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martedì 18 aprile 2023

Crisi climatica: una manna dal cielo (per alcuni)


 Cerchiamo di spiegare in parole semplici come si possa fare soldi con la crisi climatica.

 

Partiamo da due principi: il primo che ogni crisi è (anche) una opportunità e, secondo, che ogni impresa privata se può fare più soldi, li farà.

 

In soldoni, quando pensiamo alla crisi climatica pensiamo all’inquinamento e al riscaldamento globale. Gli occhi puntano diretti alla CO2, l’anidride carbonica che alberi, piante marine e alghe trasformano in ossigeno. Quindi se noi riuscissimo a fare in modo che piante (e il resto) aumentassero la loro trasformazione della CO2, saremmo a cavallo. 

 

Una prima possibilità è quella di piantare alberi, cosa che da decenni la FAO ripete (e monitora) e che tante industrie del settore fanno. Non vengono create foreste, come le intendiamo noi, ma semplicemente delle piantagioni forestali che regolarmente vengono tagliate così da essere vendute. Caso tipico sono le produzioni di eucalipti per fare carta per le nostre stampanti. Gli eucalipti consumano una quantità esagerata di acqua che pompano dal sottosuolo, crescono rapidamente e quindi sono molto redditizi per chi li pianta.

 

Questa era una risposta del tipo win-win nel mondo neoliberale. Si tagliavano le foreste primarie, magari accaparrandosi le terre dei popoli indigeni che le gestivano da sempre – ma senza titoli di proprietà – e si ripiantavano eucalipti, pini o altre essenze simili. Il fatto che la biodiversità si riducesse a zero era una “esternalità” che non interessava a nessuno.

 

Poi arrivò il protocollo di Kyoto, a dimostrazione che eravamo diventati tutti sensibili al tema ambientale. Il protocollo prevedeva l’operazione chiave per salvare capra (profitti industriali – bancari – finanziari) e cavoli (l’ambiente): la compensazione.

 

La mia industria poteva continuare a inquinare, a patto che compensasse questi disastri con delle buone azioni da realizzare da qualche altra parte, per esempio piantando alberi.

 

Il meccanismo di compensazione inventava quindi un nuovo mercato, quello dei crediti carbonio: inquino da una parte, mettendo tanta CO2 nell’aria, e compenso piantando alberi altrove o, più semplice, acquistando dei crediti da chi aveva piantato gli alberi al posto mio e, producendo O2 e consumando CO2, aveva acquisito dei crediti carbonio da vendere.

 

Il mercato non si è sviluppato molto, ma il principio è stato fissato. A quel punto, ci si è resi conto che al di là degli alberi, un sistema complementare era quello di interrare la CO2, proprio come il verbo lo indica, e cioè mettendola sottoterra. 

 

Qui si apre un problema diverso, e molto attuale. Il nodo del problema è quello di misurare quanta CO2 metto sotto e come posso affermare che resterà sotto terra per un lungo periodo. Si aggiunga il fatto che stiamo parlando, soprattutto, di terre agricole, il busillis diventa più complicato, perché bisogna accertarsi che certe tecniche che aiutando a interrare la CO2 vengano seguite scrupolosamente. 

 

Si inventa allora l’agricoltura di precisione o la digitalizzazione dell’agricoltura. Tutti i grandi players si sono buttati a capofitto: da Microsoft a Bayer e alle banche. 

In pratica si mettono sotto contratto dei lavoratori agricoli (una volta erano contadini ma, come ho spiegato nel libro sulla crisi agraria, oramai sono più degli operai che altro) i quali, in cambio di un pagamento addizionale, poca roba in verità, si impegnano a seguire un protocollo di tecniche particolari, usando strumenti, sementi e, spesso, prodotti chimici, secondo il buon volere del titolare, e questo per un periodo minimo di una decina d’anni. 

 

Exit la libertà del contadino di coltivare quello che considera più opportuno o vantaggioso. Exit la (bio)diversità delle colture e avanti con l’industrializzazione e la uniformizzazione delle colture.

 

L’ex-contadino si impegna anche a fornire tutti i dati necessari per mandare avanti l’ambaradam della agricoltura digitale, miliardi di dati che vanno nel cloud così che una agenzia di rating o monitoring possa controllare e, con algoritmi spaziali, stimare quanta CO2 è stata catturata. Questi valori si trasformano poi in bond, cioè prodotti finanziari immessi sul mercato dei crediti carbonio.

 

Vista da un punto di vista eco-femminista questa è una pratica che accelera la trasformazione dell’agricoltura di una volta, quella dei prodotti sani, diversificati, fatti da mani contadine, in prodotti standardizzati che poi finiscono nei nostri piatti col termine francese della “malbouffe”. Mangiamo e beviamo male, sempre peggio, così che poi oltre la fame (830 milioni, dati FAO) ci troviamo adesso con oltre 1 miliardo di obesi (dati OMS).

La qualità di quello che viene prodotto non interessa a Microsoft, Bayer o JP Morgan: il business sono i crediti carbonio che servono anche per compensare i danni causati dalle grandi centrali di trattamento dei Big-Data. Uno dei più grossi data center in uso ha bisogno di oltre 100 Megawatt (MW) di potenza disponibile (Energy Innovation, “How Much Energy Do Data Centers Really Use?” 17 March 2020, https://energyinnovation.org/2020/03/17/how-much-energy-do-data-centers-really-use/)

Con questo sistema, compensazione, crediti carbonio … non si incentiva nessun cambio strutturale nel sistema economico, anzi più si cercano forme di compensazione (aleatorie, perché tutte le stime fatte dagli algoritmi sulla CO2 catturata valgono come le previsioni al Lotto di mio nonno) più si continuerà a inquinare. Il fatto che si riesca a nascondere tutto questo dietro cortine di fumo come l’agricoltura di precisione, è ancora più preoccupante, perché è chiaro che saranno tanti i polli politici nostrani a dire che bisogna appoggiare questa ricerca in agricoltura, invece di difendere la biodiversità e la diversificazione.

Il fatto poi che gli agricoltori siano definitivamente trasformati in operai al soldo di entità che con l’agricoltura non hanno nulla a che vedere, non lascia ben sperare per il futuro.

 

 

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