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giovedì 13 maggio 2010

TEMPO DI BILANCI (1)

TEMPO DI BILANCI
Ed eccoci qua, all’alba dei 50 anni, tempo di guardarsi indietro e di riflettere su questo mondo, il tempo che passa e che sogni ci restano.
Quasi trent’anni a girare il mondo, con i sogni di un ventenne e adesso col realismo (cinismo?) di un cinquantenne. Che mondo era quello della fine anni 70? Direi che, visto dall’Italia (e dal nostro Veneto in particolare) era un periodo particolarmente nero, con un terrorismo in casa che sviluppava allora tutta la sua “geometrica potenza” come diceva allora Franco Piperno (chissà cosa volevano dire con questa immagine…): il Presidente del Consiglio ostaggio delle Brigate Rosse, giudici ammazzati e giornalisti gambizzati erano il pane quotidiano dei giornali all’epoca. Era però anche il periodo degli “indiani metropolitani” di Bologna e delle prime radio libere (ma libere veramente, come cantava Eugenio Finardi). A Parigi la gente era ancora li a guardare stupefatta la “raffineria” costruita in pieno centro da Renzo Piano; quel centro Pompidou che rompeva gli schemi rigidi dell’architettura di una metropoli occidentale e ci invitava a pensare in un modo diverso, ma soprattutto a vivere l’arte, una simbiosi tra cittadinanza e opera d’arte mediata dalla piazza inclinata davanti all’entrata che invitava artisti di strada, venditori ambulanti, turisti e gente qualsiasi a passar di là, sedersi, chiacchierare, insomma a fare vita.
In Nicaragua arrivavano i Sandinisti, rivoluzionari borghesi che si dicevano diversi dagli altri rivoluzionari precedenti, e che riuscirono a farci sognare (ricordate el hombre nuevo?).
Ma più a sud erano ancora i militari a dettar legge: la giunta argentina aveva appena trionfato nel mondiale 1978, riuscendo a darsi una patina di riconoscimento internazionale, mentre i colleghi brasiliani continuavano il loro sporco lavoro con minor attenzione dell’opinione pubblica, ancora concentrata su quel personaggio sinistro che rispondeva al nome di Augusto Pinochet. I Chicago boys facevano le prove in diretta delle loro teorie liberiste, che tanto danno avrebbero portato negli anni successivi. Dalla Francia rientrava in patria l’ayatollah Khomeini a guidare la rivoluzione islamica in Iran, cacciando via la dinastia Pahlevi imposta dagli americani dopo il loro colpo di stato degli anni 50.
Nel Salvador Monsignor Romero veniva ammazzato in chiesa (e siamo ancor in attesa di giustizia) e il presidente americano Carter, dopo la fallimentare impresa del tentativo di liberazione degli ostaggi all’ambasciata di Teheran lasciava campo libero a Ronald Reagan che, assieme a Margaret Tatcher, avrebbe segnato a lungo la storia recente (e non è finita, perché il nuovo ministro degli affari esteri del governo Cameron viene da quella nidiata lì).
Tante ragioni per pensare si trattasse di un periodo nero, nerissimo della storia mondiale. Un mondo diviso in due blocchi: o di qua o di la, non c’era spazio per nessuna mediazione, e tutto indicava che gli anni successivi sarebbero stati ancor più violenti. I Russi si imbarcavano in una guerra in Afghanistan che già aveva portato alla sconfitta l’esercito inglese cent’anni prima, Iran e Iraq iniziavano una guerra che avrebbe fatto più di un milione di morti, mentre nel sud africano da un lato continuava l’apartheid e Mandela era un nome sconosciuto ai più, e dall’altro spariva la Rhodesia per lasciar spazio allo Zimbabwe di Mugabe, lotta di liberazione che adesso è sfociata in pura miseria per molti e molta ricchezza per pochi.
Eppure, malgrado tutto questo, vien da pensare a quegli anni come a un periodo felice se lo compariamo all’attualità. Sarà perché eravamo giovani e come sempre la tendenza è vedere le cose più belle solo perché era il nostro tempo felice?
Forse dobbiamo fare un passo indietro, ricordando la generazione dei fratelli maggiori che, nel nostro immaginario, avevano “fatto” il 68. Li vedevamo con occhiali nostri, giusti o sbagliati che fossero; loro erano quelli della generazione dell’uomo sulla luna, di Woodstock, delle rivolte a Berkeley, del pugno nero di T. Smith e J. Carlos alla premiazione dei 100 metri a Città del Messico, ma anche del “piombo caldo” per Bob Kennedy, della bomba a Piazza Fontana e dei “mettete dei fiori nei nostri cannoni”.
Per noi, fratelli minori, loro erano quelli del “cogli l’attimo”, del colpo in canna, del gesto simbolico che cambiava tutto: chi si ricorda, fra i nostri vicentini, la passione per quel giocatore particolarissimo che fu Vendrame? Lui incarnava, in salsa veneta, quello che Best fu per il campionato inglese: il sogno, la pazzia, il gesto artistico dell’individuo che si “beve” tutto e tutti.
Per noi, fratelli minori, era diverso. Guardavamo tutto ciò con un misto di curiosità, invidia forse ma con una sensazione che già si era girato pagina e che dovevamo costruire il nostro referente a partire dalle nostre esperienze e dalla nostra vita.
Certo ci fu chi rimase agganciato all’idea del “gesto”, dell’idea che un colpo solo può cambiare la vita, può cambiare il mondo. Ci furono quelli delle RAF in Germania, di Action Directe in Francia e da noi Brigate Rosse e tutto il resto. I colpi a Aldo Moro erano però lontanissimi da noi, già scendere in piazza ci pareva estraneo. Ricordo il giorno del rapimento, ero rappresentante di Istituto al Canova e venimmo convocati in Presidenza per informarci di cosa era successo e chiedendoci di convocare un’assemblea per dirlo agli altri studenti. Era un cosa da marziani per noi. Troppo grande questo omicidio, troppo lontane dalle nostre esperienze quelle pretese rivoluzionarie dei brigatisti e loro affini.
Pur essendo vicini a Padova, a quell’Autonomia Operaia ed altre frange della sinistra extraparlamentare, mai cosa avrebbe potuto sembrarci più assurda. Dalla morte di Guido Rossa, operaio, per mano delle Brigate Rosse, la storia dei “compagni che sbagliano” non poteva prendere con noi.
Non siamo stati una generazione di militanti, perché cercavamo dentro di noi le nostre risposte, alle nostre domande e non volevamo demandare a nessuno di farlo al posto nostro. Un po’ di individualismo, sicuramente. Forse perché venivamo da quegli anni 60, del boom, non eravamo la generazione del dopoguerra, della povertà, eravamo già dopo tutto questo; guardavamo i fratelli maggiori con rispetto, ma allo stesso tempo erano lontani da noi, cosi come probabilmente lo eravamo noi per loro.

Fine prima puntata

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