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venerdì 14 luglio 2017

Ricordi d’infanzia


Giornata uggiosa qui a Kofangan, ne approfitto quindi per metter giù dei ricordi che mi girano in testa da alcuni giorni.

Avevo nove o dieci anni e, una volta arrivata la primavera inoltrata, quando si cominciava a sentire nell’aria l’estate che si avvicinava, era il momento di ripensare al nostro terreno di gioco. Già una volta avevamo dovuto cambiare posto, dato che ci avevano costruito sopra la fabbrica Cangini, uno che doveva fare agende o cose del genere. Avevamo ripiegato sul terreno delle Arti Grafiche, un pezzo di terra senza rete che ne impedisse l’accesso e che, contando sulla benevolenza del guardiano della fabbrica, padre di uno dei nostri amici, Paolo come me, ma milanista, potevamo usare per giocare a pallone.  

In teoria facevamo parte anche noi del quartiere Ferrovieri, per cui avremmo potuto usufruire del campo da calcio dietro la chiesa, ma in realtà la nostra zona era sempre stata a metà strada fra i Ferrovieri e Sant’Agostino (dove avevano un campo ancora migliore). Non eravamo ne carne ne pesce e quindi dovevamo arrangiarci. Gli altri campi erano già preda di altre bande che vivevano lì vicino per cui era una battaglia persa in partenza.

A primavera quindi bisognava occuparsi di andare a cercare i pali che sarebbero serviti per le porte e le traverse. Il gruppo di solito era composto da Sergio Rigo, Mirko “puntalina” Bernardotto e Roberto “Jek” Trentin. Armati di menaroto, andavano nei campi di Scalchi, laggiù verso il Retrone, dove adesso hanno fatto un parco molto bello. All’epoca erano solo i campi di Scalchi, nome mitico, mai visto in faccia. Una volta tornati con i pali, di fatto iniziavano lavori sul terreno. In qualche modo bisognava tagliare le erbacce e, come facile immaginare, i volontari non erano mai troppi. Ricordo che io prendevo un falcetto in garage da mio padre, e stando attento a non tagliarmi le gambe, andavo a fare la mia parte. Il terreno non era nemmeno tutto piano: una parte più bassa e umida nelle sere d’estate ospitava le ultime lucciole che abbia visto in vita mia. Quando pioveva si formava una specie di piccolo stagno, e Dio sa da dove, saltavano fuori girini e poi rane. Ma poi tutto seccava e quindi si poteva giocare tranquilli. La terra era dura, caderci sopra non era mai un piacere ma a quell’età quello era l’ultimo dei problemi.

Il più importante era quello di delimitare il terreno di gioco. Non era concepibile giocare senza aver definito cosa fosse dentro e cosa fosse fuori. La forma del terreno era grosos modo rettangolare, e quindi cercavamo di arrangiarci dando un senso geometrico che correggesse la sua forma iniziale. Fondamentale era poi definire il cerchio di centrocampo, o almeno un centro del campo da cui cominciare e le due aree di rigore. Usavamo del gesso che andavamo a prendere in una discarica in viale dell’Industria, dopo Cangini e prima di Stocchiero. Qualcuno buttava in quell’angolo sperduto vari avanzi di lavorazione e noi dentro a rimestare con le mani. Lo facesse oggi uno dei nostri figli li meneremmo col bastone. 

Delimitare il terreno era un rito che ci permetteva di entrare nella zona dei grandi, quelli che avevano un vero campo da calcio. Eravamo fieri di quel lavoro che doveva ripetersi ogni primavera. Anche le porte erano fatte un po’ a occhio, si parlava con quelli che sarebbero stati i portieri per chiedere loro se erano troppo grandi o se poteva andar bene così. Per le traverse era ancoraggio perché tanto eravamo piccoli e non ci saremmo mai arrivati, quindi le mettevamo un po’ alte, così, come capitava.

A quel punto restavano alcune casette da regolare: innanzitutto il pallone. Veri palloni di cuoi ce li sognavamo per cui ci accontentavamo con quello che trovavamo. Una volta mio fratello mi portò in regalo da un suo viaggio all’estero, un pallone di cuoi, con camera d’aria, una sciccheria. L’unico problema era che la fessura per introdurre la camera d’aria era molto grande e poi bisognava stringere con dei lacci di cuoi e poi ripassarli sotto per evitare che si riaprisse. Bisognava stare attenti a non colpirei testa proprio lì, perché di restava il marchio delle stringhe per una settimana. Il pallone era anche pesante, cuoio d’altri tempi, per cui non potevamo certo tirare delle “fucilate” come in sogno ci sarebbe piaciuto.
Risolto anche questo aspetto, bisognava far le squadre. Eravamo in quella fascia d’età di passaggio, dalla giovinezza più totale (quando bastava buttar lì un pallone e tutti gl correvano dietro, essendo quello lo scopo: arrivarci vicino e dare un calcio per mandarlo avanti, non importa dove)alla fase di quasi adulto quando il giocare a calcio già era diventato quasi iù un gioco ma una prova dove si doveva battere l’altra squadra. Cioè quando eravamo due gruppi opposti, e cominciavi a tifare o per l’uno o per l’altro.

Noi eravamo lì in mezzo. Le squadre si facevano e disfacevano all’inizio e alla fine di ogni partita. Due “capitani” più o meno autoproclamati facevano a testa o croce e cominciavano a scegliere i compagni di gioco per quella partita. Ovviamente tutti cercavano di accaparrarsi i migliori, lasciando le scartine per ultime. Ivano Trentin, detto “bain” (come i pallini da caccia per quanto era veloce) era una delle prede più ambite. Ma anche mio cugino Giorgio Taldo, solido difensore con propensioni all’attacco. Mirko Bernardotto, detto “puntalina”, perché tirava spesso di punta, cosa assolutamente riprovevole, faceva parte delle scartine. Paolo Centofante, figlio del guardiano delle Arti Grafiche, era invece un’ala molto veloce, quasi come Ivano, per cui anche lui era tra gli ambiti. Sergio Rigo era una roccia che era meglio avere nella tua squadra che contro. Ogni tanto venivano anche i cugini Fin, che abitavano di fronte al campo. Erano più grandi di noi per cui avevano già altri interessi da curare, ma per la voglia di tirar quattro calci, ogni tanto capitavano. Giancarlo era il peggiore dei due, nonni sapeva mai se valeva la pena passargli la palla o far finta di non vederlo. Caio invece sembrava un signore di passaggio, ogni tanto ci metteva la sua buona volontà e allora ti rendevi conto che non era un buono a nulla, ma poi mollava tutto e girava per il campo camminando come avesse paura di sudare. Fu lui a darmi un soprannome che pochi ricordano: Faso Tuto Mi. Questo capitò durante una partita quando invece di passargli la palla e magari segnare, decisi di voler scartare mezzo mondo, neanche fossi stato Vendrame, e lui da lontano mi chiamò così: ciò, fato tuto mì, ma la vuto pasare quea bala? Non la passai e me la feci fregare miseramente. 

Non importava molto chi vincesse o chi perdesse, ma lo stare assieme. Non c’era molta cattiveria, anche se ovviamente, ognuno voleva vincere. Ma una volta finita la partita, non restava nessuna animosità per il semplice fatto che era chiaro a tutti noi che eravamo un gruppo solo, per cui non aveva nessun senso litigare fra di noi. Una comunità, ecco cosa eravamo, senza saperlo. Una comunità aperta dove si accettavano anche i faresti, tipo Zanetti, “el mato”. Non sapeva colpire il pallone nemmeno per sbaglio, il suo regno erano le moto da cross e la sua passione fare avanti e indietro da Sant’Agostino fino ai Ferrovieri, se ci arrivava, su una ruota sola. Lo sentivi arrivare da lontano, testa sempre girata da una parte per sentire meglio il rombo del motore, a tutto gas ruota davanti per aria. El mato Zanetti, raramente, ma capitava anche lui. Poi andò a sbattere contro un albero e la storia finì lì.

Non avevamo arbitri, perché non se ne vedeva l’utilità. Nessuno osava far finta di cadere, un po’ alla Chiarugi, quell’attaccante della Fiorentina che un paio d’anni prima aveva anche vinto il campionato, con lui che appena arriva dentro l’area di rigore bastava un soffio di vento e cadeva sempre invocando rigori a ogni piè sospinto. Nessuno di noi avrebbe osato fare il Chiarugi, perché la sanzione dell’esclusione sociale sarebbe stata automatica. Si poteva essere bravi o buoni a nulla, il gioco era fatto per giocare e non per battere gli altri. Quindi niente imbrogli. Poi col tempo saremmo cresciuti anche noi, e tutto questo rimase un ricordo che era sparito in qualche parte della mia memoria.

Non avevamo spettatori, forse perché eravamo troppo brocchi, o perché non avevamo le magliette che rappresentassero una squadra contro l’altra. Per quello bisognava andare ai Ferrovieri la domenica mattina, quando giocava la Ronzani e, se erano i più giovani a giocare, rilasciavano entrare senza pagare. Poi quando scendeva in campo la Terza Categoria, che per noi era come la serie A, allora bisognava pagare, e noi sparivamo tutti, non avendo mai un soldo in tasca. Nella Ronzani ci giocava mio cugino, che poi andò anche a fare un provino col Varese, che allora giocava in serie A, e lo presero anche. Credo avesse quindici anni, insomma dovevamo essere attorno al 1974. Sfortuna volle che quell’estate la Ronzani fosse invitata a un torneo in Germania, e ovviamente ci andò anche lui. I tedeschi erano dei duri, e lui si fratturò un menisco. All’epoca questo era un segnale di morte. I tempi di recupero dopo l’intervento, erano lunghissimi, praticamente restò un anno senza giocare. Partì lo stesso per Varese, dove faceva scuola e studio, ma non riuscì mai a recuperare realmente e venne scartato. Tornò a casa e finì a giocare nello Zané, senza gloria ma senza altre rotture.

La storia delle magliette era un problema che si cercava di risolvere a livello individuale. Quando ero piccolo, penso siano stati i miei genitori a regalarmi la maglietta dell’Inter, col numero di Mazzola. Poi Paolo Centofante arrivò con una maglia del Milan fiammante nuova, ma eravamo già verso i dodici-tredici anni. All’epoca, non potendo più usare la maglietta dell’Inter, troppo piccola, recuperai una maglia nera che trovai a casa e ci feci sopra, con un nastro che attaccai io stesso con ago e filo, il numero uno. Non so dove trovai anche una stella e la misi davanti sul cuore. L’Inter aveva vinto il campionato e il suo portiere era Lido Vieri, da Piombino. Non avendo altre magliette, decisi quindi che quell’anno avrei fato il portiere. Non per passione, solo perché dovevo allinearmi con la maglia che avevo.

L’anno successivo, di ritorno dall’Inghilterra, mio fratello mi portò una maglia che disse essere quella del Manchester United. Non essendo lui un specialista del calcio e non essendo mai stato io, e i miei amici, in Inghilterra ci credemmo tutti. Il dubbio venne a un tipo che giocava a rugby e che trovavate i laccetti che avevo davanti, nonché le fasce colorate orizzontai e non verticali, facessero pensare piuttosto a una maglia da rugby e non da calcio. La cosa non mi importò un fico secco. Disegnai il numero undici, forse in ricordo di Mariolino Corso, vai a sapere, dato che non conoscevo nessun giocatore inglese a parte Bobby Charlton, e avanti a correre. 

Dicevo prima del senso di comunità allargata che avevamo. C’erano un paio di personaggi, un po’ forestieri per la nostra zona, uno veniva quasi dai Ferrovieri, e l’altro addirittura da San Giorgio in Gogna (quasi l’altro mondo a quell’epoca), che si univano ogni tanto a giocare con noi. Il primo, Gianni Fava, era un po’ ritardato; ragazzo gentile, più grande di noi, non faceva del male a una mosca, solo che la sua stazza muscolare era parecchio più sviluppata e quindi bisognava ricordargli di non esagerare, perché si andava sempre a finire al tappeto quando si cercava di prendergli la palla. Gianni era figlio di un operaio della Olivotto, dove lavorava anche mio padre. Le proteine non erano mai state troppe in famiglia, e quindi vedendo il padre si intuiva da dove fosse venuto il figlio. Un giorno il pane decise di colorarsi i capelli. Capitava ogni tanto che agli uomini venisse questo ghiribizzo. Di solito però si andava su colori semplici, marrone o nero, il tutto per coprire i primi grigi all’orizzonte. Lui scelse, va a capire perché, un color arancio carota. Mio padre lo battezzò subito: Nuvola Rossa. E Gianni Fava diventò così il figlio di Nuvola Rossa.

L’altro tipo era più preoccupante. Giravano voci su di lui, che fosse un “culattone”, cosa che, all’epoca, racchiudeva l’insieme di tutte le nefandezze possibili. Come era abbastanza comune in quegli anni, anche lui aveva il suo soprannome: Gianni “Ossi”, mai saputo il perché. Gianni Ossi aveva sempre una borsa con lui, dove teneva probabilmente giornaletti “sporchi” da far vedere ai ragazzi. Va detto che io non ho mai sentito nessun caso di denuncia da parte di persone del quartiere, probabilmente essendo un soggetto ai margini, poveraccio senza lavoro probabilmente e forse di tendenza omosessuale, questo faceva di lui un soggetto da evitare.

Alcune volte vennero a giocare anche altri ragazzi dei Ferrovieri, probabilmente invitati da mio cugino. Uno, Gianni Mina, andò poi a finire a fare un provino alla Spal, allora in serie B. L’altro era Paolo Quaresima che però non era un granché a calcio, la sua passione essendo il basket. Poi, essendo più grande d un paio d’anni, aveva anche adocchiato una ragazza che abitava dopo la una nostra e prima di Santagostino, la “Cia" Giaretta, che faceva furore col suo Fantichino, sigaretta in bocca e occhiali da sole. 

Forse per colpa di Quaresima, ma anch’io provai a darmi alla pallacanestro come dicevamo. Gigi Lumasini e Mirko Milan erano le due torri e pivot, Quaresima, i due Cattin e Guglielmini gli altri pezzi forti e poi, per completare, qualche ragazzetto alle prime armi come il sottoscritto. Non feci una gran carriera, solo due partite. In entrambi riuscii fare due canestri, e uno dei Cattin, il più rabbioso, mi soprannominò “cecchino”. Ero tutto contento e avrei tanto voluto continuare, ma la seconda partita andammo a farla in trasferta al Mercato Nuovo: decisione presa all’ultimo minuto senza possibilità di avvisare casa. Tornai più tardi del solito, io felice per i due canestri, mio padre molto meno. Il consiglio fu di cambiare sport.


Non era facile all’epoca, perché a parte il calcio ufficiale, via Ronzani, che però passava per una selezione che non avrei mai superato, e tolta la pallacanestro, non c’era altro. Beh, c’erano cinque ragazzi che volevano metter su una squadra di pallavolo, a cui mancava il sesto. Ritrovai in quel gruppetto il mio vecchio amico Zorro, poi un paio di colleghi del “Canova”, la scuola di geometri che avevo iniziato, Icio Uraghi, altro compagno d’infanzia e non ricordo chi fosse il quinto. Ogni tanto veniva giocare con noi il cugino di Zorro, molto bravo, però faceva parte di un altro quartiere e di un’altra squadra, preci se volevamo esistere, dovevamo essere in sei anche noi. E così fu. Durante un 5-6 anni giocai a volley, non più pallavolo, ma già volley-ball: arrivammo anche ad avere uno sponsor, un nome ufficiale e maglietta e pantaloni: l’Argine volley-ball era nato, a fianco del più famoso e quotato Argine Basket. Ma lì stavamo già diventando grandi, e cominciavo a perdere di vista Mirko “puntalina", Ivano “bain”, Jek e tutti gli altri.

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