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venerdì 29 giugno 2012

Verso l’anno internazionale dell’agricoltura familiare (2014)

Verso l’anno internazionale dell’agricoltura familiare (2014) Cosa serve questa scelta che fanno le nazioni unite di dedicare un anno a temi (o prodotti, tipo la patata, la quinoa, oppure alle cooperative) particolari? Essenzialmente a richiamare l’attenzione mondiale su un certo tema, sensibilizzare governi, settori privati, consumatori etc. a quel prodotto o quel tema che, si pensa, possano poi servire nella lunga lotta contro la fame e la povertà nel mondo. La scelta di dedicare un anno all’agricoltura famigliare viene dalle pressioni esercitate dal basso da una serie di organizzazioni contadine (http://www.familyfarmingcampaign.net/) sulle Nazioni Unite che hanno così deciso di promuovere questo tema per l’anno 2014. Alla FAO tocca il compito di lavorare con le organizzazioni promotrici di questa campagna, per sensibilizzare governi e altri attori sull’importanza di questo settore. Punto di partenza: a scala mondiale sono pochissimi i paesi che hanno priorizzato questo tema, fin’ora. Come sappiamo bene anche in Europa, l’essenziale dei fondi della Politica Agricola Comunitaria va a finire alle grandi aziende ed imprese, e in misura molto ridotta ai piccoli coltivatori famigliari (www.aiab.it/file/PAC%20127%20Ferrante.doc). Fuori dai confini europei, in America latina esiste un interesse crescente, anche sulla spinta del Brasile che, per primo, ha dato un forte peso al Programma di Appoggio all’Agricoltura Famigliare (PRONAF). Questo ci serve per capire che non sarà facile far capire come mai, in un momento quando le pressioni da parte di grandi gruppi economici (privati e pubblici) aumentano sui governi per poter accedere a grandi superfici di terra, la scelta dovrebbe essere – al contrario - di priorizzare le varie e diverse agricolture famigliari, i piccoli pescatori, le popolazioni nomadi e pastorili, gli indigeni etc. Di fatto giochiamo la partita in trasferta, il che ci impone di avere argomenti forti e validi nonché un attivismo e una mobilizzazione forte e organizzata. Dovendo convincere un pubblico di decisori politici che, se non è ostile, non è particolarmente sensibile al tema, dobbiamo lavorare a trovare la Silver bullet (una o piú) che risponda alla domanda numero 1: PERCHE’ UN GOVERNO DOVREBBE METTERE SOLDI SUL TEMA AF? Se riusciamo a trovare una risposta a questa domanda, poi arrivano le altre: COSA FARE? Cioè quali misure specifiche (dall’accesso alle risorse naturali, agli inputs, al credito, all’assistenza tecnica, ai mercati etc. etc.). E, finalmente, l’altra domanda chiave: QUANTO MI COSTA? Secondo me, il punto d’entrata dovrebbe essere di tipo economico. Investire nella AF conviene. Perché? L’argomento principe, nella mia visione, è legato al costo comparato della creazione di un posto di lavoro e di stabilizzazione di un modo di vita per una famiglia tipo fra stare in campagna e insediarsi in città. La battaglia si gioca nelle campagne, ma soprattutto sulle buone terre, quelle che interessano tutti, dai complessi agroindustriali ai piccoli contadini e i pastori. Abbiamo abbastanza evidenze che dimostrano come le terre di alta qualità (le Very Suitable) non solo non possono più aumentare ma al contrario iniziano a regredire. Quelle che invece esistono ancora in quantità (ed anzi aumentano) sono le terre degradate che avrebbero bisogno di forti investimenti. L’agricoltura “moderna” cerca le terre buone, perché dati gli alti costi della ricerca, la redditività (necessaria per rientrare con le spese) la raggiungono solo su quelle terre. Risultato è che le terre più degradate hanno meno pressioni.. (il grabbing è selettivo, e per questo più preoccupante ancora). Il disegno delle grandi corporations (private e pubbliche, come è il caso della Cina) è di aumentare le dimensioni produttive delle aziende agricole per raggiungere delle economie di scala come nell’industria tradizionale. Questo non serve solo per gli eventuali miglioramenti produttivi ma va di paro con un peso molto più forte nelle economie locali e poi su fino alle nazionali ed oltre. Il risultato è che si tende ad andare verso sistemi molto intensivi, molto fragili (vedi il caso del latte contaminato prodotto dal gigante cinese Mengniu http://www.leziosa.com/forum/messages.asp?imsg=499&ifor=2) e, soprattutto, molto sovvenzionati (http://www.lexpress.fr/actualites/1/economie/agriculture-une-inexorable-tendance-a-la-concentration-terrains-de-campagne_1092268.html). Se noi ci limitiamo a discutere sulla efficienza comparata della grande impresa agricola versus quella di taglia famigliare, non centriamo, a mio giudizio, il problema che abbiamo di fronte come “società”. La scelta di privilegiare le grandi corporations si poggia sulla visione storica dell’aumento delle dimensioni produttive delle aziende agricole europee (per le quali abbiamo la possibilità di avere dati dall’anno 1000 fino ai giorni nostri). Ma in realtà quello che non si vuol vedere è la dimensione sistemica del tema: l’aumento della produttività in agricoltura ha sì permesso di aumentare la dimensione fisica e ridurre la quantità di mano d’opera, ma questo passaggio ha preso un senso compiuto solo quando dall’altra parte si è creata una forte domanda di mano d’opera (rivoluzione industriale) che, a quel punto, aveva bisogno di mano d’opera (per le fabbriche) per cui era nel suo interesse appoggiare la rivoluzione meccanica in agricoltura per liberare le braccia agricole. Oggi quindi, al di là della discussione sulla efficienza comparata dei due sistemi, il punto centrale è lo stesso: al di là dell’agricoltura, il resto dell’economia va verso sistemi più Labour Intensive o più Capital Intensive? Mi pare che non ci siano molti dubbi su questo, ed è qui che sta il punto centrale della questione: se il sistema economico mondiale aumenta l’intensità di capitale, vuol dire che, per produrre la stessa quantità di prodotto finale avrà bisogno di meno manodopera. Ora é anche vero che si generano nuovi bisogni e nuove possibilità, ma è altrettanto evidente a tutti che il problema Lavoro è un problema per tutti i paesi del mondo, in misura drammatica per le nuove generazioni. Già così dovrebbe essere evidente l’interesse a aiutare il settore dell’agricoltura familiare per la semplice ragione che, finché stanno in campagna, hanno costi di vita più bassi, come ben sanno tutti gli economisti. Se, al contrario, incentiviamo la loro uscita, con politiche che favoriscano il grabbing, con sussidi alle grandi corporations etc. alla fine otterremo solo di privatizzare i benefici (per le corporations, che, alla fine, nemmeno pagano le tasse) e privatizzare le perdite (che resteranno sul groppone dello Stato, cioè di noi tutti, come sussidi necessari a facilitare l’inserimento urbano di queste famiglie). E’un modello NON sostenibile né economicamente né socialmente. Chi l’ha capito per primo, a livello dei capi di stato attuali, è il Presidente della Colombia, Santos. Lo svuotamento delle campagne colombiane, causa violenza e grabbing (due fenomeni collegati) ha prodotto una quantità enorme di “desplazados” che si sono insediati nelle periferie delle grandi e medie città. Non essendoci abbastanza soldi per rispondere a tutti i loro bisogni di base, il risultato finale è stato una degradazione crescente dei sistemi di vita (i “livelihoods”) di tutti quanti, i loro come quelli di chi viveva lì vicino. Solo la “clase alta”, i ricchi, hanno potuto restarne fuori, ma non per molto, perché poco a poco la miseria ha cominciato ad avvicinarsi anche a casa loro, in termini di insicurezza essenzialmente. Il risultato è che, appena eletto da una maggioranza di destra e con l’appoggio del presidente precedente (del quale Santos era stato il Ministro dell’interno) che pensava di continuare così, per interposta persona, una politica militare, Santos ha dichiarato che il suo obiettivo era di restituire 2 milioni di ettari di terre portate via ai desplazados, in modo da ricreare tessuto sociale e presenza fisica sul territorio e ridurre le zone di degrado urbano. Non sarà affatto facile tradurlo in pratica, ma quel che importa qui notare è i ragionamento che ci sta dietro: i settori dell’agribusiness che appoggiavano la candidatura di Santos avevano interesse a continuare con la politica precedente, che socializzava le perdite e privatizzava, per loro, i benefici. Santos invece mette davanti gli interessi della società colombiana, nemmeno quelli dei desplazados e basta. Il popolo colombiano ha bisogno di pace e prosperità e questo passa per ripopolare il paese, ricreare economie locali, posti di lavoro etc. e il cammino più “semplice” (fra virgolette, perché le resistenza saranno enormi) passa per rafforzare le piccole economie agricole locali. Quindi, se l’ha capito anche un Presidente di un paese in guerra, forse non dovrebbe essere impossibile farlo capire anche ad altri paesi. Anni fa avevamo realizzato anche un piccolo lavoro di ricerca sul costo comparato, e i risultati erano molto evidenti: se non ricordo male il rapporto era di quasi dieci a uno. Bisognerebbe quindi estendere questo tipo di riflessioni, in modo da poter includere non solo i costi diretti, ma anche quelli indiretti e i vari servizi che un’agricoltura contadina rende al territorio e quindi alla società. Sappiamo bene che anche nel mondo dell’agricoltura famigliare esistono settori più legati al territorio e alla sua sostenibilità ecologica e sociale, ed altri più rivolti alla dimensione capitalistico finanziaria; i primi funzionano su logiche di medio-lungo periodo, quindi la sostenibilità è un tema centrale, mentre i secondi, che funzionano su logiche sempre più di breve e brevissimo periodo, sono interessati dai segnali dei mercati di Chicago e non da quelli che possono dalla madre Terra quando la degradano. Esiste quindi un continuum; a noi interessa mostrare come, appoggiando le agricolture locali si spenda meno (costo comparato) e ci siano anche altri benefici, non direttamente valutabili in termini monetari, che fanno sì che la scelta da fare sia quella lí e non un’altra. Si tratta di argomenti legati alla biologia, alla biodiversità, alla bellezza paesaggistica (a questo proposito vi invito a leggere il libro Fossi e cavedagne benedicon le campagne, di Carlo Poni (http://www.mulino.it/edizioni/volumi/scheda_volume.php?vista=scheda&fbt=1&ISBNART=09786) , nonché ai prodotti, alla cultura etc. Quindi lanciamo un messaggio nella bottiglia: se qualcuno stesse lavorando sulla questione dei costi (e benefici) comparati tra politiche di appoggio alla ruralità (sia all’agricoltura famigliare ma piú in generale all’insieme delle attività che fanno di un territorio uno spazio vivo socialmente e economicamente) e quanto ci costerebbe (in termini di politiche pubbliche) dover investire nelle zone urbane per viabilizzare l’inserimento delle fasce contadine espulse dalle zone rurali, ed avesse voglia di condividere qualche riflessione, sarebbe molto apprezzato.

1 commento:

  1. Che tematica interessante!

    Le politiche agricole di molti paesi in via di sviluppo spingono proprio la commercializzazione dell'agricoltura ma raramente affrontano il nocciolo della questione a cui ti riferisci tu: se sia sostenibile (socialmente-ecologicamente ed economicamente) e realistico (quanti saranno i piccoli agricoltori che riusciranno a sfangarla? O stiamo dicendo che commercializzazione = corporativizzazione?). Una delle questioni agrarie pressanti è proprio quella del lavoro, di un numero crescente di piccoli agricoltori che perdono la terra, fonte principale di sostentamento, a fronte di zero opportunità di entrare nel mondo del lavoro in agricoltura (come dici tu sempre meno labour-intensive) o tantomeno altrove. Questo, secondo me, è anche il frutto di politiche miopi che spingono per la commercializzazione, corporativizzazione e privatizzazione indiscriminatamente, senza considerazione degli impatti sociali. Forse è un po' demodé parlare di classi e conflitti di classe mentre, secondo me, è una questione sempre più pressante. I modelli prevalenti di sviluppo creano sempre più disuguaglianze e differente tra nuove classi sociali emergenti e categorie di nuovi poveri senza terra né lavoro e sempre più ai margini della società .

    Domanda: secondo te qual'è il vantaggio di utilizzare la chiave di lettura della agricoltura familiare rispetto a quello dei piccoli produttori. Non è che questo ci crea più problemi di definizioni?

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