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giovedì 18 gennaio 2018

La transizione dall’approccio sistemico all’approccio territoriale

La transizione dall’approccio sistemico all’approccio territoriale - continuando i ricordi passati e recenti

Come ho già avuto modo di scrivere, l’approccio detto dei sistemi agrari era stato messo a punto dal Prof. Mazoyer in quella che era LA grande scuola di agronomia di Francia. Il tipo di studente che frequentava quella scuola era in generale oriundo delle classi preparatorie che da sempre formano l’élite della classe dirigente francese. Anche se una certa selezione si realizzava, (chi sceglieva la cattedra di Mazoyer e Dufumier aveva, a volte, un certo interesse per le tematiche del terzo mondo), rimaneva il fatto che l’impostazione di fondo quando gli studenti francesi arrivavano a quel livello era già stata presa e cioè una certa idea di superiorità morale e intellettuale alla quale, nel caso specifico della cattedra di Mazoyer, si aggiungeva anche una elaborazione teorica assolutamente nuova in Francia (e nel resto del mondo), per cui si rinforzavano, nei fatti, quei tratti di élite privilegiata che sapeva dove e come mettere le mani anche sui temi dello sviluppo agrario.

La traduzione pratica faceva sì che si creasse, malgrado la retorica progressista, una divisione chiara fra il soggetto osservante (l’esperto, maschio o femmina che fosse), e l’oggetto osservato (il contadino, il paesaggio e il sistema agrario del quale faceva parte). Il lavoro analitico quindi si concludeva con una serie di suggerimenti e proposte che venivano messe a disposizione dei committenti (istituzioni pubbliche) che dovevano poi incaricarsi di metterle in opera. Altro aspetto critico era la centralità dell’aspetto agrario (e quindi rurale), l’assoluta irrilevanza della dimensione di genere e di altre questioni che sarebbero venute a galla con gli anni. Ma il problema principale, che mi spinse a cercare strade nuove, fu quello della poca considerazione pratica riferita agli attori che andavamo a studiare. Noi analizzavamo attraverso di loro quello che risultava dalle pratiche e tecniche agricole, riconoscendo loro un savoir-faire storico, ma poi non erano mai considerati al momento di “fare” il futuro di quei sistemi. Il fatto che questo tipo di diagnostici necessitasse un tempo chiaramente maggiore rispetto alle brutte copie dei rapid rural appraisal, non era per sé un elemento centrale nell’autocritica, anche se faceva parte delle preoccupazioni che ci portavamo dietro. 

La riflessione critica cominciò ad accelerare quando, a metà degli anni 90, attraverso un contratto  con l’Università di Padova, creammo un gruppo di lavoro, guidato dal Prof. Franceschetti, sulla tematica del “periurbano”. Ne facevano parte urbanisti, antropologi, economisti, pianificatori territoriali e liberi professionisti specializzati nell’approccio eco-sistemico.   

Un primo momento concreto di azione capitò nel 1996 quando mi venne chiesto di aiutare un programma in corso di messa in opera in una regione della Bolivia, con centro la cittadina di Samaipata. Fu quella l’occasione (parzialmente raccolta nel documento che segue:http://www.fao.org/forestry/11741-0aeb23101258b35f4fa711fa453afb5e.pdf) per renderci conto come il mondo urbano della capitale regionale Santa Cruz, avesse una influenza crescente nei modi di vita e nei sistemi produttivi delle famiglie contadine della zona di Samaipata. La necessità quindi di andare oltre la dicotomia tradizionale di zone urbane e zone rurali si era mostrata in modo quanto mai concreto ai nostri occhi. Le riflessioni in corso col gruppo di Padova costituirono una base solida per inoltrarci in quel tema.

Altro aspetto chiave era la complessità del sistema agrario-forestale nel quale vivevano immerse quelle famiglie e il fatto che per capirne questa complessità bisognasse andare oltre la semplice analisi economica dei sistemi di produzione come eravamo soliti fare. Per questo chiesi a un amico di partecipare al lavoro, forte della sua esperienza professionale in Italia sul tema dei diagnostici eco-sistemici. Grazie a Roberto de Marchi riuscimmo così a forgiare una prima proposta che usciva dal seminato tradizionale dell’approccio sistemi agrari, introducendo la questione ecosistema e cominciando a riflettere sul come mettere assieme ruralità e urbanità. Il documento metodologico che producemmo non venne mai pubblicato, ma ebbe un ruolo non da poco negli anni seguenti quando facemmo il salto all’approccio territoriale.

Un’altra esperienza importante per ripensare criticamente il nostro approccio storico, venne da un lavoro che svolgemmo nella zona di Merida, in Venezuela. In quel caso si trattava di produttori di fiori che vendevano sul mercato di Miami in Florida. I loro sistemi di produzione erano altamente intensivi in prodotti chimici e pesticidi, il che cominciò a creare dei problemi di inquinamento alla falda acquifera che alimentava il villaggio posto più in basso rispetto alle zone di produzione. L’analisi economico confermò quanto ci dicevano i produttori e cioè che in quel modo, anche con alti costi di produzione, avevano dei benefici alti che, ai loro occhi, giustificava ampiamente i problemi secondari di salute.In questo caso non si trattava solo di espandere l’area del “sistema agrario” fino al mercato finale, ma andare al fondo del problema che non era tanto di tipo tecnico (all’epoca l’agroecologia era lontana dai nostri pensieri) quanto di salute pubblica. Quando anche i figli dei produttori cominciarono a manifestare segni di problemi di salute, causati dall’acqua inquinata, fu possibile proporre quello che poi sarebbe diventata la base del nostro futuro approccio e cioè: il dialogo. Il processo non fu semplice ma una soluzione venne trovata alla fine; soluzione che aveva il pregio, contrariamente al nostro modo di fare “diagnostici”, di essere la risultante di un processo locale, dove gli attori erano stati loro e dove il punto d’arrivo risultava da un dialogo e negoziazione fra entità che, questo lo analizzammo più tardi, non avevano grosse asimmetrie di potere. 

Sulla scorta di queste esperienze, decisi di proporre agli amici e colleghi latinoamericani, di varia provenienza, governativa, ONG, università e/o Think tank dei movimenti sociali, di ritrovarci per avere una sana e aperta discussione sui limiti dell’approccio “sistemi agrari” e per cominciare a pensare quali aspetti potessero essere migliorati. Ci ritrovammo quindi, nel 2001, in una località non troppo lontana da Caracas, a Higuerote, dove, sulla base di un documento che preparai pochi giorni prima, mettemmo le basi di quello che sarebbe diventato l’approccio territoriale negoziato. Come seguito immediato di quelle riunioni intense, proposi a due dei partecipanti,Isabelle Touzard del CNEARC di Montpellier, Francia e Hernan Mora dell’Università di Heredia, Costa Rica di aiutarmi a mettere in musica sotto forma di un primo documento di discussione, cosa che avvenne nei giorni tesi del Settembre 2001.

La goccia finale che, da un certo punto, mise assieme queste prime riflessioni, arrivò il mese seguente, ottobre 2001 quando, facendo seguito al tentativo di dialogo che il governo colombiano portava avanti con le FARC, e convinti di essere arrivati a un punto quasi di non ritorno, il Presidente Pastrana chiese aiuto alla FAO perché mandasse una missione di formulazione di un Programma di Sviluppo per la Pace (Proderpaz). Tre erano i temi chiave e il primo di questi era, ovviamente, la questione della terra. Nella lettera ufficiale del Presidente indirizzata al nostro Direttore Generale, era fatta indicazione specifica che per il tema terra dovessi essere io ad occuparmene, date le esperienze che avevamo già in corso in Mozambico e Angola in paesi in conflitto e post-conflitto. Ritornerò in altri post su questa storia, resta il fatto che le riflessioni che portammo avanti col gruppo di lavoro che misi in piedi in Colombia, sulla base anche delle riflessioni del gruppo di Higuerote diedero una base di partenza solida e, come mi resi conto in Colombia, attiravano anche il pubblico di policy-makers e altri attori che erano parte attiva nel fare e disfare quei territori.

Introducemmo una serie di novità, oggi abbastanza ovvie per i consulenti con cui ho lavorato in questi anni, ma voglio comunque ricordarle qui. Iniziamo con la necessità di andare oltre la dicotomia rurale-urbana. In Brasile era stato proposto il termine “rurbano” (Graziano da Silva), uno spunto che andava esattamente nella stessa direzione che stavamo prendendo noi. Pur non essendo a conoscenza (se non molto vaga) del programma dell’Unione Europea LEADER, proposi di utilizzare il termine territorio, perché aveva connotazioni di storia, di geografia e non ammiccava a questioni di tipo amministrativo. La definizione precisa la proponemmo a partire dall’anno seguente, quando il gruppetto di giovani che potei prendere a lavorare con me (voglio qui ricordare Federica Ravera e Silvia Clementi in particolare, a ci si aggiunsero Stephan Dohrn e Jeff Hatcher), cominciò ad analizzare parola per parola, concetto per concetto quanto stavamo mettendo per iscritto.

Il “territorio” era chiaramente un concetto che voleva mettere assieme realtà diverse, le rurali, le urbane e le fasce di contatto (il perturbano sul quale avevamo già avuto modo di scrivere assieme all’amico Paolo Toselli: http://www.fao.org/docrep/W6728T/w6728t03.htm). Per questo, e fino ad oggi, non capiamo il senso della riflessione portata avanti in America latina sul tema del “territoriale rurale”, un non senso dal mio punto di vista. Parlare di territorio significava aprire le porte a una serie di attori che noi, come FAO, non avevamo mai considerato prima. Non si trattava tanto di proprietari terrieri che risiedessero in città, oppure i supermercati che, con le loro scelte, potevano determinare i sistemi di produzione agricola di una zona più o meno lontana. Si trattava proprio di guardare con occhi nuovi a dinamiche di occupazione dello spazio da parte di attori le cui logiche erano diverse da quelle degli agricoltori, piccoli o grandi, ma che, dal loro punto di vista, avevano la stessa legittimità che quelle dei nostri “clienti” storici.

Ricordo che in quegli anni la FAO aveva anche pubblicato il più grande studio realizzato con una gran quantità di università e centri specializzati, sulle disponibilità di terre nel mondo. Il lavoro, denominato Global Agro Ecological Zoning (GAEZ) divenne pubblico nel 2002. Si veniva così a dare una certezza numerica a quello che osservavamo oramai in parecchie regioni del mondo: una corsa accelerata per occupare, in modo legale o meno, delle risorse naturali, terre, acque, foreste, per usi svariati, non necessariamente agricoli e non necessariamente in linea con i principi proposti dalla FAO rispetto alle qualità dei suoli. Quello che osservavamo, da noi in Italia così come in Mozambico oppure in Tailandia, che una serie di attori con interessi economici diversi, volevano avere accesso a delle risorse il cui stock, fisso, iniziava a diminuire, per portare avanti dei progetti di “sviluppo” di stampo diverso: che si trattasse della semplice espansione urbana, pianificata o meno, delle richieste per usi artigianali o industriali, di aree ricreative a grande consumo di terra e acqua (i golf per esempio) o per farne delle riserve naturali, prese individualmente erano tutte richieste legittime, ma collidevano tra loro dato che le risorse erano finite e, anzi, calavano.

Bisognava quindi, al di là di preoccuparsi di come migliorare i sistemi produttivi dei contadini o occuparsi di un generico accesso alla terra, capire meglio le dinamiche territoriali in corso, chi ne fossero gli attori, quali i presupposti e le strategie, gli interessi e le posizioni di tutti loro, per vedere se fosse possibile trovare un punto di accordo fra tutte queste esigenze. Il metodo storico era ancora uno dei pilastri centrali del nuovo approccio.

Il metodo che proponevamo era, come dicevo prima, basato sul dialogo e la negoziazione. Eravamo coscienti che si trattava, molto spesso, di attori con poteri economici e politici ben diversi, cioè con forti asimmetrie, ma eravamo altrettanto coscienti che la tematica delle dinamiche di potere non era proponibile all’interno di una organizzazione conservatrice e tendenzialmente filogovernativa come la FAO. 

Per questa ragione fin dall’inizio mettemmo un velo di buonismo, di quella retorica tanto cara agli anglosassoni, e cioè la “partecipazione”. Tutti quelli che hanno lavorato con metodi partecipativi sul campo, sanno benissimi quanto estrattivi e quanto poco democratici possano essere. Il mio amico costarricense, Hernan, aveva anche coniato un nuovo sostantivo che metteva assieme la partecipazione (teorica) con la realtà della manipolazione: “participulaciòn”. Ma chiamando così il nostro approccio eravamo certi di incontrare meno resistenze interne, dato che, come sospettavamo, nessuno dei capi servizio, certamente non il nostro anglosassone totalmente disinteressato a questo tipo di dibattiti, avrebbe letto i documenti che proponevamo. Il tema delle dinamiche di potere rimase quindi on hold per parecchi anni, fino ai giorni nostri direi.

Una delle tante difficoltà che incontrammo dentro la FAO fu la difficoltà di capire, da parte di colleghi abituati ad occuparsi di cose tecniche, concrete, e poco usi a lavorare su “processi”, che questa volta si trattava di fare uno sforzo diverso, da un lato ampliare l’orizzonte dell’osservazione, eventualmente invitare anche altre agenzie ONU oppure altre organizzazioni a condividere il “diagnostico” territoriale, analizzare attori che conoscevamo storicamente poco e male, entrare in mondi nuovi, di psicologia e pedagogia (capire e svelare gli interessi veri dei vari attori, e non limitarsi alle loro posizioni ufficiali e pubbliche) e, soprattutto, accettare il fatto centrale che, se un accordo era possibile sull’uso di una certa parte del territorio, questo doveva essere il risultato delle loro discussioni e non delle conclusioni degli esperti esterni. 

Quest’ultimo fatto ancora oggi è difficile da digerire, soprattutto dopo decenni di slogan tesi a ricordare che noi siamo il centro d’eccellenza per l’agricoltura e l’alimentazione. Conseguenza logica del sentirsi i primi (o fra i primi) è che i nostri consigli “devono” essere ascoltati. Conseguenza opposta nel caso di un approccio basato su dialogo e negoziazione: noi possiamo dare un aiuto tecnico, mettere sul tavolo elementi per facilitare la comprensione delle dinamiche territoriali, rischi e vantaggi, ma diventiamo di fatto degli elementi periferici. Al massimo, sfruttando la reputazione delle Nazioni Unite di non essere al soldo di un paese (speriamolo), possiamo diventare dei facilitatori di questo dialogo. La decisione finale comunque deve essere degli attori, deve essere costruita lì e deve essere accettata e legittimata non solo politicamente ma, soprattutto, socialmente. 


Iniziavamo ad esplorare strade nuove, che non conoscevamo completamente nemmeno noi. Ma  eravamo sicuri che quella era la strada per ridare credibilità alla FAO sul terreno, usare al meglio le nostre esperienze tecniche, ma in quadro di diversa prospettiva sociale: maggior umiltà e maggior ricerca dei punti di frizione, cosa che inevitabilmente, ci avrebbe portato in rotta di collisione con la nostra gerarchia. Ma di questo parleremo un’altra volta.

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