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giovedì 14 aprile 2022

25 Aprile: uno zio partigiano


 


Si chiamava Bruno, nato nel 1925 ad Altavilla Vicentina, secondo di tre (la prima, Alfrida, era mia madre). Nella primavera del 44 si unì alla formazione partigiana Malpasso, costituitasi a Valmarana nell’aprile di quell’anno, su iniziativa del fratello di mio nonno, carabiniere, conosciuto più tardi come “il Maggiore” (probabilmente una promozione prima della pensione dato che all’epoca il suo grado era Tenente). 

 

La repubblichetta di Salò cercava di arruolare tutti i maschi in età da combattere, e in parecchi, renitenti alla chiamata di quella repubblica fascista, si trovarono a casa sua per manifestare da un lato la loro paura, il disorientamento e dall’altro la volontà di “fare qualcosa” contro i tedeschi e quelli che li aiutavano.

 

Il Maggiore trovò le parole giuste per motivarli, e da quella sera la formazione partigiana Malpasso iniziò ad agire. Erano giovani e meno giovani, mio zio non aveva compiuto vent’anni, senza legami partitici, uniti solo dalla volontà di costruire per sé stessi, le loro famiglie, i figli e i figli dei loro figli, un futuro di libertà e di dignità umana.

 

La zona di operazioni era quella di casa loro, il comune di Altavilla, dove potevano contare su un valido appoggio delle tante donne patriottiche, nonne, mamme, fidanzate che li aiutavano, li sfamavano e li nascondevano quando necessario. Più tardi sarebbero stati integrati nella brigata Argiuna, con la denominazione di XVI squadra guastatori.

 

Non so quasi nulla di mio zio, solo che era bello, studente e partigiano e che aveva un mitra “Sten”, l’arma per eccellenza della seconda guerra mondiale, citato anche nel libro “Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio. Forse aveva anche lui una ragazza che lo aspettava, chissà come si chiamava. I miei nonni non li ho mai sentiti parlare di lui, forse la ferita di perdere un figlio così giovane fu così grave che probabilmente non si rimarginò mai del tutto. Lo stesso penso per mia madre, che era più grande di 4 anni, per cui quando l’11 maggio morì (tornando a casa dopo la vittoria) accidentalmente a causa di una raffica che partì dal suo mitra, per lei deve essere stato un trauma ancora più grande. Valga il fatto che, quando due anni dopo nacque il primo figlio, mio fratello maggiore, che fra l’altro gli assomigliava molto nelle foto giovanili, gli misero lo stesso nome, Bruno.

 

A parte il Maggiore, che aveva fatto parte del corpo di spedizione in Montenegro e Bosnia, dopo il fronte greco-albanese, e quindi aveva conosciuto cos’era la guerriglia, i sabotaggi e le rappresaglie, gli altri non avevano esperienza militare: erano andati a fare i partigiani con le loro paure, le loro debolezze, e con i loro (e nostri) sogni.

 

Andarono a combattere, con le armi, perché contro l’invasore (e contro i fascisti) non c’era nessun’altra possibilità. Morto nel 1945, Bruno fece quello che andava fatto, senza se e senza ma. In questi giorni di guerra alle porte di casa nostra, con un invasore che usa metodi barbari, città rase al suolo, violenze e stupri su donne e bambini, che non rispetta la parola data e che solo ambisce ad evitare che il “virus” della democrazia attecchisca alle porte di casa sua, e con tanta gente che critica l’appoggio ovvio che dobbiamo dare all’Ucraina per difendersi, dato che sta difendendo anche i nostri valori, nati dalla Resistenza, mi vien da pensare a cosa direbbe mio zio, che ha dato la vita per questo.

 

 

 

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