Una prima generazione di leader nazionali, spesso influenzati dalle idee socialiste, portò a pensare che potesse nascere qualcosa di veramente diverso dal mondo come lo conoscevamo nelle nostre contee.
La logica della guerra fredda si impose però rapidamente, per cui i nuovi stati indipendenti, fragili economicamente e istituzionalmente, furono costretti a schierarsi da una parte o dall’altra. Il sogno di un socialismo africano si infranse ben presto di fronte al prezzo da pagare per l’appoggio sovietico (e successivamente cubano in alcuni paesi), che si sommava alle tendenze megalomani di vari di questi leader, ben presto scalzati da una serie di colpi di stato che portarono al governo dei personaggi molto inclini alla corruzione e portati verso un tribalismo che, rompendo il sogno di costruire degli spazi di armonia tra i vari gruppi etnici, anche al di là delle frontiere (emblematico il caso del progetto di unificazione tra la Guinea Bissau e Capo Verde, entrambe ex-colonie portoghesi arrivate all’indipendenza nel 1975, progetto fortemente voluto da Amilcar Cabral, che non si realizzò. A causa di un colpo di stato in Guinea nel 1980), aprì spazi crescenti e ancora oggi incontrastati, alle forze militari che presero in mano i destini di gran parte dei paesi africani.
La mancanza di infrastrutture fece sì che tutti i primi presidenti decidessero di affrontare questo scoglio centrale per promuovere il loro sviluppo. Chi dice grandi opere sa anche che, spesso, questo significa grandi debiti, e così fu, soprattutto quando, sull’onda dello shock petrolifero del 1973, che aveva ridistribuito la manna finanziaria verso i paesi arabi produttori di greggio, la necessità di impiegare in qualche modo quegli ingenti quantitativi di risorse, portò a finanziare un sinnumero di grandi progetti in Africa, mal preparati dalla Banca mondiale, e che si trasformarono in una montagna di debiti. Per porre fine a questa crisi, di cui era co-responsabile, la Banca mondiale impose i famigerati Programmi d’Aggiustamento Strutturale, con tagli radicali alla spesa pubblica, in particolare nella salute, educazione e servizi ai piccoli agricoltori. L’erba sotto i piedi veniva così falciata, chiudendo, già allora, ogni qualsiasi speranza per un futuro diverso, democratico e indipendente per i paesi africani.
Fu agli inizi degli anni 90 che i potentati del Nord, stanchi degli eccessi delle dittature che avevano aiutato a insediarsi al governo, così da assicurare i flussi di risorse verso le ex-potenze coloniali, delle riforme vennero imposte, in particolare la necessità di organizzare delle elezioni “libere” e “democratiche”. Questo perché, dall’indipendenza in poi, praticamente tutti i dittatori avevano pensato che non fosse necessario il passaggio dalle urne, dato che i popoli non erano preparati ed erano malati di tribalismo. Obbligati a farlo, la stampa internazionale elogiò queste “elezioni” che, nei fatti, servirono solo a ratificare il potere nelle mani di chi l’aveva. L’alternanza democratica è sempre stata un bene assai raro in Africa, tanto che ancora oggi, ci stupiamo se, una volta tanto, succede che un’opposizione vinca le elezioni e prenda il potere senza che arrivi subito un colpo di stato militare.
La militarizzazione dei governi andava di pari passo con la scomparsa di una stampa libera e della trasparenza nella gestione degli affari interni, il che permise un aumento considerevole della corruzione. Gli occidentali non si sono mai preoccupati realmente con questo problema, dato che, alla fine della fiera, i soldi rubati dai governanti, venivano nascosti in conti bancari presso le nostre banche, quindi servivano a finanziare il nostro di sviluppo.
Va anche ricordato che, siccome nessuno dei leader dell’indipendenza, e ancora meno quelli che vennero dopo, veniva dal mondo rurale, l’agricoltura contadina finì sempre per essere l’ultima ruota del carro del tanto anelato “sviluppo”. Si nazionalizzarono terre e imprese agricole, per continuare con lo stesso modello agro-esportatore, con la scusa di aver bisogno di soldi contanti per finanziare lo sviluppo nazionale. Ignoranti e, eventualmente, appoggiati da consiglieri del nord, formati nelle scuole neoliberali, la lotta contro i diritti consuetudinari sulle risorse naturali è stata un tratto comune di tutti i governi africani, di destra come di sinistra, e questo fino ai giorni nostri.
L’ideologia di sviluppo era la stessa, da una parte o dall’altra della cortina di ferro: estrarre plus-lavoro e risorse naturali dalla campagna per finanziare lo sviluppo industriale. Che le campagne restassero povere, non era un problema per nessun partito politico, tanto era evidente che i contadini, nelle campagne, non votavano, o, se lo facevano, avrebbero seguito le direttive del partito al governo.
Col tempo, il tribalismo che animava molti dei presidenti e primi ministri, mostrò i suoi frutti deleteri, in particolare quando successe il genocidio ruandese. In realtà, per chi, come me, ha abbastanza capelli grigi per ricordarsi del Biafra, la storia era già chiara all’epoca. Spingere un gruppo contro un altro per l’unica ragione di voler controllare, in esclusiva, i beni naturali: petrolio nel caso nigeriano, la terra nel caso ruandese.
La lezione del 1994, così come quella precedente, non insegnarono nulla ai dirigenti africani, che continuarono a soffiare sul fuoco del tribalismo e nazionalismo. E le guerre e i conflitti aumentarono in maniera esponenziale, parallelamente alla perdita di capacità di governare da parte di élite sempre più truffaldine, corrotte e violente.
Da parte nostra, europei ed americani, abbiamo aiutato questo vento, mettendo a disposizione armamenti a tutti quanti, in cambio di un accesso a tutte le loro risorse naturali, sopra e sotto suolo.
Alcuni stati hanno cominciato a rompersi, confermando la fragilità della loro costruzione, imposta dalle potenze coloniali sulla base dei loro (e nostri) interessi, senza alcun rispetto per la storia africana. La Somalia e la Libia sono due esempi sotto gli occhi di tutti, e non saranno certamente gli ultimi, vedendo cosa succede in paesi come il Mali e il Burkina.
Siamo così arrivati all’oggi dove, a una già complicata situazione creata negli ultimi 60 anni, aggiungiamo la questione religiosa, su cui soffiano i movimenti estremisti islamici, e la crescente presenza cinese che ripete gli stessi schemi da noi imposti per decenni se non secoli.
In questo contesto, la nostra Presidente del Consiglio torna a casa da Addis parlando di un’ottima missione e del ruolo che l’Italia pensa di poter giocare con il fumosissimo piano Mattei per l’Africa (che sembra ridursi al Mediterraneo nelle intenzioni di “Giorgia”) e che sembra sarà svelato ai comuni mortali ad ottobre.
Sono molto curioso di capire quale sia la filosofia ispiratrice e, ovviamente, le risorse che saranno messe in campo, ma sono altrettanto curioso di capire come si muoverà l’opposizione, in particolare il PD rinnovato di Schlein. La questione va al di là dei migranti, tema sul quale il PD avrebbe da scontare ancora parecchi anni di vergogna per i lager di Minniti, che potrebbero piacere tanto a Salvini quanto a Giorgia. Capisco che l’ossessione di questo governo sia rappresentata dai migranti neri che sbarcano sulle nostre coste, ci invadono e, nel giro di pochi anni, realizzeranno “le grand remplacement” di cui tanto parlano i cospirazionisti europei, amici di Matteo e Co. La frase a effetto: aiutiamoli a casa loro, se non sbaglio la usò già il buon Bossi qualche decennio fa, ma non si è mai sentito di alcuna analisi e proposta da parte di questo mondo politico. Non che da sinistra le cose siano andate meglio, perché a parte la solita retorica buonista, nei fatti, una volta al governo, anche loro hanno continuato ad appoggiare quella che io chiamo la CHARINESS, facendo una crasi tra la carità (charity) e gli affari (il business).
Quindi, da qui a ottobre c’è tempo per elaborare, discutere e rendere pubbliche le visioni, gli interessi che si vogliono difendere, e le azioni concrete con i relativi fondi.
Per cominciare, ricordandoci che in Africa l’agricoltura è ancora un settore importante per mano d’opera impiegata, e che nostro interesse sarebbe di rafforzare queste agricolture contadine locali, piuttosto che continuare a distruggerle come facciamo da decenni, mettiamo sul tavolo una cifra: noi europei dedicheremo quasi 400 miliardi di euro per sovvenzionare le nostre agricolture nel periodo 2023-2027. Non sto qui a ricordare come gran parte di questi soldi vada all’agribusiness e settori impresariali e non certo ai piccoli contadini, perché questa sarebbe un’altra storia.
Insomma, noi difendiamo le nostre agricolture, e oltre ai soldi, usiamo le barriere tariffarie e sanitarie, tutte cose concesse nel gran gioco della competizione tra grandi blocchi mondiali, americani, europei …
Gli africani, da quando si sono resi indipendenti, non hanno mai potuto difendere le loro agricolture. E questo non era discutibile. O così, o pomì si diceva una volta. Le scelte di politica economica sono state tutte dettate dal modello neoliberale che imperversa dalla seconda metà degli anni 70 nel mondo intero. Minimo ruolo per i governi, e massima libertà per le imprese, le banche e la finanza.
Quali intenzioni abbia Giorgia su questo tema, lo vedremo ad ottobre. Ma lo stesso vale dall’altra parte.
La “governance”: sfido chiunque a trovare un 3-4 governi che si possano dire democratici e capaci, tecnicamente e finanziariamente, di gestire, con bassi livelli di corruzione e con buona trasparenza, gli affari nazionali. Io non ne conosco molti, forse il Botswana potrebbe essere un buon candidato. Conoscendo poco il Kenya, avevo qualche speranza, malgrado il forte tribalismo, le continue lotte etniche e tutto il resto dell’ambaradam. Poi ho letto questo articolo (https://www.courrierinternational.com/article/dette-le-kenya-ne-paye-plus-ses-fonctionnaires-et-frole-la-banqueroute-budgetaire) e scopro che il buon presidente Ruto non paga più da mesi i funzionari del suo governo (a causa dei debiti che vanno ripagati).
Insomma, la realtà è fatta di governi malpreparati, corrotti, funzionari sotto o non pagati (quindi aperti alla corruzione), il tutto condito da una ideologia che vuole dare pochissimo spazio ai governi e molto spazio al settore privato. Nella situazione reale, questo significa nessun controllo su cosa facciano e come operino questi impresari privati.
Per costruire una capacità tecnica e politica in grado di affrontare i numerosi e imbricatissimi problemi generati da decenni di mal sviluppo stimolato dall’occidente, ci vorrebbe un’inversione di tendenza minimo minimo a livello di tutta l’Europa, dopodiché servono risorse e tempo. Cioè una visione di medio lungo periodo che non vedo in giro.
Sul serio qualcuno pensa che questo governo (per il momento sospendo il giudizio sul PD di Schlein) sarà in grado di proporre un’inversione di tendenza che passi per ridurre le protezioni all’agribusiness, aiutando le agricolture contadine del Sud a rafforzarsi, in primis per la loro sicurezza e sovranità alimentare, dando loro appoggio politico per una iniziativa che porti a ridefinire il protezionismo al nord e il mercato libero senza controlli ai Sud?
Onestamente io non ci credo. Sarà più facile ripetere i soliti inviti retorici, magari un mega summit, dove i paesi del Nord promettano che aiuteranno i sistemi scolastici e sanitari pubblici (sottolineo pubblici e non quelli privati) a rimettersi in piedi, che finanzieranno a tassi agevolati risorse per pagare insegnanti, infermieri/e e medici per i prossimi decenni così da rimettere in piedi le società locali. Saranno promesse che costeranno poco e non renderanno nulla, per il solito ragionamento che i contadini non votano (oramai non vota più nessuno per cui, chi se ne importa?) e, ancor peggio, che la vita media di un parlamentare o uomo/donna che faccia politica è di molto inferiore al tempo necessario per rimettere questo continente in condizioni tali da avere una società civile forte, capace di liberarsi dai troppi dittatori e dai militari che li sostengono.
Che poi, in tutto questo, qualcuno si ricordi che forse varrebbe la pena puntare sulle donne più che sugli uomini, mi pare realmente un sogno che difficilmente si avvererà. Giorgia, in quanto donna, madre e tutto il resto, potrebbe insistere su questo: una iniziativa per dare più forza alle donne africane, a partire dalla sfera domestica, condizionando aiuti futuri non solo al rispetto generico dei diritti umani, ma a un deciso cambiamento nei rapporti societali, con gli uomini che finalmente inizino a far qualcosa anche loro nella sfera domestica, e che sia lasciato maggiore spazio nella politica alle donne. Su questo prima o dopo si dovrà andare allo scontro, anche militare, con i salafisti, AlQaida Maghreb, Boko Haram e compagnia, perché a forza di lasciar fare queste generazioni di dittatori ci siamo allevati in seno il veleno dell’estremismo (presente oramai in pianta stabile anche negli USA e in Brasile) che prefigura un avvenire molto oscuro per le nuove generazioni.
Il mio invito è che Elly Schlein inizi a pensare a una visione di medio-lungo periodo, per l’Africa e non solo; che si circondi di persone esterne al circolo partitario e che un gruppo di questo genere aiuti a pensare le grandi sfide e, da lì, cosa sia possibile proporre e con chi. Sarà un lavoro immenso, che lei da sola non potrà nemmeno abbozzare, ma a me vien da pensare che ci siano le risorse umane pronte ad aiutare in questa riflessione, andando oltre la retorica abituale, e che siano capaci di pensare oltre quello che sembra diventata la nuova bibbia della sinistra italiana, e cioè l’enciclica Laudato Sì. Non è pensabile che una fetta importante della società italiana, che si riconosce nella speranza che incarna Elly Schlein in questi mesi, sia ridotta a pensare che l’unico testo fondante del rapporto tra la Natura e l’Uomo (e la Donna, caro papa Francesco, ve la siete dimenticata nell’enciclica…) sia quello scritto da un rappresentante di uno stato estero.
Coraggio, diamoci la forza e il coraggio per iniziare questo cammino.
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