, se avevano tagliato legna nuova, dovevano pagare un dazio.

Ogni tanto lo invitiamo a casa, con la moglie ed altri amici del posto, come Nilo, di cui vi parlerò in altre occasioni. Momenti di vita semplice, leggera, fatta in comunità….

sabato 10 aprile 2010

Diciasettesimo libro 2010 - El país de la canela - William Ospina


Ganadora del XVI Premio Internacional de Novela Rómulo Gallegos 2009
El narrador es un español que cuenta cuando decidió ir a Perú a reclamar una herencia que había sido usurpada a su padre por los Pizarro. En Perú se encuentra con Gonzalo Pizarro, que le promete pagar la deuda si lo acompaña a una expedición que intenta llegar a un supuesto país rico en árboles de canela, lo que los convertirá en hombres infinitamente ricos. Pero los expedicionarios no encuentran lo que buscaban, pues la canela de dicho país no sirve para lo que esperaban. En medio de la desilusión, Gonzalo Pizarro enloquece y ordena el asesinato de todos los indios que había arrastrado a la expedición. Después de eso, deciden seguir avanzando por la selva, dominados por el hambre y las dificultades, hasta que descubren que una de las pocas esperanzas que tiene de salir de allí es atravesar el inmenso río con el que se topan en su avance. Construyen un barco e inician una travesía de más de diez meses llena de sorpresas.
... Al final, sin rumbo y sin raíces, en un día enorme pero muerto para la esperanza, le dije a ella, a la tierra que fue ella, a los àrboles que ahora eran ella, todo lo que había guardado en el corazón. Largos días hablé con mi sangre, caminando a solas por las colinas secas, ante la indiferencia del mar. Amaney, mi madre india, mi madre, había muerto a solas como murió su raza, sin quejarse siquiera, porque no había en el cielo ni en la tierra nada ante lo cual pudiera quejarse, abandonada por sus dioses y negada por su propia sangre.....

lunedì 5 aprile 2010

Buona Pasquetta a quelli che …


A quelli che non vogliono sapere che sul delta del Niger si continua a morire a causa del petrolio e del non rispetto dei diritti umani (http://www.amnesty.it/Delta-del-Niger-tragedia-dei-diritti-umani.html);
A quelli a cui non interessa sapere dove si trova, anzi si trovava Abyei, città al confine tra nord e sud del Sudan, dove i continui scontri armati hanno determinato lo sfollamento di oltre 50.000 persone e la distruzione totale della città;
A chi non ha mai sentito parlare di Hargeisa, capitale dell’autoproclamata Repubblica del Somaliland, non riconosciuta dagli organismi internazionali per cui fa ancora parte di una finzione di paese chiamato Somalia dove si stimano a quasi 3 milioni e mezzo le persone che sopravvivono grazie solo agli aiuti di emergenza;
Per quelli a cui non interessa sapere che la principale minaccia al processo di pace in Liberia sono i conflitti legati alle terre: almeno 19 lavoratori delle piantagioni sono stati uccisi e almeno altri 21 sono scomparsi vicino al confine tra le contee di Margibi e Grand Bassa nel contesto di una disputa sulla terra tra un senatore e il segretario al Commercio;
A quelli che pensano che Kivu sia un difensore dell’Inter e non una zona dove si spara prima di dire buongiorno.
Buona pasquetta anche alle donne dell’Arabia Saudita, i cui diritti continuano ad essere negati: no a pari opportunità sul lavoro, limitatissimi diritti di proprietà, di libertà di scelta riguardo al luogo di residenza e finanche di guidare la macchina.
Buona pasquetta a chi crede che l’operazione “Piombo fuso” sia un numero speciale di Tex e non un’offensiva militare senza precedenti lanciata dagli israeliani contro i palestinesi;
A quelli che credono che il Libro Verde di Gheddafi sia la bibbia dei leghisti e pensano che Idriss (Boufayed) sia quello della canzone di Biagio Antonacci e non uno degli undici incarcerati e condannati a 25 anni di galera in Libia per avere osato criticare il regime.
Buona Pasquetta a quelli che non hanno mai sentito parlare di “generazioni rubate” (stolen generations) in Australia (tra il 1910 e il 1970 oltre 100.000 bambini aborigeni vennero strappati con la forza alle proprie famiglie dalla polizia - molti di loro non avevano neanche 5 anni);
A quelli che quando sentono la Haka (http://www.youtube.com/watch?v=sSyT8X1nYHQ) danzata dagli All Blacks della Nuova Zelanda dicono “che bello”, e nemmeno pensano alle ruberie ai danni dei Maori consacrate dal trattato di Waitangi;
Per quelli che non gli interessa sapere che oltre il 50 % di tutte le proteste nella Cina rurale nasce dalla requisizione di terre ai contadini da parte dei dirigenti locali (http://www.asianews.it/notizie-it/Esproprio-delle-terre,-prima-causa-di-conflitti-e-scontri-sociali-8366.html);
Ed anche a quelli a cui non interessa sapere di Padre Marco Arana, della diocesi di Cajamarca in Peru, che da anni denuncia come stiano togliendo l’acqua ai contadini in nome delle leggi dell’economia globale http://www.missionline.org/index.php?l=it&art=1315);
A chi non é mai andato a Temucuicui in Cile (vedi foto) per vedere come si risolvono i problemi con i mapuche;
A quelli che amano tanto il Brasile, anche se non hanno mai sentito parlare di Eldorado dos Carajás (17 aprile del 1996, diciannove contadini massacrati dalla Polizia dello Stato del Parà http://www.comitatomst.it/libro2.htm).
E per finire buona pasquetta a quelli che credono che le Signore in Bianco (Damas de Blanco http://www.damasdeblanco.com/) siano una pubblicità di Dixan.

sabato 3 aprile 2010

Ricetta Xuor: vigilia di Pasqua - puree finocchi

Ingredienti: 2 finocchi grossi e 2 patate

Tagliare i finocchi a pezzettoni grossi e farli cuocere al vapore; le patate in acqua.

Quando pronti, passare al frullatore, aggiungere un po' di burro, sale e pepe....

giovedì 1 aprile 2010

Provocative thoughts: REDDe rationem

Slowly, but firmly, we are moving towards the redde rationem of the property rights question in the REDD (Reducing Emissions from Deforestation and Forest Degradation in Developing Countries) program, a collaboration between FAO, UNDP and UNEP.

I have a very limited knowledge on this, therefore I had to check the official website: The United Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCCC) agenda item on “Reducing emissions from deforestation in developing countries and approaches to stimulate action” was first introduced at the Conference of the Parties (COP11) in December 2005 by the governments of Papua New Guinea and Costa Rica, supported by eight other Parties. The challenge was to establish a functioning international REDD finance mechanism that can be included in an agreed post-2012 global climate change framework. Progress has been made and the need to meet the challenge is now reflected in the Bali Action Plan and the COP13 Decision 2/CP.13. A functioning international REDD finance mechanism needs to be able to provide the appropriate revenue streams to the right people at the right time to make it worthwhile for them to change their forest resource use behaviour. In response to the COP13 decision, requests from countries, and encouragement from donors, FAO, UNDP and UNEP have developed a collaborative REDD programme. The UN-REDD Programme is aimed at tipping the economic balance in favour of sustainable management of forests so that their formidable economic, environmental and social goods and services benefit countries, communities and forest users while also contributing to important reductions in greenhouse gas emissions. The aim is to generate the requisite transfer flow of resources to significantly reduce global emissions from deforestation and forest degradation. The immediate goal is to assess whether carefully structured payment structures and capacity support can create the incentives to ensure actual, lasting, achievable, reliable and measurable emission reductions while maintaining and improving the other ecosystem services forests provide.

Risks and potential opportunities under REDD policies and programmes have been noted by many players (NGOs, CSOs, International Specialists, IP organizations). In particular, it is becoming evident that this negotiated approach should first not be limited to seeing the forest as just a source of income (for example forests and other ecosystems hold many values for
Amerindian communities, including spiritual values which cannot and must not be valued
in monetary terms) and second that those who should have a say on these negotiations are not just Governments but also local communities, IPs and others.

In a sense, there is an order on how to approach the issue: first make sure that local communities/IPs basic land and territorial rights and right to prior consent are respected. This needs a serious engagement by all concerned stakeholders in terms of improving policies and legislations, make them effective and respected. Still a long way to Tipperary ...

In addition, strong training/enhancement capacity programs, advocacy and information should also be put in place as a precondition for any real REDD implementation. This is because before signing agreements for ‘development benefits’ or ‘development
funds’ offered by the government, local communities’ leaders and IPs leaders need to look carefully at the possible impacts of these schemes on their peoples, and their local and traditional livelihoods and territories. This means a need to look at the detail and avoid hasty decisions.

Here comes the link with what we do in terms of Community land use and territorial mapping. As has recently been expressed in a workshop organized by Amerindian Peoples Association and Forest Peoples Programme in Guyana (http://www.forestpeoples.org/documents/s_c_america/guyana_redd_ip_rights_wshop_rep_jun09_eng.pdf) “maps of traditional occupation and use can support effective land demarcation and, in programmes like REDD, could help clarify land tenure and resource use. These maps can help show the extensive resource use of indigenous peoples and can show how Amerindian peoples have names for creeks and forest areas which differ from government maps. Incorrect naming of waters, rivers and mountains on government maps has caused errors in existing titles and is hampering the extension process: indigenous land-use maps would provide accurate information to help overcome these problems. The historical information contained in community maps also demonstrates how rotational farming systems have maintained forest cover and how many of our old farms and ‘nature farms’ are found in high bush areas. Indigenous peoples in Guyana should be provided with more technical support to train indigenous cartographers and undertake mapping projects in the various regions. Existing community maps need to be updated in line with the advancements of new technology. Support is needed to help communities complete outstanding work and map areas still to be surveyed. Maps are also useful to help our communities make decisions regarding land use and development. At the same time, community maps can be used as the basis to make claims for extension to land titles and to avoid land claim conflicts”.

The point that we do want to stress is that land rights and REDD are so intertwined that local communities/indigenous communities need to clearly say that these two issues cannot be separated. If land rights issues are not addressed expeditiously and in an equitable way, local communities/indigenous peoples could have their property rights infringed and could lose benefits that are rightfully theirs.

These worries have started being expressed since the beginning of the discussions concerning REDD. Just mentioning CIFORs Director General, Frances Seymour that already in December 2007 wrote: "Since forest property rights are often very unclear, payment for carbon services could end up providing incentives for corrupt officials or local elites to appropriate this new forest value from local communities. We've seen this happen before in similar situations, and there is every reason to believe, given the kind of money now being paid for carbon credits, that it could happen again.[...] This is why efforts to secure property rights for local [...] communities should be encouraged" (http://news.mongabay.com/2007/1207-redd.html).
Others have more recently recalled this critical point: if policy makers fail to address the elephant in the room: secure and devolved property rights (Ben Caldecott: Property rights and the fight against climate change (http://blogs.telegraph.co.uk/news/bencaldecott/9909297/Property_rights_and_the_fight_against_climate_change/)
There are reasons to be worried: quoting a recent press release (March 19) by the Rights and Resources Initiative (http://www.rightsandresources.org/blog.php?id=506): INDIGENOUS Peoples were excluded when forest countries and donor governments met in Paris on March 11, 2010 to discuss a major forests and climate initiative. The parties met under an invitation from the French and Norwegian governments to start developing governance structures for the 3.5 billion USD Reducing Emissions from Deforestation and Forest Degradation (REDD) readiness funds announced in Copenhagen at the United Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCCC) COP15 last December. The UNFCCC negotiations are still far from delivering final commitments in full respect of indigenous peoples’rights.

Now we are already moving into a REDD plus, and again the risk of leaving the property rights issue out of the door is there. REDD Plus cannot be imposed on the communities. It has to be voluntary and based on communities’ understanding of the issues, their expected roles and associated benefits. This is where a Participatory and Negotiated approach to, first, Recognizing Territorial Rights and, second, approaching the REDD agenda is needed. There are ongoing experiences on this, as well as an ongoing process of methodological thinking to see how to better address these issues. The point is to get a say at the higher level where this program is implemented. This is our challenge. We hope to be able to report positive news in the months to come.

Sedicesimo libro 2010: Il giudice meschino - Mimmo Gangemi


Un magistrato indolente costretto a diventare eroe suo malgrado. Un vecchio padrino che parla come un oracolo e dal carcere orienta le indagini. Perché quelli che sembrano omicidi di 'ndrangheta forse non lo sono. Forse hanno a che fare addirittura con le navi dei veleni e le scorie seppellite nella "spianata dell'infamia". L'anima feroce e abietta della 'ndrangheta per la prima volta racchiusa in un romanzo. Un giudice muore per mano di balordi. E i balordi muoiono per mano della 'ndrangheta, che non tollera si disturbi il prosperare dei suoi affari. Almeno, cosi sembra. Alberto Lenzi, magistrato scioperato e donnaiolo, colpito dalla morte del collega e amico, si tuffa a capofitto nelle indagini. Lo instradano in una diversa direzione le sibilline, gustose parabole di don Mico Rota, capobastone della 'ndrangheta, e il fortuito emergere di elementi legati a un traffico di rifiuti tossici. Una "commedia umana" dove si muovono personaggi verissimi, contraddittori, sfaccettati, che inseguendo il proprio meschino tornaconto arrivano tuttavia a svelare una realtà che va molto oltre la 'ndrangheta.
Primo libro che leggo di Gangemi e l'ho divorato, buon intreccio, buoni dialoghi e ottimi personaggi.... rischia di essere nella top ten dell'anno....