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giovedì 16 febbraio 2012

Back to Powoprens (Port au Prince)

Sono ritornato a PAP, la capitale di Haiti. Due anni sono passati dal terremoto che ha messo in ginocchio la città e, per estensione, il paese intero. Il palazzo presidenziale è ancora lì, mezzo buttato giù, in attesa che qualche santo provveda a rimetterlo in piedi, anche se molti sperano questo non succeda più, dati i crimini che sono stati pensati li dentro.

Non sarà cosa facile ricostruirlo, malgrado i santi abbondino in questo paese. Ma più che santi servirebbero istituzioni, un catasto minimamente funzionante, tutte cose che non c'erano prima e non ci sono adesso.

Si arriva all'aeroporto che il sole sta tramontando e, come sempre nei paesi tropicali, pochi minuti ed è già notte. L'impatto con gli haitiani è molto "cool", sono profondamente gentili anche se molto poveri per cui è ovvio che ti stanno attorno a cercar di mendicare qualcosa o a proporti affari mirabolanti.

In giro per le strade è il buio totale, come hai già visto in tante altre capitali del sud; penso a Managua, la prima che visitai nel lontano 1983. I marciapiedi sono brulicanti di gente, che sta lì, vende, chiacchiera, fa da mangiare e mangia, beve, commercia, cammina, litiga e fa pace: insomma, vive. Tutto in mezzo ai fari delle macchine, gli unici fasci di luce che, a intermittenza, permettono di vedere dove e cosa si stia facendo. Poi, ogni tanto, appaiono i distributori di benzina che, come in tutte la capitali buie, diventano centri di aggregazione, per il solo fatto di avere della luce.

L'altro ieri è capitato un camion lanciato sulla strada che passa davanti all'hotel; era già sera e il casino abituale siu era ridotto. Così l'incidente ha fatto solo 30 morti invece del massacro che poteva essere. Ci sono ripassato stasera e non c'era già più traccia di nulla... la vita continua.

La differenza evidente con gli anni 80, quando cominciai a girare il mondo, è rappresentata dalla miriade di lucette individuali, i telefonini, che oramai sono più presenti di qualsiasi altra cosa. Servono anche come lampadine per cui in queste notti buie sono i benvenuti.

Incredibile ma vero, ma i semafori, almeno nel tratto dall'aeroporto al quartiere dove mi hanno alloggiato, funzionano e, globalmente, i furbetti in macchina, quelli che ti soprassano a destra, sinistra, sopra e sotto, non sono più numerosi che a casa nostra.

Sarà perchè è giovedì e si prepara il fine settimana, i bar cominciano a mandare musica, ma si respira un'aria calma, come avessero oramai imparato a digerire anche questa catastrofe che gli è cascata addosso.

La cooperazione internazionale si agita molto, mette a disposizione soldi, uomini e "know-how", ma dopo due anni trovi che quasi 150mila rifugiati, quelli che stanno sotto una tenda inattesa di qualcosa che non verrà, sono minacciati di espulsione perchè quelle famiglie che hanno i titoli di proprietà sulle terre, rivogliono indietro proprio quelle lì, dove sono stati creati campi per i rifugiati. La sottile linea rossa rapresentata dalla questione fondiaria fa parte del "non detto", di quei temi che, capisci subito appena arrivato, nessuno vuol sentir parlare.

Ma dopo un paio di birre, le lingue si lasciano andare, ed allora scopri l'ovvio, ciò che tutti sanno e cioè che senza sicurezza di base, sul pezzo di terra dove ricostruire casa o dove piantare alberi o mettere un piccolo sistema d'irrigazione, nessuno è disposto a rischiare, per cui tutti aspettano i progetti internazionali, che stanno alla larga da questi temi ma almeno portano un po' di lavoro, in attesa che qualcuno abbia il coraggio di metter le mani lì, dove fa male.

Domani ci organizzeremo e andremo al sud a visitare una delle zone dove vorremmo provare a fare un' esperienza nella direzione di un futuro catasto rurale. Proveremo a mettere assieme istituzioni di governo, ONG locali, noi delle nazioni unite e i contadini e contadine della zona dove stiamo lavorando.

Una speranza, piccola, ma almeno proviamo a cominciare dall'inizio. Haiti è oramai allo sbando, ma questa gente non merita di essere abbandonata, rimettere in piedi il paese richiederà anni, decenni, e richiederebbe tutto quello che non abbiamo nemmeno noi: trasparenza nella politica, facce affidabili, fiducia e capacità... insomma, ci proviamo.. avanti..

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