Quando nel libro “La crisi agraria ed eco-genetica spiegata ai non specialisti” raccontavo come le grandi del Big Data stessero manovrando per prendere il controllo della questione food e risorse naturali (capitolo sul neocolonialismo digitale), non sapevo ancora nulla di quello che Mirca Madianou ha etichettato come “tehnocolonialism”. In sintesi, e ovviamente in nome del progresso, si sta spingendo per una accelerazione dell’uso di dati biometrici per la consegna degli aiuti umanitari. In pratica, i potenziali beneficiari (per esempio gli Huthi dello Yemen) devono registrare i propri dati biometrici, così da facilitare il controllo al momento della consegna. Si eviteranno truffe (che però sembrano essere state sempre di piccolo o piccolissimo livello, ricordandoci poi che parliamo di popolazioni che letteralmente muoiono di fame), i controlli saranno rapidi e sarà possibile monitorare le quantità consegnate, così da rendere felici i Donatori che insistono su un appoggio sempre più ragioneristico della cooperazione umanitaria.
Tutti applaudiscono questa sperimentazione a larga scala, o quasi tutti. Gli Huthi, preoccupati della mancanza di risposte dalle agenzie ONU rispetto all’uso dei dati registrati, che ovviamente non si limitano a nome, cognome, età o cose simili, ma contemplano anche situazione sanitaria, luogo di residenza attuale e di provenienza storica, e avanti così, aprendo la strada a molti usi perniciosi; bene, gli Huthi hanno deciso di non sottomettersi a questa sperimentazione, e la reazione ONU è stata di espellerli dal programma.
Questo chiarisce bene la poca volontarietà del processo e, ancor peggio, la mancanza di chiarezza su cosa ne faranno i detentori dei dati raccolti. È noto già da tempo che l’algoritmo alla base delle tecnologie biometriche presenta dei pregiudizi razziali e di genere. Se a questo aggiungiamo che manca totalmente il consenso, e che nei paesi dove viene utilizzato (per ora la sperimentazione è nel contesto umanitario, nuovo terreno di gioco per il settore privato, tipo Yemen, Bangladesh, Giordania…) non esiste nessuna legislazione che protegga i dati dei singoli individui, ecco che le preoccupazioni aumentano, dato che la possibilità di vendere questi dati è già una realtà. I dati vengono sempre scambiati con i paesi dove si opera, nonché con i partner dei programmi, tra cui sempre più gruppi privati, tipo la Bill e Melinda Foundation solo per fare un esempio.
Chi avesse bisogno di chiedere: ma cosa se ne fanno di tutti questi dati? Dovrebbe fare un corso di aggiornamento rapido, anche on-line, dato che quello dei dati personali è il business del futuro (e anche già dell’attuale mondo).
Sapere tutto dei rifugiati nei campi ha anche un altro vantaggio: posso discriminare chi non mi piace per ragioni religiose, o di genere, così come qualsiasi persona che abbia degli antecedenti di tipo politico. In questo modo la tecnologia compie il suo ruolo orwelliano, di facilitare la messa in sicurezza dittatoriale, delle popolazioni sotto l’egida di chi controlla il potere.
Ecco perché, ancora una volta, dobbiamo preoccuparci ogni volta che qualcuno ci parla di tecnologie innovative per risolvere problemi complessi come quello dei rifugiati e degli aiuti alimentari (lo stesso mi verrebbe da pensare per l’agricoltura elettronica, la e-agriculture di cui parla tanto la mia ex organizzazione). Che ci siano degli aspetti positivi nessuno lo esclude, ma la realtà è che queste tecnologie vengono introdotte per altre ragioni, sempre più evidenti a chi vuol tenere gli occhi aperti.
Consiglio la lettura di questo articolo: https://journals.sagepub.com/doi/10.1177/2056305119863146
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