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lunedì 20 agosto 2018

Haiti: un esempio dell’inutilità degli interventi di emergenza mal concepiti



Gennaio 2010, un terremoto provoca oltre 200mila morti nella disastrata mezza isola di Haiti. Il circo dell’umanitario parte in tromba: agenzie ONU, cooperazioni bilaterali (americani, francesi, canadesi, brasiliani…), ONG a non finire, insomma tutti vogliono “far qualcosa”.

Sono passati oltre 7 anni e mezzo e, come ricordava la FAO pochi mesi fa:FAO/Haïti: Le pays est au bord « d’une insécurité alimentaire grave » 
un modo semplice per dire che sono ancora nella stessa merda in cui si trovavano prima del terremoto.

Eppure non sono stati lesinati sforzi, anche la coppia Clinton ha voluto metterci la faccia, così come i capoccioni della FAO, dal capo dell’ufficio regionale per l’America latina a tanti altri capi e capetti della Sede romana.

Nei giorni immediatamente seguenti il sisma, dopo aver ascoltato l’intervista su France-Inter di un responsabile di Architetti Senza Frontiere in partenza per Port Au Prince nella quale ricordava il problema che stava alla base dei casini haitiani, provai a dirlo, scriverlo e raccontarlo ai miei colleghi FAO: Haiti ha il sistema fondiario più insicuro del mondo. L’ultimo catasto è stato fatto nel 1700, parecchi anni prima dell’indipendenza del paese e da allora lo stato della amministrazione fondiaria non ha fatto altro che peggiorare.

L’Architetto di cui parlavo prima diceva una cosa semplice semplice: la ricostruzione, nella capitale, sarà molto problematica perché nessuno ha uno straccio di titolo di proprietà. Di fatto, nemmeno il suolo sul quale si ergeva il Palazzo presidenziale è sicuramente di proprietà statale. Di conseguenza, ricostruire qualcosa in quel casino sarebbe stato molto difficile e fonte sicura di conflitti futuri.

Non che si trattasse di una gran novità. Parecchi esperti, nazionali e internazionali, avevano già puntato problema fondiario come un fattore di blocco per lo sviluppo del paese. In un paese ancora essenzialmente agricolo, non era possibile fare nessun investimento nel settore perché non si sapeva mai chi ne avrebbe beneficiato. La FAO, tanto per citarne una, nei decenni di attività nel paese aveva deciso di concentrare i propri sforzi sul tema forestale, per combattere la desertificazione del paese. Un collega del settore mi disse una volta che, con tutti gli alberelli che la FAO ha pagato perché siano piantati, si poteva fare un’autostrada da Port Au Prince fino a Roma. Facendo un giro del paese non se ne trovava uno che fosse rimasto. 

La ragione era molto semplice: finché si trattava di esser pagati per occuparsi delle pianticelle messe a dimora nel vivaio, tutto funzionava. Poi quando le piante erano date, gratis, ai contadini perché le mettessero a dimora a casa loro e se ne occupassero, loro prendevano le piante, e magari anche le piantavano da qualche parte, ma siccome la terra non era di loro proprietà non vedevano il loro interesse di occuparsi di qualcosa che un giorno qualcuno sarebbe venuto a reclamare come suo.

Data l’eccezionalità della situazione post-terremoto, proposi allora che la FAO si facesse avanti con na proposta rivoluzionaria: rimettere mano al tema fondiario approfittando del gran battage umanitario che avrebbe permesso di toccare anche interessi consolidati delle vecchie famiglie proprietarie terriere e, con uno sforzo congiunto, sotto l’egida delle nazioni unite, si poteva metter mano tanto alla legislazione come alle istituzioni fondiarie e partire con un approccio, simile a quanto stavamo facendo da anni in Africa, dove si mescolavano tecnologie e scienze sociali. 

Era quello il momento del possibile. Anche perché, se non si fosse fatto qualcosa subito su quel tema, la ricostruzione sarebbe stata quasi impossibile. Riuscii, con molte difficoltà, a realizzare un paio di missioni a Haiti e a parlare della mia proposta sia ai colleghi FAO locali sia a specialisti nazionali, come Mme Oriol, considerata “la” specialista del tema terra, nonché altri colleghi di banche di sviluppo come la BIRD. 

In realtà non riuscii mai ad avere un appoggio serio e convinto da parte dei miei colleghi e dai miei capi. La FAO aveva una paura blu di toccare il tema terra negli interventi di emergenza e il servizio tecnico dedito al tema terra, gestito da un inglese che frenava qualsiasi iniziativa di terreno, non fece nulla per aiutare. Non parlo nemmeno dell’ufficio regionale per l’America latina che sparì velocemente dalla mappa degli attori coinvolti dato che ad Haiti si parla francese e non c’era nessuno in quell’ufficio che lo parlasse correntemente.

Quelli della Banca interamericana (BIRD) non fecero nulla per tirare dentro la FAO (l’unica agenzia ad avere il mandato da parte delle nazioni unite per le questioni fondiarie nelle zone agricole), e preferirono andare avanti da soli, pensando che potevano farcela. Riuscirono così ad avere anche fondi dalla cooperazione francese e americana e fecero partire un progetto pilota di catasto comunale. Rispetto a quello che proponevo io, che avrebbe obbligato a uno sforzo di coordinamento e di iniziativa politica di altro spessore, la risposta della BIRD (e di chi li finanziò) fu la tipica conferma della montagna che partorisce il topolino. A loro serviva in termini di immagine, farsi belli con un gran intervento che non toccava il nocciolo del problema. Il loro sogno era di dimostrare che il loro approccio funzionava nei casi pilota e poi passare a fare un catasto nazionale. Tipico sogno di chi, pur vivendo sul posto, si è dimenticato di ascoltare e capire le forze e gli attori locali.

Siamo a fine agosto 2018 e stamattina ho dato una scorsa su internet per vedere come vanno le cose ad Haiti; ho trovato un articolo apparso su Le Nouvel Obs, che mi pare riassuma in poche parole come siano andate le cose:

“Toutes les initiatives engagées après le séisme destructeur pour élaborer un cadastre national ont été abandonnées. Seules quelques communes rurales en possède un, financé par la Banque inter-américaine de développement.
A la tête du comité interministériel d'aménagement du territoire (CIAT), Mme Oriol estime que ces registres en province ne résolvent rien: "Il y a conflit quand la terre prend de la valeur et c'est exactement le cas sur Port-au-Prince car nous avons une explosion urbaine dans la région métropolitaine".
Cette pression foncière sans régulation a, selon certains responsables, joué un rôle dans l'échec de nombreux projets de reconstruction post-séisme et constitue le premier obstacle au développement économique du pays.

Arrivederci al prossimo terremoto. Nel frattempo, il popolo haitiano ha trovato una sua soluzione: non essendoci possibilità di sopravvivenza locale, ha aggiunto una nuova meta alle loro migrazioni storiche. Prima erano gli Stati Uniti e il Canada, ma da qualche anno anche il Cile è diventata una destinazione ricercata, dato che non c’era bisogno di visto d’entrata. L’anno scorso oltre 100 mila haitiani sono arrivai nel paese. Così adesso in quel paesino lontano dal mondo sono costretti a cominciare a porsi anche loro il problema dell’immigrazione, di quelli che “rubano” il lavoro ai locali, etc. etc….


Vale sempre lo stesso principio: non risolvere un problema laddove si origina, comporta solo che il problema, in una forma o un’altra, si muove e si ripresenterà da qualche altra parte.

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