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martedì 9 agosto 2022

Tornerà di moda il concetto del carrying capacity?


 

In sintesi, per carrying capacity (capacità di carico) si intende la popolazione massima che un ambiente può sostenere indefinitamente

 

I principali fattori che influenzano la capacità di carico sono:

·      Tasso di consumo delle risorse

·      Tasso di produzione delle risorse

·      Tasso attuale di danneggiamento dell'ambiente

·      Tasso attuale di recupero dell'ambiente

 

L’estate che volge al termine sarà sicuramente ricordata per le tante criticità climatiche che si stanno sommando l’una all’altra, contribuendo, forse, a stimolare i policy makers ad agire in maniera più concreta.

 

In questo scenario, che sembra destinato a diventare “normale” negli anni a venire, è possibile che torni di moda, rivisitandolo, il vecchio concetto di capacità di carico. 

 

Politiche migratorie, di uso del suolo e finanche politiche demografiche, potrebbero trovare nuovi argomenti a partire da questo argomento.

 

L’idea di fondo è che, con la crescente massa di dati a disposizione, nonché le capacità di trattamento degli stessi, si possa arrivare a modellizzare, per un determinato ecosistema, quante siano le potenzialità massime in termini di persone e/o animali. Certo, siamo coscienti, come ce lo ricorda anche la strategia del Ministero dell’Ambiente, che “né la capacità di carico né i carichi critici sono sempre determinabili con precisione; l’azione ambientale deve quindi necessariamente essere improntata al principio precauzionale secondo le linee definite in ambito comunitario.”

Prendiamo il caso dell’acqua, fattore particolarmente critico quest’estate: nel nord del mondo abbiamo assistito a una trasformazione (e semplificazione) dei principali sistemi agrari, verso colture forti consumatrici di acqua per unità di suolo. L’esempio che mi viene in mente è quello del mais, che necessita 1400 litri d’acqua per produrre 1 solo chilo di prodotto. Ci sarebbe anche chi fa peggio, tipo il riso, che ha un fabbisogno di 1900 litri per chilo di prodotto. Ovviamente se ci spostiamo sulle produzioni animali, i valori aumentano ancor di più, per arrivare a valori compresi tra i 25 e i 100mila litri di acqua per un chilo di carne bovina.

 

A livello mondiale la FAO stima che il 70% dell’acqua potabile sia usata dal settore agricolo, quasi il 20% da quello industriale e il resto per il consumo umano (nello specifico italiano la situazione è un po’ diversa: 40% dall’agricoltura).

 

Con le capacità di calcolo attuali, possiamo realizzare delle stime ragionevolmente corrette delle disponibilità idriche di un territorio in condizioni normali o, come è il caso quest’anno, di forte stress idrico. Possiamo poi calcolare in maniera ancor più corretta la quantità d’acqua usata dai principali sistemi produttivi nonché per il consumo umano. A questo punto, contando sulle capacità previsionali dei centri di meteorologia e simili, possiamo iniziare le modellizzazioni che permettano di mantenere, o recuperare, un certo equilibrio per quell’ecosistema. Questo può implicare di dover imporre scelte draconiane nei sistemi produttivi agricoli (numero massimo di capi bovini accettabili per quel territorio, superficie massima per le colture forti consumatrici d’acqua e/o direttive (incentivi) per sostituire questi sistemi con altri a minore impatto (in altre parole, battersi contro l’agrobusiness per favorire le agricolture contadine ecologicamente più sostenibili). Lo stesso si potrebbe dire per il settore industriale, per arrivare anche ai piani regolatori comunali e/o regionali per quanto riguarda la possibile espansione demografica (aree edificabili).

 

In paesi come il nostro, sono facilmente prevedibili critiche e problemi con l’uso di strumenti di questo tipo, soprattutto per le resistenze coalizzate che si opporrebbero a livello sia locale che nazionale a qualsiasi strumento che cerchi di regolare in maniera sostenibile l’uso del suolo presente e futuro.

 

Resta il fatto che alternative non ce ne sono molte, a parte continuare l’eterno sistema delle emergenze, con scelte di ultimo minuto, scoordinate e senza una visione, di conseguenza senza una vera base democratica. Usando un approccio basato sulla capacità di carico, opportunamente tarato e soprattutto integrando modalità di partecipazione della popolazione per quanto riguarda le scelte da fare per il futuro, senza deleghe in bianco alle sole amministrazioni pubbliche, così da coinvolgere per far crescere la partecipazione, la trasparenza e la credibilità delle scelte da operare, forse cominceremo ad uscire dall’ottica emergenziale, cara alle destre ma che oramai ha attecchito anche nelle forze di centro-sinistra.

Organismi nazionali (tipo ISPRA) e sovranazionali (tipo agenzie ONU) potrebbero iniziare a riflettere su questa possibilità, considerando anche le esperienze già fatte nei decenni passati. La base istituzionale in Italia già esiste, come confermato dalla Strategia d’azione ambientale per lo sviluppo sostenibile in Italia del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio: I massimi valori accettabili di deposizione o di concentrazione nell’ambiente di prodotti di scarto dell’attività umana, inquinanti e rifiuti, sono denominati carichi critici e vanno fissati in funzione della tipologia, delle caratteristiche chimiche specifiche e delle proprietà di accumulazione e biodegradazione. Il massimo flusso di risorse estratte e smaltite da un dato ecosistema è la sua capacità di carico (carrying capacity).” 

 

 

 

 

 

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