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venerdì 10 febbraio 2023

È ora di finirla col “charitess”


 Charitess è un neologismo che ho inventato, facendo una crasi di charity e di business, le due facce della medaglia del mondo della cooperazione allo sviluppo.

 

Da quando Eleonor Roosevelt si impietosì per la sorte dei milioni di persone affamate (fine della seconda guerra), ne è passata di acqua sotto i ponti. L’industria dello “sviluppo” aveva bisogno di un catalizzatore, e la signora Roosevelt lo servì su un piatto d’argento.

 

Si inventò il concetto di “sviluppo” e di “terzo mondo”, configurando così una corsa truccata dove tutti erano costretti a partecipare, a partire da posizioni iniziali dettate dalle forze economiche e politiche del Nord (erano loro a decidere i criteri per classificare chi era “sviluppato” e chi “in via di sviluppo” o, meglio, “sottosviluppato”). Il percorso era anche quello stabilito dal Nord, cioè il mercato truccato che favoriva sempre gli stessi. Per chi volesse approfondire questo tema può andare direttamente al libro “Encountering Development” di Arturo Escobar, disponibile liberamente sul web.

 

La filosofia dell’approccio proposto/imposto era un Giano bifronte: da un lato la crescita, produrre di più a costi sempre minori, sulla base della teoria ricardiana dei vantaggi comparati, così da favorire il lato A della medaglia, il business, e dal lato B, l’elemosina da fare a quelli che si perdevano per strada o che nemmeno potevano partecipare alla corsa: la carità che tutte le religioni hanno sempre raccomandato. Non è detto che tutti quelli che facevano business facessero anche la carità, e viceversa, mail principio era quello: togliere dai Sud le ricchezze (che, ovviamente, loro non sapevano sfruttare – faccio notare il verbo) sotto forma di materie prime, plus-valore del lavoro umano, manipolazione dei mercati, così che lo scambio fosse sempre a favore del Nord, e ricambiare con qualche briciola per mostrare la compassione dei dominanti sui dominati. 

 

Dalla compassione si passò poi all’impegno per “sviluppare” questi Sud, secondo regole, istituzioni e dettami da noi prodotti ed imposti: la nascente industria della cooperazione allo sviluppo. L’esempio più eclatante per noi italiani fu la famosa legge, promossa dai radicali di Marco Pannella, contro lo “sterminio per fame nel mondo” nel 1985 (https://www.radioradicale.it/scheda/187068/approvata-la-legge-contro-lo-sterminio-per-fame-nel-mondo-conferenza-stampa?qt-blocco_interventi=1). Una montagna di soldi per aiutare i morti di fame, da elargire essenzialmente alle ONG (italiane), invece di rafforzare i sistemi di salute, educazione e alimentazione nazionali, mentre in parallelo, con volumi d’affari molto più grandi, le nostre compagnie tipo l’ENI, continuavano a prelevare le risorse locali pagandole a prezzi stracciati. Sia ben chiaro, noi non siamo stati peggiori di altri, praticamente tutti i paesi dell’area OCSE hanno finanziato la loro industria della cooperazione, via ONG o agenzie governative di sviluppo, mentre parallelamente continuavano le ruberie delle risorse locali.

 

Le nazioni unite, la banca mondiale, il fondo monetario e, più tardi, la pletora di associazioni e ONG, nascono sotto questa stella: promuovere lo sviluppo, “combattere” la povertà e la fame, mentre, in parallelo, continuava lo scambio diseguale così ben descritto da Samir Amin (https://www.gallimardmontreal.com/catalogue/livre/l-echange-inegal-et-la-loi-de-la-valeur-amin-samir-9782717815726). La mia ex-organizzazione in particolare, la FAO, ricevette il mandato (ma non le risorse) per combattere la fame, apportando quanto minimamente necessario per stimolare la produzione agricola in senso lato.

 

Si partiva da una scarsa chiarezza di cosa si intendesse per sviluppo: ognuno interpretava questa parola a modo suo, lasciando aperti lo spazio per qualsiasi deriva. Così come era successo con le parole di Gesù, sceso sulla terra per rivoluzionare il mondo dell’epoca, schierandosi a favore dei deboli e degli indifesi, parole che poi diventarono la guida di crociate contro dei “nemici” inventati e, peggio ancora, la guida spirituale dei genocidi commessi nel nuovo mondo; lo stesso che successe, in tempi vicini a noi, con la filosofia dell’eugenismo, che gli iniziatori pensavano potesse aiutare a migliorare la razza umana, per finire nei campi di concentramento e nei forni hitleriani, ecco, la parola sviluppo, nata sulla spinta di Eleonor Roosevelt, ha finito per rafforzare meccanismi di esclusione, impoverimento e sottomissione che trovano la loro traduzione matematica nei quasi due terzi della popolazione mondiale con un reddito inferiore ai 10 dollari giornalieri e con quasi 900 milioni di persone che soffrono la fame.

 

La manipolazione propagandistica messa in atto parallelamente da parte delle stesse forze che promuovevano quel modello, è servita per far credere a tante persone che ci si batta sul serio per migliorare le condizioni sociali, economiche e, adesso, ecologiche, dei più poveri ed emarginati. Il che non è assolutamente vero.

 

La prima tappa di questo percorso, la potrei intitolare: Basta prenderci per i fondelli! Ed è spiegata in maniera più esaustiva nel libro La crisi agraria ed eco-genetica spiegata ai non specialisti, che ho pubblicato con Meltemi nel 2020. In quel libro illustro il processo di trasformazione dei contadini in operai-massa e la sottomissione delle agricolture del Sud, nonché le tappe iniziali del processo di accaparramento delle risorse eco-genetiche da parte di attori sempre più smaterializzati e pericolosi.

 

Lo scopo dichiarato di quel libro resta quello di spiegare, in modo serio, semplice e comprensibile, come mai siamo arrivati al mondo attuale e alle sue crisi.

 

Scendendo di un livello, oltre venti anni fa, assieme a un gruppo di colleghe/i dentro e fuori l’organizzazione FAO, iniziammo a proporre il primo passo di una strada diversa, complicata, senza certezze di successo, ma che voleva da un lato togliere la benda dagli occhi di chi promuove approcci “partecipativi”, troppo spesso diventati della pura e semplice manipolazione, e dall’altro promuovere un nuovo protagonismo delle attrici ed attori all’interno dei territori nei quali vivono, operano e confliggono. Le due versioni successive dell’approccio negoziato allo sviluppo territoriale (PNTD, 2005 e GreeNTD, 2016) erano altri passi verso la costruzione di una visione più realista della situazione, dei problemi, di chi li deve affrontare ogni giorno e di quali fossero le variabili chiave da affrontare.

 

Siccome volevamo facilitare la diffusione di questi approcci all’interno di una organizzazione restia ad occuparsi dei veri problemi del “sottosviluppo”, per anni abbiamo insistito sul passaggio da partecipazione alla negoziazione e sugli aspetti più concreti di come promuovere un dialogo-negoziazione, lasciando più in sordina altri temi scottanti, uno in particolare. Dopo un po’ di anni abbiamo deciso di passare alla velocità superiore, iniziando a ricordare, in maniera sempre più esplicita, la questione centrale delle dinamiche (ed asimmetrie) di potere che, se non affrontate, rischiano di trasformare qualsiasi proposta di intervento in un’altra forma di manipolazione a favore degli “usual suspects”.

 

Aprire il vaso di Pandora delle dinamiche di potere portava inevitabilmente, per chi abbia la mente un po’ aperta, ad andare a lavorare sulla questione strutturale di queste asimmetrie che si manifestano fra le due metà del mondo: quella maschile e quella femminile. Ed è per questa ragione che gli ultimi due anni sono stati dedicati ad approfondire la questione di genere (che è una questione maschile tanto quanto femminile) nel mondo agrario, partendo dall’eterno discorso dei diritti alla terra, per ampliarlo al problema chiave: il patriarcato!

 

Quando Eva bussa alla porta, uscito a fine gennaio per l’editore Ombre Corte, aiuta a capire questo tema nelle sue varie dimensioni.

 

Si tratta quindi del secondo movimento, della lunga marcia di quello che Mazoyer chiamava: il faut savoir à quoi on joue !

 

Capire meglio che mondo è stato costruito, volutamente, dal dopoguerra ad oggi (La crisi agraria …), seguito dalle prime proposte metodologiche di intervenire in modo diverso (PNTD, GreeNTD e poi IGETI) e da una riflessione attenta alle attrici troppo spesso escluse (Quando Eva …), ci porta ad iniziare la riflessione prossima ventura, che parte da un grido nel deserto: finiamola con il charitess.

 

Ripensare il concetto di “sviluppo” dovrebbe portarci a chiarire che le priorità sono legate agli esseri umani e al loro rapporto con la natura. Combattere il patriarcato diventa la base sulla quale costruire il mondo del futuro. Rispetto e condivisione, per lavorare assieme, uomini e donne, e tutte le altre forme che ci sono nelle nostre società (LGBT…) nella diversità che ci categorizza, per fare sì che la parola progresso diventi sinonimo di nuovi rapporti umani ma anche di armonia con la natura. 

 

Le forme attuali di “aiuto”, non fanno altro che perpetuare un colonialismo morale, fatto di carità (verso chi soffre, ma senza impegnarsi per cambiare strutturalmente le cause fondanti di questa miseria), e di business per potersi accaparrare le loro risorse (non solo quelle naturali ma anche quelle umane, esempio tipico le poche persone laureate e specializzate dei Sud del mondo che vogliamo attirare a casa nostra, per palliare ai nostri deficit, scavando ancora di più un human-divide con i Sud.

 

Ecco perché bisogna smetterla con questo charitess, che è solo uno degli elementi del neocolonialismo, costruito sul patriarcato, figlio del modello capitalista e oramai catturato dalle spire della turbo-finanza mondiale.

 

Una rivoluzione che deve iniziare dal basso, centrata sul riequilibrio di genere (lotta al patriarcato in tutte le sue forme), portata avanti da uomini e donne. Rivoluzione che impone anche delle scelte di fondo nel Nord: se vogliamo creare condizioni sostenibili per le agricolture dei Sud, bisogna mettere mano alla stratosferica quantità di sovvenzioni che vengono elargite alle nostre agricolture (vedi: La crisi agraria ed eco-genetica … spiego tutto lì dentro); bisogna dare priorità ad agricolture più armoniche, con rapporti strutturalmente diversi (e più equilibrati nelle sfere domestica e pubblica) tra uomini e donne, ed anche con la natura. Insomma, non pratiche banalmente agrobiologiche o biodinamiche, ma pratiche centrate su rapporti diversi tra le persone, e quindi, su questa base, più equilibrati ed armonici con la natura.

 

Meno protezione ai nostri mercati del nord per permettere alle agricolture del Sud di trovarsi in posizioni più eque negli scambi mercantili. Ma dovremo anche ripensare il modo di vedere i Sud, come fornitori gratuiti di risorse per noi del nord. I nostri modi di intervenire, via multinazionali e asimmetrie di potere politico, contribuiscono in maniera eclatante a bloccare qualsiasi cambio societale nei paesi del Sud. 

 

Se vogliamo aiutarli sul serio, dobbiamo cambiare anche noi in modo radicale. 

 

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