Nel 1946, uno sconosciuto medico originario di Recife, nel nordest del Brasile, pubblicò i risultati delle sue ricerche di terreno sotto forma di un libro: La Geografia della Fame. Da lì in avanti il libro sarebbe stato tradotto in decine di lingue, conosciuto in tutto il mondo e l’autore, Josué De Castro, sarebbe arrivato alla presidenza del Consiglio della FAO nei primi anni 50. Il punto centrale della sua tesi era il legame strutturale tra la struttura agraria (il latifondio che imperava nella regione) e la fame che faceva strame di moltitudini di contadini e contadine, arrivati a mangiare terra pur di avere un po’ di sale da mandar giù.
De Castro lottò per far avanzare questa riflessione dentro la FAO e, finalmente, nel 1966, venne realizzata la prima conferenza mondiale sulla riforma agraria a Roma. Questo succedeva nel bel mezzo di una crisi alimentare mondiale e la consapevolezza che bisognasse fare qualcosa per una maggiore giustizia sociale ed uguaglianza cominciava a trovare i suoi apostoli. Anche Papa Paolo VI insistette su questo punto, e cioè come i problemi delle strutture agrarie “siano possibilmente tra i più difficili, ma anche i più vitali e i più urgenti che l’umanità debba affrontare nei nostri tempi”.
La montagna non partorì nemmeno un topolino, nessun paese operò per una riforma agraria radicale e si dovette arrivare al 1979 perché, per la seconda volta, la FAO chiamasse a raccolta i governi dei paesi membri, questa volta stimolati anche dalle prime ONG, per discutere e mettersi d’accordo su un piano d’azione concreto di riforme da portare avanti nei paesi.
Sfortunatamente, pochi mesi dopo questa conferenza arrivarono al governo i neoliberali, Thatcher e Reagan, e così tutti gli impegni (blandi, ma non inesistenti) furono buttati nella spazzatura. Passarono così altri 27 anni, la fame aumentava nel mondo e i paesi sviluppati si ingegnavano a proporre la via del mercato come soluzione alla crisi alimentare, in questo secondata dall’idea che fosse meglio affidarsi all’agricoltura detta “moderna”, cioè l’agribusiness. Nel Sud si moriva di fame e si incominciava a scoprire che anche al nord la fame (e la pessima alimentazione) cominciava a mordere.
Nel 2006 ci ritrovammo a Porto Alegre, e quella volta riuscimmo anche a tenere ai margini la Banca Mondiale e dare molto spazio ai movimenti contadini, in particolare La Via Campesina. Anche la questione dei diritti delle donne venne affrontata in maniera più approfondita del passato e, insomma, uscimmo da lì convinti che questa conferenza avesse segnato un cambio di passo. Il fatto che rappresentanti della Via Campesina fossero venuti a ringraziarci pochi giorni dopo la fine, dicendoci chiaramente che secondo loro si apriva una nuova stagione dove potevamo far pressione assieme, fu un segnale di speranza e, oggi, di rammarico per l’occasione persa.
I rapporti di forza non erano a nostro favore e lo capimmo poche settimane dopo, con la reazione organizzata della Banca mondiale e dei paesi europei che proposero, non imposero attenzione, che la FAO si mettesse a lavorare su un tema nuovo ed urgente (per il quale non aveva il mandato), il cambio climatico, e per fare questo una pacca di milioni sarebbero stati messi a disposizione, ad una sola condizione: che ci si dimenticasse degli impegni presi a Porto Alegre.
Le finanze esangui della FAO dettarono la strada da seguire (non dimenticando come ai piani alti i dirigenti fossero imposti dai governi occidentali per cui i margini di manovra del direttore generale erano molto esigui), e ancora una volta la questione della terra venne messa da parte.
I conflitti oramai erano diventati pane quotidiano, al Sud come al nord, si iniziava a parlare di Land Rush e la questione dell’immigrazione diventava preminente nelle agende governative del nord. I paesi sviluppati, memori del Gattopardo, inventarono allora una proposta di direttive volontarie sulla terra, fatta apposta per permettere ai governi e a chi controllava la terra e le risorse naturali (sempre di più compagnie private occidentali e, successivamente, fondi d’investimento e qualche paese asiatico) di non fare nulla a parte vaghe promesse. Il tutto riempiendo i giornali di buone intenzioni, di progetti che non portavano a nulla e che, in tutto questo, la parola riforma agraria venisse cancellata da ogni parte. In quegli anni io dirigevo ancora l’ultimo baluardo, una rivista FAO creata nel 1963, che si intitolava giustamente: Riforma agraria, colonizzazione e cooperative. Dal 1993 mi era stata proposta la direzione, ed arrivai fino alla conferenza di Porto Alegre. Nei mesi successivi, coerentemente con la strategia di mettere in sordina la questione strutturale, mi venne tolta la direzione e venne anche cambiato il nome al giornale.
Siamo arrivati al 2023, i dati FAO ufficiali parlano sempre di circa 830 milioni di persone che soffrono la fame, ma se guardiamo con attenzione i dati sulla povertà della Banca mondiale, usando una soglia più realista, 10 dollari al giorno, vediamo che solo il 35% della popolazione mondiale si trova al di sopra di quel livello.
Sono passati 77 anni da quando l’allarme venne lanciato, e nulla è stato fatto (non parlo, per carità di patria, delle riforme agrarie della Russia leninista e staliniana oppure di quella di Mao in Cina, dove i morti si sono contati a milioni) e, peggio ancora, nulla si intende fare. Di fame si muore adesso e subito, cioè ben prima di avvertire le conseguenze del cambio climatico, ma nessuno oramai protesta più per questo.
Abbiamo lasciato crescere una agricoltura senza contadini, dominata inizialmente dai grandi proprietari, poi dalla tecno-chimica e genetica modificata e finalmente dalla finanza che ci porta a mangiar merda come dicono i francesi, senza che si abbia più la forza di reagire. I giovani, salvo poche eccezioni, non si interessano a questi temi (le reazioni in Francia ai mega-bacini fanno un po’ sperare, ma per aver frequentato quel paese dalla metà degli anni 70, non mi faccio illusioni sulla durata di questi movimenti) e si sono buttati sulla questione climatica ad occhi chiusi.
Ovviamente che anch’io penso sia una questione molto importante, ma siccome fra poco è ora di pranzo, penso ancor di più che sia chiave sapere cosa mangiamo e, ancor di più, cosa non possono mangiare quei milioni di affamati ai quali aggiungiamo oramai le decine di milioni di obesi dovuti alla povertà e all’impossibilità di mangiare in maniera equilibrata. Se non torniamo a lottare per delle agricolture contadine sane, e al loro interno per una giustizia sociale che vada contro il patriarcato dominante nelle famiglie contadine, francamente non penso che le agitazioni attuali sul clima porteranno a qualche frutto.
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