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venerdì 12 febbraio 2016

Senza timor di parlare di Timor Leste

Giochetto facile, lo riconosco. Vabbè, allora rimettiamo un po’ d’ordine nelle tante cose viste e sentite in questi pochi giorni di missione.

Timor è un paese giovanissimo nel consesso delle Nazioni Unite, battuto solo dal Sud Sadan che è arrivato dopo di lui (2011 per Sudan e 2002 per Timor). Timor ci arriva dopo secoli di colonizzazione stracciona da parte portoghese, partiti nel 1975 lasciando uno spazio che è stato subito occupato dall’Indonesia. La lotta per l’indipendenza è costata sudore e sangue, ma finalmente ce l’hanno fatta.
Timor non è un paese solo, ma sono tanti gruppi etnici (pare più di una trentina), ognuno con le loro lingue e tradizioni. Non hanno una vera lingua in comune, un po’ come succede nelle Filippine dove nella zona della capitale si parla un dialetto locale, e poi altrove servono altre lingue. Il portoghese è stato scelto come lingua ufficiale, assieme al dialetto (lingua locale?) che si parla a Dili, il Tetum. L’inglese è ovviamente molto usato dalla comunità internazionale e probabilmente qualcuno deve anche parlare il Baasa indonesiano. Quello che è sicuro è che appena si lascia la capitale per entrare nelle campagne, si entra in mondi dove nè il Tetum nè il portoghese servono molto. Il rischio evidente è che nella costruzione del nuovo Stato indipendente, la fretta faccia fare scelte e scrivere leggi e politiche che fuori dalla capitale nessuno sa leggere e meno ancora a capire. Inutile dire che l’educazione della popolazione locale non è mai stata una priorità dei colonizzatori o degli occupanti successivi.

Quindi il dramma numero uno è come costruire velocemente uno Stato che deve entrare nella globalizzazione, avendo risorse umane limitate e di basso livello. Soldi ne sono arrivati, sia attraverso la cooperazione sia dal petrolio di cui dispongono. Non molto a dire il vero perchè la democratica Australia ne ha fatte peggio di Bertoldo per truffarli e ancora oggi quello che in qualsiasi altro paese sarebbe spazio marino nazionale viene occupato dagli australiani in modo molto poco legale. Inutile dire che si tratta del braccio di mare dove sotto ci sono le riserve petrolifere. Non eccelse ma che potrebbero essere molto utili al piccolo paese.
Ricco di foreste e, secondo alcuni, di ottime possibilità per un turismo di quelli da ricchi, lo sviluppo sarebbe frenato dalla mancanza di una legge sulla terra. Per questo siamo qui, a vedere se riusciamo a mettere in piedi un progetto per occuparci di queste rogne come facciamo in tanti altri paesi conplicati.
Parlando con la gente in campagna, la sensazione è sempre la stessa: i sistemi consuetudinari assicurano una certezza sufficiente su chi siano gli aventi diritto alle terre, anche senza aver nulla di formalizzato. I tentativi precedenti, da parte dei portoghesi e indonesiani, di dare dei titoli a loro cittadini su pezzi di buona terra, si sono rivelati fonte interminabile di conflitti fino ad oggi irrisolti. Il problema non è la mancanza del mitico “pezzo di carta”, ma il fatto che quelle terre siano state usurpate a chi ne aveva diritto senza nessuna negoziazione e compensazione. Per cui, partiti i portoghesi e indonesiani, le comunità rivendicano i loro antichi diritti. Poi ci manca solo che alcuni detentori di quei vecchi titoli si rifacciano vivi e, invece di metterli in galera come sarebbe doveroso, il governo stia addirittura ad ascoltarli. Si crea lavoro per gli avvocati, ma non si risolve nulla. Questo trasmette una sensazione di incertezza ai possibili investitori e quindi nulla si muove. L’ex Presidente della Repubblica aveva già vetato una proposta di legge che, a suo dire, non proteggeva abbastanza i diritti delle comunità, per cui il testo è tornato indietro e finchè gli equilibri politici non si stabilizzano, tutto resta bloccato.

Situazione tragica pensano alcuni, situazione ideale penso io. Esiste uno spazio per poter lavorare a dimostrare che i diritti consuetudinari sono una base solida anche per fare business, sempre e quando si riesca a far capire  l’importanza di includere le comunità e i loro leaders nelle negoziazioni, traingolando con la necessaria presenza dello Stato. Questo in estrema sintesi l’approccio che proponiamo, che si vuole abbastanza umile e progressivo nel senso di partire da pochi casi, con comunità con cui si abbiano buoni rapporti di fiducia, costruiti negli anni, e cercare degli investitori sensibili a queste tematiche. Rafforzare le capacità delle comunità di saper negoziare, nonchè dei servizi tecnici dello Stato, farebbe parte del pacchetto.

Ci vorrà tempo, ma il non far nulla rischia di essere peggio. Correre a far approvare una legge in fretta presenta due rischi evidenti, come già successo in altri paesi: il primo è che sia poco discussa e quindi la gente e le istituzioni non la sentano come loro; il seondo riguarda il tipo di modello che queste corse alla formalizzazione dei diritti si portano dietro: quello che per fare “sviluppo” sia necessario dare certezze giuridiche agli investimenti stranieri su terre dove non ci siano rogne con le comunità, quindi separare le zone di sviluppo (farne delle zone speciali o simili) dalle zone delle comunità che, in un paese povero e con strade ancora mal messe, istituzioni fatiscenti e senza soldi, resterebbero ai margini di ogni processo di integrazione.

Una corsa così sappiamo a cosa porterebbe: migrazione dalle campagne verso la città (a Timor il 75% della popolazione vive ancora in campagna) e maggiori conflitti dato che le comunità non accetteranno mai di farsi spoliare di terre che considerano loro.

Il fatto che siano separati geograficamente e un po’ isolati, con lingue diverse e con una unica cosa in comune, il senso di sfiducia nei confronti di chi viene da fuori.. non sono ragioni sufficienti per non provarci. Come al solito sarà più difficile convincere i donanti che i contadini e le contadine.

Se riusciamo a convincere il governo, cosa non ovvia, dato che molti hanno interessi personali da difendere (proprietà terriere) nello stau quo attuale, pian piano proveremo a lanciare delle operazioni pilota. Se riusciremo ad avere un progetto così, pian piano magari inizieremo anche ad esplorare cosa si possa fare per quanto riguarda i diritti delle donne, considerate ancora come l’ultima ruota del carro.

Ne avremo per vent’anni almeno... vediamo se riusciamo ad iniziare...

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