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lunedì 29 gennaio 2018

Per completare il ragionamento



Papa Francesco ci ricorda periodicamente la sua paura per una prossima terza guerra mondiale “a pezzi” come dice lui. Nel mio piccolo anch’io penso che siamo partiti su questa strada e che oramai siamo ben avanti nella fase preparatoria. 

Penso ad alcuni libri letti in questi anni e non mi sento più tranquillo. La mente è ritornata all’Età degli Imperi di Hobsbawm e alla sua analisi del come si arrivò alle guerre che hanno caratterizzato Il Secolo Breve.

L’età degli Imperi è interessante per mille altre ragioni, ne cito solo uno: perché ci obbliga a riflettere sui cambiamenti strutturali e societali che la nuova organizzazione dello sviluppo capitalistico portò dopo la Grande Depressione economica degli ultimi decenni dell'Ottocento, una crisi che toccò in particolare modo l'agricoltura, portando a fenomeni migratori diffusi che cercarono di porre un argine sociale al problema. Ne risultò un modello diversamente organizzato, che trovò la sua formulazione grazie a F.W. Taylor che nel 1911 pubblicò un libro dal titolo evocativo The Principles of Scientific Management per meglio inquadrare la nuova organizzazione del lavoro nelle fabbriche americane dopo l’avvento delle prime fasi di meccanizzazione e la sua applicazione pratica nelle fabbriche di Henry Ford. 

Una produttività in forte crescita, la riduzione sensibilissima dei costi di trasporto (soprattutto marittimo) portarono ad una espansione fino ad allora sconosciuta dell’economia di mercato. Si passò così da un’economia prettamente agricola, quasi “locale”, ad una di tipo industriale che aveva bisogno di spazi adeguati per distendersi. Il concetto di stato-nazione viene coniato in quel periodo, ad indicare come gli angusti spazi commerciali precedenti non fossero oramai più adeguati alle esigenze del nuovo capitalismo. La vecchia società aristocratico-borghese stava arrivando al capolinea, nuove forze, inizialmente poco organizzate, gli “operai”, facevano irruzione, diventando nel contempo la variabile chiave del nuovo modello ma allo stesso tempo, quando si organizzavano e diventavano “socialisti”, uno spauracchio da controllare a tutti i costi.

La rottura del vecchio mondo prende le forme di una guerra che, iniziata nel 1914, finirà solo nel 1945. Due lunghi tempi necessari a picconare alla base la vecchia società e fare emergere una nuova dinamica di produzione, di consumo e di controllo sociale. La caduta definitiva del mondo colonialista (che era la caratteristica centrale dell’età degli Imperi) prenderà ancora parecchi decenni, per dirsi conclusa solo a metà degli anni 70 quando anche i rimasugli dell’impero portoghese saranno smantellati e nuovi stati saranno emersi. 

La nuova economia di mercato era andata ampliandosi a dismisura, creando non solo la figura dell’operaio massa ma anche quella del consumatore. Questa massa, quando cercò di farsi anche “cittadino”  fu osteggiata in tutti i modi dato che non aveva nessuna funzione utile nel modello produttivo-consumieristico. Lo stato-nazione diventava la dimensione adeguata, con una ideologia che spingeva per una liberalizzazione degli scambi sempre più spinta. Il capitale, soprattutto nella fase post-conflitto, faceva affari d’oro, con tassi di profitto a due cifre. La tecnologia assicurava miglioramenti continui e ben presto cominciò quindi a porsi una volta ancora lo stesso problema: l’angustia del nuovo terreno di gioco. Se a fine ottocento la geografia imperiale era stata percepita come un freno al nuovo modello, la dimensione nazionale, dopo nemmeno un secolo, era già diventata stretta e la partita vera cominciava a giocarsi a livelli superiori. Nuove esigenze e quindi nuova (o rinnovata) ideologia: la globalizzazione, sempre supportata dalle schiere di intellettuali, politici e quanto altro per spiegare alle masse quanto questa sia necessaria e ineluttabile.

Noi viviamo in pieno questa transizione, da spazi nazionali a un campo aperto sovranazionale dove sempre meno giocatori possono sedersi attorno al tavolo. La logica della crescita continua ci porta a pensare che lo stesso problema dei limiti del terreno di gioco si porrà fra poco e, a differenza del passato, diventa difficile immaginare quali possano essere le soluzioni.

Il primo momento di rottura, dall’età degli Imperi verso il 1914, portò con sé il nazionalismo, diventato velocemente la bandiera delle destre e al quale le sinistre non sapevano cosa opporre. Ma dobbiamo ricordarci come quel nazionalismo fosse in linea con le dimensioni del terreno di gioco (lo stato-nazione) funzionali al nuovo modello capitalistico. 

Che ci piaccia o meno, il nuovo modello sparigliò le carte e dette un orizzonte a generazioni di persone che, per la prima volta, entravano a fare la Storia con la S maiuscola. Penso in particolare ai contadini, sbattuti in prima linea nella Grande Guerra, e che per la prima volta venivano incorporati concretamente a quella cosa che passava sopra le loro teste e che era chiamata Stato. Le capacità manipolatorie erano ancora limitate, ecco perché le promesse dovevano essere all’altezza dello sforzo richiesto: Terra ai contadini fu lo slogan per convincerli a morire in trincea facendo irrompere il tema fondiario nell’agenda mondiale. Le poche informazioni che arrivavano dalla Russia, dove la terra sarebbe stata realmente distribuita a contadini fece capire quanto fosse necessario migliorare le tecniche di controllo delle masse nonché della loro manipolazione. 

Uscimmo dalla seconda guerra convinti dall’America Dream. Un sogno degli altri che, pensavamo anche noi da piccoli, sarebbe diventato il nostro sogno. La trasformazione del cittadino in operaio e poi in consumatore si fece sopra le nostre teste senza che riuscissimo a capirlo e a contrastarlo. Oggi siamo arrivati a una massificazione dello slogan: Consumo, dunque Sono! L’evoluzione del modello si sta spostando, da decenni oramai, sul settore finanziario; oramai non serve più produrre, tanto quello lo possono fare le macchine, per cui i soldi veri vanno fatti altrove, in un mondo irreale, quello della speculazione finanziaria.

Verrebbe da pensare che questa virata sia la reazione interna al modello nel momento in cui si rende conto che anche giocando a livelli sovranazionali i margini di manovra si stanno restringendo. Il consumatore lambda più di tanto non può comprare e consumare, quindi cosa fare per la prossima fase? Di cosa sarà fatta? Di che geografia e di quali persone?

Domande difficili e senza vere risposte al giorno d’oggi. Qualche anno di crescita ci sarà ancora, forse qualche decennio, finché anche i mercati emergenti saranno saturati, ma il “sistema” deve porsi queste domande prima di essere arrivato al capolinea e quindi: adesso.

Nel passato la crescita demografica poteva essere vista in chiave positiva, più bocche da nutrire e più consumatori da servire. Oggi siamo coscienti che questa variabile non può più essere trattata fuori da un’analisi globale dell’ecosistema in cui viviamo. Sappiamo che lo stiamo distruggendo, che le risorse si riducono e che il futuro non potrà essere immaginato come la riproposizione in scala maggiore di quello che è stato fino ad ora.  

Nel passato, i momenti di passaggio avevano un orizzonte chiaro, anche se condiviso da pochi, ed era l’adeguazione dell’ambito geografico all’ambito economico. Tutto il resto, forma dello Stato, ruolo dei cittadini, era il contorno di un piatto forte che era la dominazione economica e tecnologica. I tempi e i ritmi venivano scanditi ancora sui vecchi principi di Taylor e Ford. Non avendo mai pensato in maniera laterale, out of the box, ci troviamo pericolosamente sull’orlo del precipizio. In tanti siamo coscienti che così non si potrà andare avanti, ma siamo anche coscienti che nei piani alti questo non sembra interessare nessuno. Le stesse politiche che hanno impoverito milioni di persone e distrutto così tante risorse naturali continuano ad essere il vangelo ripropostoci da tutte le forze politiche, elezione dopo elezione.

Francesco ha probabilmente ragione nel richiamare l’attenzione sul rischio di una nuova guerra. Il punto è di capire il perché ce ne sia stato bisogno prima e se le forze che volevano emergere siano ancora in posizione di forza oggi.  La mia risposta è sì, comandano ancora loro e la trasformazione che si stanno dando in forze finanziarie non sembra proprio essere una risposta ai problemi globali che il loro modello inevitabilmente porta con sé. Si tratta di una risposta del tipo si salvi chi può; loro pongono al riparo i loro averi in un nuovo gioco, fatto sempre sulla pelle degli altri, quegli altri che, finora, non hanno trovato strade per incanalare il loro scontento.

Credo molto probabile che la conflittualità aumenterà in molte parti del mondo e, per i legami creati da questi decenni di globalizzazione, ne sentiremo gli effetti anche a casa nostra. Il tentativo religioso del radicalismo islamico per mettere un cappello sopra a questo malessere forse ci porterà la guerra in casa: non dimentichiamoci che il casino nella ex Jugoslavia è ben lontano dall’essere risolto e, come ce lo ricorda l’omicidio di pochi giorni fa in Kossovo di una delle poche figure di dialogo, il fuoco cova ben vivo sotto le ceneri; il disastro della Corte internazionale dell’Aja nel non giudicare moltissimi degli attori principali di genocidi e massacri vari, qui all’Est come poi in Africa e in Medio Oriente, tutti elementi che portano legna al fuoco futuro. Personalmente non credo che questo cappello, la religione, avrà una capacità attrattiva sufficiente per unificare in un movimento unico le tante forze disparate che lottano contro questo modello ma senza avere una proposta unita di alternativa. Ecco perché penso a conflitti difficilmente gestibili, ma che interesseranno sempre meno a quell’un per cento della popolazione straricca che oramai si proietta a livelli ultraterreni, fuori dalla portata delle nostre proteste.


Un mondo nel quale non sarà facile vivere. La fine dell’età degli Imperi portava con sé un sogno, o più di uno: uno socialista, collettivo, e uno di arricchimento individuale. Oggi il primo è molto malmesso, e il secondo si applica a una infima minoranza, lasciando in mezzo una classe che fu “media” nella progressiva erosione dei propri benefici e in cammino verso un futuro nero.  

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