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giovedì 11 gennaio 2018

I miei primi anni in FAO: l’emergenza di un approccio agrario “sistemico”



Iniziai a lavorare alla FAO nel lontano 1989, dopo aver terminato un dottorato in Francia sotto la direzione del caro amico Marcel Mazoyer. Mazoyer, figlio spirituale di René Dumont, agronomo-ecologista che per primo aveva spiegato il perché i nuovi paesi africani che stavano emergendo con l’indipendenza stavano prendendo una brutta piega, anti-contadina, cosa che avrebbe creato non solo maggiore povertà ma anche insostenibilità nel medio e lungo termine. Dopo aver pubblicato un libro assieme nel lontano 1969 (Sviluppo e socialismo), i due presero strade leggermente divergenti. Da un lato Dumont accentuò il suo interesse per l’ecologia nonché il suo impegno politico diretto (tanto da diventare il candidato del partito ecologista francese alle elezioni presidenziali) mentre Mazoyer decise di approfondire alcuni limiti metodologici che gli sembravano sempre più evidenti nel lavoro di Dumont.

Le pubblicazioni a raffica di Dumont (gli bastava una visita di un paio di settimane in un paese per far uscire un nuovo libro di denunce) non riuscivano però a nascondere che, dietro l’anima un po’ giornalistica delle denunce, mancava un apporto metodologico costruttivo sia per l’analisi delle realtà agrarie sia per la costruzione di future proposte tecniche e politiche. Mazoyer, che nei primi anni 60 si era cimentato con la programmazione lineare, cominciò quindi a mettere nero su bianco gli elementi costitutivi del concetto che formalizzò nel 1985 di “sistema agrario”. 

Succeduto a Dumont come responsabile della cattedra di agricoltura comparata e sviluppo rurale, diede a quest’ultima una direzione chiara in favore di ricerche di terreno che usassero questo concetto, nonché gli altri, subalterni, che erano stati messi a punto dal suo grande competitor Michel Sebillotte, responsabile della cattedra di agricoltura. In comune i due avevano la ricerca, ossessiva, della coerenza interna al sistema che stavano studiando. Sebillotte potemmo dire era più micro, mentre Mazoyer più macro. Il primo si era interessato ai concetti di itinerario tecnico, di sistema di coltura e di allevamento, per arrivare poi a definire il concetto di sistema di produzione. Mazoyer non rifiutava queste analisi, anzi, se ne appropriava proponendo un livello ulteriore, quello di tema agrario. La ricerca della coerenza interna voleva essere un segnale mandato anche ai loro studenti perché non si accontentassero delle rime risposte ottenute al momento di intervistare i contadini, ma che dovevano completare queste con una osservazione attenta e obiettiva della parcella, dell’azienda e del territorio.

L’approccio sistemico che portava avanti Mazoyer non era solo a una scala superiore, ma si rifaceva anche, e in maniera molto evidente, alla scuola storica detta degli “Annali”, il cui ispiratore principale fu Marc Bloch. Mentre con Sebillotte si restava all’interno del mondo tecnico agricolo, con Mazoyer si cominciava ad alzar la testa per guardare al di fuori dei campi conosciuti, esplorando aree nuove e cercando non solo la pura descrizione superficiale, ma la logica interna di funzionamento di un sistema agrario. Considerato come un prodotto storico, un sistema agrario aveva quindi un momento in cui appariva (e delle condizioni storiche che lo avevano facilitato), un periodo di sviluppo per entrare successivamente (in tempi, modalità e spazi diversi) in crisi e quindi essere sostituito da un altro sistema più performante.

In questa costruzione progressiva verso l’avvenire ritroviamo ovviamente il periodo storico e le simpatie politiche di Mazoyer, socialista di quelli di una volta, che, potremmo dire scherzando, pensava alle sorti magnifiche e progressive del campesinato mondiale.

L’applicazione poi dell’analisi comparata, novità assoluta importata dalle scienze sociali, portava poi a non limitarsi all’analisi puntuale di un sistema in un certo momento storico, ma di compararlo con quello che poteva succedere (o era successo) in altri luoghi del pianeta. Le analisi economiche sulle produttività comparate permettevano quindi di trovare degli argomenti molto concreti, e cifrabili, per i suggerimenti di politica da fare ai governi e alle agenzie delle nazioni unite.  

Io arrivai a questa scuola di pensiero per puro caso, ma per ragioni spiegabilissime e coerenti. Avendo terminato l’università in Italia ed essendo diventato “dottore in scienze agrarie” la questione che si poneva era cosa fare dopo: restare a lavorare nel Veneto, come già facevo dall’inizio dell’università (in particolare con la Coldiretti), oppure alzare la testa e guardare altrove? L’interesse per quello che i francesi chiamano il Terzo Mondo nacque durante gli studi universitari, nel 1983, grazie a un viaggio che realizzai in un paese per me allora sconosciuto, chiamato Nicaragua. Era probabilmente il periodo più felice della rivoluzione sandinista, tanta allegria e felicità in giro, volontari internazionali dappertutto e una riforma agraria che cominciava a prendere forma. Fu quello il tema che mi interessò fin da subito. Non avendo ancora un metodo di lavoro ben strutturato e ancor meno dei concetti chiari in testa, le mie prime riflessioni e articoli sul tema riflettono l’ingenuità di quell’epoca e di quell’età. L’università italiana non mi dava strumenti per affrontare quelle realtà, che a me interessavano sempre di più, per cui decisi di andare a fare un master all’estero per capire meglio i meccanismi del sottosviluppo. 

Le mie pur limitate conoscenze linguistiche (inglese) mi portavano naturalmente a cercare innanzitutto verso l’Inghilterra e successivamente l’Olanda. Ambedue offrivano corsi molto interessanti ma avevano lo stesso difetto, il costo. Non provenendo da una famiglia agiata questa variabile fu subito molto evidente. Borse di studio per studenti italiani non esistevano e quindi dovetti cercare altrove. Fortuna volle che mio fratello, che viveva e lavorava a Parigi, fosse incappato nella brochure dell’Istituto Nazionale Agronomico di Parigi-Grignon dove veniva illustrata la proposta formativa delle varie cattedre, fra cui quella di Mazoyer. Pur non conoscendo la lingua, optai per Parigi, avendo una base dove installarmi all’inizio, nonché essendo quei corsi di natura pubblica, con un costo senza paragoni inferiore a quelli offerti dagli altri paesi.

Senza saperlo finii quindi per incontrare il “Maestro” che cambiò la mia vita. La mia fortuna fu che Mazoyer non aveva ancora avuto uno studente italiano e che, avendo un debole per gli studi e le pubblicazioni di Emilio Sereni, volesse assolutamente aprire un canale con l’Italia. Ricordo, per chi non l’avesse conosciuto, che Mazoyer non ha mai parlato lingue straniere. Da adulto senior si è cimentato con il portoghese (come ebbi modo di presenziare, soffrendo terribilmente, quando lo invitammo a una conferenza di alto livello in Angola nel 2003), ma su questo aspetto meglio stendere un velo pietoso. Toccava ovviamente a me imparare il francese (cosa che potei fare grazie alla mia futura moglie Christiane) e soprattutto darci sotto con tutto l’armamentario di storia, antropologia, sociologia, economia e agronomia che la squadra di Mazoyer insegnava. 

Furono anni molto interessanti, per alcuni miei compagni furono anche molto duri dato il carattere non facile, estremamente esigente, di Mazoyer. Pochi, anzi pochissimi direi, sono arrivati in fondo al percorso formativo dopo il master, con il dottorato. Va anche detto però che per i colleghi francesi, il corso di Mazoyer era reputato, al di là dell’interesse per il tema, come quello più facile, dove c’era meno materiale da imparare a memoria, come erano stati abituati tutti loro prima di arrivare all’anno di specializzazione. Il sistema educativo francese, molto piramidale, si basava sul livello più basso rappresentanti dalle Università. Al di sopra stavano le Grandi Scuole (di Amministrazione, del Commercio, Politecnico, Mines .. e anche di Agronomia). Per arrivare alle Grandi Scuole bisognava fare due anni di preparazione, con studi mnemonici interminabili che riempivano la testa dei candidati di nozioni a non finire. Un vero e proprio formattamento, fatto in modo sistematico, per preparare la futura classe dirigente del paese, in modo che, qualsiasi fosse il loro orientamento politico, avessero in testa le stesse idee e gli stessi riferimenti di base.

La scuola di agronomia comprendeva due anni iniziali molto duri e poi, una volta arrivati al terzo anno, ci si poteva rilassare tanto non esisteva l’opzione di essere bocciati. Per cui l’impegno che molti di loro avevano era, a essere onesti, relativo. Diverso il caso degli stranieri che, o erano già professori universitari nei loro paesi, oppure erano impegnati sul terreno con ONG o altre organizzazioni. Io ero un po’ un pesce diverso, né l’uno né l’altro. Legai di più con gli stranieri, e con alcuni di loro siamo rimasti in contatto di lavoro e di amicizia fino ad oggi. 

Una volta arrivati FAO ebbi la fortuna, o il caso ancora una volta, di trovarmi presso l’ufficio regionale per l’America latina e i Caraibi, situato a Santiago del Cile. Il mio contratto era di esperto associato, solo che, contrattualmente, doveva esserci un funzionario cui associarmi. Il gruppo di lavoro era quello che si occupava delle analisi dei sistemi di produzione (i farming systems all’americana), e la ragione per cui scelsi di andare la era la presenza di uno dei vecchi amici dell’Agro, che lavorava con una ONG nazionale, nonché il fatto che Pinochet aveva appena perso il referendum e stava per perdere le elezioni che avrebbero dato quindi il via alla transizione democratica del Cile. Il fatto che il funzionario a cui dovevo esse associato fosse andato in pensione e il suo posto fosse stato abolito fu un gran colpo di fortuna perché mi ritrovai supposto senza un vero capo a darmi degli ordini. Fortuna volle anche che l’ONG (cattolici progressisti) per cui lavorava il mio amico fosse conosciuta dal nostro direttore regionale e che il suo assistente personale per i temi dello sviluppo rurale fosse un amico del mio amico. Conseguenza di tutto ciò: mi venne chiesto di presentare un programma di lavoro, da estendere anche ad altre due ONG, e di occuparmene in stretto contatto con l’assistente del direttore. 

Questo permise quindi di cominciare a riflettere concretamente sul come trasformare gli insegnamenti di Mazoyer e più in generale della Cattedra di Parigi in strumenti pratici utilizzabili da parte di una agenzia come la FAO, con i propri tempi e modi lavorativi. Furono due anni molto interessanti sul piano sia personale che professionale. Per quanto riguarda quest’ultimo, fu possibile realizzare delle collaborazioni anche con delle università centroamericane dove lavoravano alcuni dei professori con cui avevamo studiato a Parigi e in questo modo la riflessione iniziata in Cile divenne una riflessione di portata regionale. Lo stimolo intellettuale, il pungolo a migliorarci continuamente, veniva anche dal fatto che, nella stessa ONG del mio amico, lavorava anche uno specialista messicano  (che oggi è il direttore regionale della FAO) che veniva dalla scuola sistemica americana, più orientata su strumenti statistici per analizzare i sistemi produttivi contadini e totalmente a digiuno della variabile storica. Il vantaggio suo era che quella scuola dominava in FAO, anche se era in netta fase discendente, mentre la nostra era quasi sconosciuta all’interno, pur avendo molti agganci nel mondo accademico regionale.

Riuscii a pubblicare alcuni documenti iniziali, probabilmente andati perduti negli anni, ma alla fine il tutto si consolidò in un manuale per la realizzazione di diagnostici dei sistemi agrari, che riprendeva la parte essenziale dei concetti francesi, ma li metteva in una salsa spendibile all’interno della FAO.


Alla fine dei due anni di contratto, malgrado il nostro forte desiderio di rimanere in Cile, non fu possibile, ma grazie un'altra serie di casualità, mi venne offerto un contratto di consulente (di breve durata) all’interno del servizio che all’epoca si chiamava della riforma agraria (oggi Land Tenure). Il capo ufficio dell’epoca, un vero amico brasiliano, quando era stato nominato a quel posto gli venne consigliato di presiedere come consulente lo stesso Mazoyer di cui sopra. Il consiglio gli venne dato da alcuni specialisti brasiliani che si erano formati in Francia e che avevano letto e sentito degli approcci sistemici e dei lavori che portava avanti la cattedra di agricoltura comparata. Mazoyer non era disponibile, dati gli impegni che aveva all’epoca. Io arrivai col mio curriculum dove era in bella mostra il dottorato fatto con Mazoyer. A quel punto, non potendo avere il Maestro, decise di prendere l’allievo, per vedere cosa poteva succedere.

(continua)

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