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lunedì 27 maggio 2013

L’evidenza del Monopoli



Come dicevo in precedenti post, essere a casa in malattia permette di aver tempo per pensare. E una delle cose a cui penso è il progressivo accaparramento delle risorse naturali, terra in primis.

Mi è tornata in mente l’eterna disputa fra i neoliberali, sostenitori della centralità del mercato, e i loro oppositori, fra i quali mi iscrivo. E l’immagine del Monopoli mi è venuta da sola. Più o meno tutti abbiamo un’idea di come si gioca. Si distribuiscono in quantità uguali dei soldi e poi delle proprietà che, essendo di valore diverso, fin dall’inizio creano una certa asimmetria, ma non enorme, fra i giocatori. Possiamo assimilare questo a un mercato abbastanza perfetto, dove non ci sono giocatori senza nessuna proprietà e senza un soldo, ma dove più o meno si parte a carte uguali e, soprattutto, regole uguali. E’ autorizzata la negoziazione, anzi stimolata e ognuno persegue così i propri obbiettivi.

Poi si parte gettando i dadi, e mano a mano che si va avanti, la dinamica del gioco porta a che qualcuno si ritrovi proprietario di Parco della Vittoria e simili, i più cari ed altri restano a Vicolo Corto e Vicolo Stretto, le scartine che non valgono granchè. Tutto democratico, nessuna corruzione e regole trasparenti. Nessun intervento dello Stato, nessuna politica fiscale etc. etc. e pian piano il mercato dimostra che uno prende tutto e vince e gli altri restano per strada. Il mercato quindi non tende a equalizzare ma anzi a differenziare le posizioni, accelerando mano a mano che si va avanti, fino alla completa spoliazione di chi ha meno.

E’ come un fiume che dalla sorgente inevitabilmente scende al mare. La sorgente sono i poveri, che portano acqua al mare magnum dei ricchi. Il fiume non può andare controcorrente, questa è la sua natura. Per cui se non mettiamo in atto un sistema in grado di bilanciare questa situazione, la spoliazione continuerà, ancora e ancora.

La storia recente dell’accaparramento delle terre, o land grabbing come tutti lo chiamano, dimostra quanto scarsa sia la dimensione storico-processuale da parte di quanti se ne interessano. Non ho l’ambizione di aver letto tutti gli articoli o libri scritti sull’argomento, ma mi son fatto un’idea al proposito. In una società sempre più presa dall’immediatismo, quello che si cerca di sapere è quanti ettari siano stati presi, quali clausole contrattuali e da parte di chi. Interessi legittimi, ma che non aiutano a capire il sistema nel quale questo fenomeno si inserisce, da dove venga e dove rischia di andare a finire.

Fin dal 1968 si erano poste le basi, culturali, per andare a fregare le risorse naturali in quei paesi, e continenti, dove erano presenti in forze. Hardin, con il suo famoso e discusso articolo sulla tragedia dei beni comuni è riuscito nell’impresa di ripetere il falso storico dei protocolli dei Saggi di Sion, usati per giustificare l’odio contro gli ebrei e poi il nazismo.

La tragedia dei commons voleva mettere in chiaro per i nostri benpensanti, di tutti i colori, che sti poveri africani, se lasciati per conto suo, con quei sistemi tradizionali di usare le risorse naturali, avrebbero portato alla rovina del continente. Era falso, ma l’idea passò. E ancora oggi ci dobbiamo difendere contro queste tesi che vengono contonuamente ripetute da chi non ha mai fatto del terreno o non ha mai voluto capire l’intrinseca superiorità, in quelle condizioni, dei sistemi consuetudinari rispetto alla individualizzazione delle proprietà.

La domanda che uno si fa riguarda sempre il perché delle cose. Hardin voleva solo scrivere un articolo o aveva altre idee per la testa, forse nemmeno coscienti per lui stesso? E come mai questo articolo, che avrebbe dovuto essere cestinato fin dall’inizio, ha avuto così tanto successo? Beh, la storia è abbastanza semplice: faceva parte di un mainstream politico ideologico tendente a delegittimare fin dal nascere i sistemi di accesso, uso e gestione delle risorse naturali dei nascenti paesi in via di decolonizzazione, per confermare la superiorità storica dei nostri sistemi politico-legislativo-instituzionali.

Il tarlo che questi negretti non sapessero gestire le loro risorse andava installato di pari passo con l’idea di una cooperazione benevola dal nord al sud dove lo scopo principale era invece di assicurare il controllo di quelle risorse in solide mani straniere.

A questo fece seguito la tempesta dei programmi d’aggiustamento strutturali negli anni ottanta che riducevano le prestazioni dello Stato nei settori chiave di salute, educazione e servizi agli agricoltori, in modo da liberare il terreno da eventuali intrusi locali. A questo si accompagnava il rispolverare delle teorie di Ricardo sui vantaggi comparati per cui i sistemi agricoli africani dovevano modificarsi per adattarsi al mercato globale: specializzarsi in produzioni da export, caffè, cacao… e lasciar perdere i prodotti di autoconsumo. Come una droga: funziona la prima volta, ti da un’euforia che ti invita a riprenderla e poi ti rendi conto di essere diventato schiavo. Alla Costa d’Avorio, uno dei tanti (oltre 25 in Africa) paesi messi sotto il controlo dei PAS, era stata “ordinato” di rafforzare le proprie produzioni di caffè e cacao (dato che nel vicino Ghana la situazione politica era molto instabile, contrariamente alla Costa d’Avorio) e lasciar perdere la produzione di riso per autoconsumo, che tanto c’era il riso tailandese sul mercato a un prezzo che avrebbe permesso a tutti di mangiare a sazietà. In soli tre anni la Costa d’Avorio è diventata mangiatrice di riso tailandese, e non appena il prezzo del caffè e del cacao sogni scesi, l’altra faccia della medaglia si è mostrata: debiti crescenti per comprare il riso e placare il malumore urbano, aumento del lavoro nelle piantagioni per aumentare la produttività perché, nel frattempo, altri paesi nel sudest asiatico diventavano competitivi per il caffè (Vietnam, a quell’epoca), seguendo le ricette di indovinate chi? Gli stessi che avevano consigliato la Costa d’Avorio.
Il paese si è rovinato, è iniziata una guerra civile di cui forse cominceremo ad occuparci alle radici, cioè il problema fondiario (che non esisteva prima dell’intervento degli esperti internazionali). Va anche ricordato la scarsissima propensione, allora come oggi, ad occuparsi della casta di corrotti che erano stati installati alla guida dei nuovi paesi del sud, foraggiati dagli interessi del nord perché continuasse la stessa politica di spoliazione.

Il problema non è la Costa d’Avorio o il Ghana. Il punto è di capire a cosa servivano, nel medio lungo periodo questi aggiustamenti. Lo stiamo vedendo da parecchi anni. Ma andiamo per ordine.
Fine anni 80 arriva il terzo pilastro: la teorizzazione in buona forma della mercantilizzazione delle terre. In altre parole: con una mano si riducevano drasticamente, o eliminavano, istituzioni pubbliche, politiche e programmi in favore delle agricolture del sud, e con l’altra si teorizzava il mercato come miglior allocatore di beni economici (il significato della terra era stato ben perimetrizzato dentro le salde mura dell’economia).

A forza di spingere, via università, ONG, organismi internazionali, la questione dei mercati della terra si stava imponendo. Esistevano centri e persone che lavoravano su altre visioni, ma i rapporti di forza erano quelli che erano. In quegli anni anche due grossi paesi come le Filippine e il Brasile erano tornati nel girone dei democratici, rovesciando le dittature che li avevano governati per anni. In tutti e due i casi la questione agraria si impose da subito, grazie a movimenti contadini appoggiati da ampli strati (alla base) della Chiesa cattolica. Questo pose il problema delle riforme strutturali delle campagne, al centro del dibattito: da un lato questi movimenti nascenti, MST, Via Campesina etc. e dall’altro i fautori della via mercato. Venne anche teorizzata una riforma agraria attraverso i meccanismi di mercato. Delle prove vennero fatte in molti paesi, Colombia, Brasile, SudAfrica, Filippine etc.. Malgrado i continui aggiustamenti di tiro (e di nome), non ce n’è uno solo che abbia funzionato. Ma di questo non se ne parla, si è continuato a criticare il modello centrato sullo Stato e le sue istituzioni. Modello fallito, che non ha saputo autoregolarsi etc. etc. Tutto vero, per carità, ma dall’altra parte non sono riusciti a far meglio.

Grazie alle lotte contadine fu possibile non soccombere completamente sotto il dio mercato, malgrado che la riconcentrazione delle terre avesse ripreso nella stessa direzione di sempre. Per questo, a un certo punto, provammo a rimettere al centro del dibattito la questione strutturale della riforma agraria, con un’analisi critica del ruolo dello Stato, i suoi fallimenti, ma anche ripetendo alto e forte che bisognava tornare a investire sulle istituzioni statali, dall’educazione rurale alla volgarizzazione agricola, al credito etc. Ma non era solo questo: per noi bisognava anche democratizzare queste istituzioni, favorirne un’evoluzione più partecipata, aperta al dialogo e alla collaborazione, partendo dall’assunto del riconoscimento dei diritti territoriali storici delle comunità locali ed indigene. Fu chiaro chi venne e chi non venne a Porto Alegre nel 2006. E fu chiaro anche chi bloccò ogni tentativo di portare avanti i principi della dichiarazione finale.

Oggi assistiamo quindi, sul terreno del Monopoli mondiale, al dispiegarsi completo delle batterie dell’accaparramento:
-          Istituzioni statali deboli o, semplicemente, assenti a livello locale; e simultaneo non riconoscimento dei ruoli di gestionari delle risorse da parte delle comunità locali
-          Classi politiche facilmente corruttibili, mai seriamente messe in causa da chi, all’inizio, aveva facilitato la loro ascesa. Quindi ricattabili o, almeno, facili prede da parte degli interessi del nord
-          Quadri politico-legislativi insufficienti e quasi inesistenza di servizi e istituzioni giuridiche nel sud, corollario di quell’aggiustamento strutturale di cui si parlava prima
-          Pressioni crescenti da parte del Nord, che fomenta conflitti, si prende territori, obbliga milioni di persone ad andarsene dai loro luoghi tradizionali e
-          Continua invenzione di giustificazioni (ammantate da generiche posizioni a favore dello sviluppo, sostenibile..) per non solo continuare ma anzi accellerare lo spolio delle risorse.

Sarà perché le risorse si riducono, cosa che sappiamo da oltre un decennio, che la popolazione aumenta e che, in certi settori popolazionali, nuovi bisogni portano a cercare nuovi beni (non più solo le terre, ma anche le terre rare, prodotti fondamentali per l’industria telefonica). Quindi non si cerca più solo il petorlio, il gas, i diamanti e pietre preziose, il legname, il carbone, ma anche l’aria che producono le foreste del sud, sempre evitando scrupolosamente che i veri attori, comunità locali, possano far parte di queste negoziazioni.

Le asimmetrie sono aumentate, di informazione, di potere; le comunità locali sono assediate da una molteplicità di programmi di sviluppo che non hanno mai chiesto, senza peraltro ottenere mai una risposta alle domande basiche di riconoscimento dei loro diritti. I falchi sono tanti, ed anche divisi fra loro, ma anche i movimenti contadini non hanno più l’impeto di dieci anni fa.

La situazione sembra senza sbocco, ma quel che mi preoccupa è che nemmeno dal basso si ritorna a pensare a ripartire dalle fondamenta. Oggi abbiamo paesi che, per scelte deliberate dei loro governi, hanno provocato dinamiche di desertificazione enormi nei loro paesi. Rivertire questo processo richiederà decenni, se mai ne saranno capaci. Le buone terre (e acque) vengono prese dalle città in espansione, dai campi di golf, dai residence turistici etc. etc… quindi sempre meno terra buona, pianeggiante e fertile, quella terra dove potrebbero dare dei buoni frutti le nuove varietà, che oramai sono arrivate ai limiti genetici. Per cui per mandare avanti la baracca bisogna mantenere alte dosi di fertilizzanti, altrimenti la terra si sterilizza del tutto, prodotti chimici, diserbanti, defoglianti, nipotini del Napalm etc. Ma questa non potrà essere la soluzione proprio perché inevitabilmente le terre buone si riducono, e queste varietà costano troppo per metterle su terre degradate o in declivio o non perfette. Su queste altre terre, che si potrebbero recuperare, andrebbero molto bene le varietà locali, uscite da selezioni contadine di centinaia (o migliaia) d’anni. Ma una lotta senza quartiere è stata intrapresa contro la diversità genetica. Delle 8000 specie esistenti in natura, alla fine ci troviamo con tre di loro a coprire il 60% del mercato globale.

Per rimettersi a recuperare le terre ci vorrebbero prima di tutto Stati sovrani e istituzioni capaci di lavorare: ma il 95% della ricerca in agricoltura è nelle mani dei privati, le stesse compagnie che producono i semi, i prodotti chimici e alla fine arrivano a controllare i mercati, cioè cosa ci finisce nel piatto.

Avremmo anche bisogno di una rivoluzione culturale, che parta da chi la fa l’agricoltura, dalle diversità di produttori e produttrici, rivalorizzando il loro ruolo storico di mantenutori di paesaggi, di diversità e di sapori e colori che poi cerchiamo quando andiamo a comprare gli alimenti.

Il grabbing attuale andrà avanti, perché l’inerzia di un movimento lanciato trent’anni fa non si potrà fermare nel giro di 5-10 anni. Il rischio che incorrono questi Trust che si stanno accaparrando le risorse sono le rivolte locali che, col prezzo delle armi in discesa, potrebbero diventare delle rivolte armate. Ma anche a questo ci hanno pensato, spostando progressivamente la governance mondiale fuori dagli Stati, che vengono però lasciati soli davanti alle loro cittadinanze, così da riempire il ruolo di responsabili diretti,  e facendo da scudo per il magma economico-finanziario che ci sta dietro. Questo meccanismo lo abbiamo visto all’opera in questi ultimi anni, con la crisi nella quale siamo immersi: la colpa è dello Stato e del suo governo, e i benefici sono sempre privatizzati per le banche ed altri centri di potere.

In questo modo, l’orizzonte probabile sarà fatto di conflitti contro lo Stato, ribellioni più o meno popolari, ma senza intaccare il meccanismo che ha generato questo fenomeno.

Possiamo fare qualcosa? Credo, anzi voglio sperare di sì, ma questo implica una riflessione seria e profonda su una politica di alleanze fra i movimenti contadini, privilegiando le parti che uniscono rispetto a quelle che dividono, alleanze che devono andare oltre, cioè integrare i pochi centri di ricerca pubblica, quelle ONG che sul serio si battono contro questi fenomeni, e cercare di appoggiare chi, nei centri di potere, governativi, intergovernativi e organismi internazionali, cerca ancora di portare avanti queste lotte.

La difficolà è di saper leggere cosa sta succedendo, evitare di perdersi per strada sui vari trabocchetti che vengono continuamente preparati e fare squadra. I rapporti di forza non sono favorevoli, ma se in più continuiamo a giocare separati, l’unica cosa sicura sarà che avremo perso senza nemmeno lottare.  

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