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domenica 23 maggio 2010

TEMPO DI BILANCI (2)

Anni dopo mi venne da ripensare a tutto questo e da lì pian piano nacquero delle riflessioni che adesso, con la scusa dei 50 che arrivano, comincio a mettere per iscritto, così da lasciare qualcosa a mia figlia un giorno, quando vorrà cercare di capire che razza di padre ha avuto.
La riflessione su chi siamo noi, da dove veniamo e cosa ci porta, (insomma le solite domande senza risposta…) iniziò girando il mio primo documentario ad Anguillara, sulla storia delle vecchie lotte contadine per la riforma agraria. Eravamo su a Polline, con nonno Cerioni e Sergio Pierdomenico, detto Sergio de Costantì. Sergio vide una ghianda per terra, la colse e la mise in tasca. Alla domanda di cosa intendesse farne, lui che aveva passato i 70 da un pezzo, rispose con naturalezza che pensava piantarla per far crescere una quercia. Lui che forse non l’avrebbe mai vista e che non aveva famiglia a cui lasciarla pensava al domani, al passo dopo passo, al ritmo lento della natura.
Ecco, li ebbi la sensazione di cominciare a capire la mia relazione a quegli anni passati: siamo venuti su non solo guardando i fratelli maggiori ma anche pensando ai nostri padri, alle storie raccontateci su “quegli anni”, alle loro sofferenze e ai loro ritmi di vita; insomma siamo venuti su come una generazione contadina, o di semplici muratori. Un passo dietro l’altro, costruire con solide fondamenta, preparare il terreno per piantare in autunno, sperare in un buon inverno, e preparasi a cogliere il raccolto nel domani. Non avevamo parole per dire “un mondo nuovo è possibile”, ma forse, invece di andarlo a gridare e cercare il colpo magico che lo avrebbe fatto apparire, ci preparavamo a una camminata lunga che chissà se mai sarebbe finita.
C’era forse una fede, almeno in alcuni di noi, non necessariamente religiosa, direi nell’essere umano, ma era anche una fede scettica perché quello stesso essere umano era stato capace delle cose più turpi. I Khmer rossi in Cambogia erano li per ricordarcelo, che un altro genocidio era possibile, per cui era ovvio per noi che non potevamo esser ciechi. Guardare avanti, ma anche guardarsi indietro, sognare si, ma con i piedi ben piantati per terra. Non letture incendiarie, ma manuali tecnici, andare con “nonno” Angelo a riparare case, imparare i segreti del costruire un muro mattone su mattone, andare in cantina con Roberto dal suo vecchio amico Cavazza per sentire e capire (forse) le storie familiari di come fare il vino, invecchiarlo, farlo maturare. Queste erano le nostre ghiande.
Forse è da qui che nacque la voglia di andar a studiare da geometra e non da liceale. Una scelta inconscia a favore del passo lento e sicuro piuttosto che di un mondo che mi sembrava astratto e troppo lontano dal mio mondo contadino.
Per molto tempo mi sentii come una generazione di mezzo: troppo giovani per quel 68 di cui si sentiva tanto parlare e troppo vecchi (già) per le nuove movenze che nascevano nella scuola. Eravamo venuti su a Nutella e Happy Days. I sogni del 68 erano già spariti, Cuba già non era un modello per nessuno di noi, ma sentivamo, a pelle, che non potevamo accettare il mondo cosi com’era e che per apportare la nostra goccia al mulino avevamo tanta strada davanti a noi (Quanta strada da fare, però quanta strada? Ancora non lo so – cantava un giovane Baglioni).
Da questa diversità veniva un approccio al mondo abbastanza confuso, dato che non avevamo manuali politici che ce lo spiegassero; erano sensazioni meno mediate dalla politica, non c’erano tanti “gruppi di studio”, c’era più musica (se un elemento comune esiste per la generazione del 1960 è di essere quella delle radio FM che, da metà anni 70, cominciarono a trasmettere musica giorno e notte): scoprii tanto e di più: da quell’Eugenio Finardi incrociato ai giardini Salvi il pomeriggio del suo primo concerto a Vicenza, al Banco, alla Premiata, Le Orme, Guccini e i Nomadi, ma soprattutto un album mitico di Claudio Lolli, che ancor oggi ascolto con molto piacere: Ho visto anche degli zingari felici. In classe nostra, al Canova, avevamo anche uno dei primi DJ (anche se in realtà non avevano nemmeno un nome: stavano in radio e trasmettevano musica): Gianni Candia, che non ha fatto successo come geometra, ma la cui voce ci ha accompagnato per molti anni (ricordo ancora il suo programma, al mattino presto: Pane, Burro e … Radio Blu). Il mio consigliere particolare era Athos che, in cambio di qualche ripetizione, mi registrava cassette di musica americana, inglese e canadese, country soprattutto, che mandava in onda alla radio dove lavorava: conobbi cosi Bruce Cockburn, Joni Mitchell, i Camel, Loggins and Messina, Joe Egan e tanti altri che, a difetto di capire cosa dicessero (la nostra era ancora una vita essenzialmente in due lingue: vicentino e italiano – per le comunicazioni col mondo esterno) ti portavano lontano e sentivi che il mondo non finiva ai bordi del Livelon (nome popolare del Bacchiglione).
Quello che, a posteriori, ci mancava o abbiamo coltivato poco, era un senso nostro del bello. Lo sentii chiaramente quando un inverno partimmo per Vienna, un freddo da cani (o da bissi, nella nostra lingua) e andammo a vedere Klimt. Fu un risveglio impressionante, una specie di pezzo di puzzle che dava un senso ai vari musei visti negli anni precedenti, forse più per dovere che per vero piacere. Ma Klimt accese un’altra lampada, una piantina nuova, onestamente poco coltivata , finchè pian piano arrivò in superficie e luce fu. Il gusto della propria ricerca artistica, del passare da spettatore a complice dell’artista che crea, quando non addirittura al suo fianco.
Per guadagnarmi qualcosa accompagnai Carlo alcune volte in Germania a portare valori per conto dei “Rangers” per cui lavorava. Notti di viaggio ascoltando Alberto Radius. Carlo che aveva deciso di non continuare l’esperienza nei corpi speciali dei paracadutisti e quel che ci raccontava di quel mondo era più che sufficiente per aumentare i nostri dubbi, già profondi, sui militari e il loro modo reale di rapportarsi agli altri.
Ottanta e ottantuno, anni che ci hanno marcato profondamente: i socialisti che vincono in Francia, Mitterand a piedi verso il Pantheon seguito da una folla incredula ma felice. Adesso si che si cambiava, anche in un paese inserito nel mondo capitalista si poteva immaginare un cambio. Solidarnosc in Polonia mostrava che le lotte dal basso possono, a volte, sconfiggere i poteri più forti, come avremmo visto più tardi. Dal canto suo il Nicaragua si apprestava a resistere alla guerra mossagli dagli Stati Uniti per interposte forze (i Contras di Eden Pastora).
Ecco, bastarono poche notizie come quelle per darmi la forza di credere che, fuori dagli schemi tradizionali, fosse possibile costruire qualcosa di diverso. Ma quello che avevamo dentro era anche qualcos’altro, cosi ovvio che non se ne parlava, ma che avremmo scoperto, come parola, molti anni dopo. Avevamo dei valori. Trasmessi dai nostri genitori, respirati nelle scuole che frequentavamo e che ritrovavamo uguali nelle famiglie degli amici che avevamo.
Fine seconda puntata

1 commento:

  1. «La fonction de l'artiste est fort claire : il doit ouvrir un atelier, et y prendre en réparation le monde, par fragments, comme il lui vient.»
    [ Francis Ponge ]
    Cat.

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