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venerdì 14 gennaio 2022

La visione che lascio in eredità

 […] no society is in complete control of its water and air nor can it protect itself completely from environmental contamination, pandemics, global warming and on and on as science uncovers new dangers (as well as opportunities) Jim Riddell, ex-capo servizio Land Tenure, FAO

Iniziai a interessarmi alle questioni dello “sviluppo” una quarantina di anni fa, con una visita casuale alla Nicaragua sandinista. Una rivoluzione era in corso, contro un antico sistema latifondista, patriarcale che dominava ogni porzione della vita dei sudditi della famiglia Somoza. La nuova guardia rivoluzionaria diceva voler costruire un mondo e un uomo nuovo, partendo dalle campagne, essendo l’economia del paese essenzialmente agricola ed essendo quello il posto dove maggiormente era visibile la dominazione della famiglia Somoza. La questione agraria divenne quindi il centro del loro disegno politico, ed io atterrai in quella realtà a me sconosciuta nel mezzo delle contraddizioni tipiche di questa nuova elite politica di origine borghese ed urbana, con scarse conoscenze storiche del tema agrario ma con una certa apertura mentale che permise di evitare i tipici errori delle avanguardie rivoluzionarie istruite da Mosca (collettivizzazione e nazionalizzazione delle terre), preferendo una via di mezzo di tipo cooperativo, che se sembrava poter rispondere ad alcuni dei problemi strutturali (tipo la sottocapitalizzazione, la mancanza di macchinari e risorse produttive), dall’altro poco interessava l’anima individuale dei contadini nicaraguensi.

Cominciai ad interessarmi più da vicino, leggendo i documenti che trovavo e poi cercando altri testi di più ampio respiro geografico per capire meglio come si inquadrasse questa eterna questione agraria nel mondo in cui vivevo. A futura memoria, ricordo che io ero un tipico prodotto delle Facoltà di Scienze Agrarie italiane, dove non si studiava la storia agraria, il credo era quello della tecnologia e della scienza occidentale e dove la chimica la faceva da padrone.

Altre casualità mi portarono ad incrociare il mio cammino di studi con gli insegnamenti offerti nella cattedra di agricoltura comparata e sviluppo agricolo dell’INAPG, Parigi. Cattedra che era stata di Réné Dumont e, quando ci arrivai, era diretta da Marcel Mazoyer il quale, alla visione mondiale e approssimativamente comparata che portava Dumont per la prima volta nell’insegnamento di questo tipo, aggiunse una teorizzazione che, dal concetto di “sistema agrario”, si andava ampliando alla differenziazione storica e geografica dei principali sistemi esistenti. “Capire a che gioco stavamo giocando” era la frase chiave di Mazoyer che voleva trasmettere a noi studenti: cercare il perché delle cose che vedevamo in campagna, interrogarsi sulle origini storiche, sulle diverse evoluzioni e cercare di costruire una visione coerente che spiegasse la situazione attuale, da cui trarre lezioni per proposte evolutive. Col senno di poi devo dire che mancava completamente una ancorché minima visione della questione di genere, ma a quei tempi era così che andava.

Erano anni in cui un piccolissimo paese come il Nicaragua poteva pensarsi come indipendente, fuori dalle logiche geo-politiche mondiali, salvo poi doversi ricredere molto velocemente a mano a mano che l’embargo americano chiudeva tutti i possibili sbocchi economici. Ma quella era un’impressione (la possibile indipendenza d’azione di un paese, per quanto piccolo sia) che ci portavamo dietro in tanti, e che mi seguì per anni nel mio lavoro alla FAO. All’inizio quindi mi concentrai, paese per paese, a far conoscere l’ABC dell’approccio sistemico della scuola di Parigi, interpretato alla luce dei miei primi lavori in America latina quando ero di base all’ufficio regionale in Cile. Cercare degli interlocutori nazionali, fossero universitari oppure organizzazioni non governative, nonché persone all’interno dei governi che erano la nostra controparte ufficiale, così da passar loro, come un Bignami dell’approccio sistemico, i principi teorici e le possibili applicazioni metodologiche. L’idea che sosteneva questi sforzi era che una miglior comprensione delle dinamiche agrarie locali, diverse da paese a paese, potessero permettere l’elaborazione di proposte di miglioramento delle condizioni produttive ed economiche dei contadini con poca o senza terra.

Nacquero da lì i contatti con le organizzazioni contadine nazionali, nonché con ONG italiane e non, nell’intuito che fosse necessario fare sponda con loro per poter forzare la mano di cambiamenti di politiche in favore dei settori agricoli più svantaggiati. 

Ogni occasione era buona per cercare di sviluppare nuovi progetti. Bastava un segnale da un rappresentante FAO nel paese, e ci lanciavamo a proporre interventi iniziali dai quali speravamo fiorissero dei progetti o programmi più ambiziosi, nel tempo e nelle risorse. La logica era che dovevamo trovarci ad essere pronti ad intervenire se e quando si fossero date delle condizioni storiche che permettessero un cambio. Moltiplicare gli interventi era quindi non solo una possibilità di fare esercizio di comparazione metodologica, per continuare ad apportare miglioramenti all’approccio, ma anche moltiplicare le nostre chances di poter incidere in qualcuna di queste realtà.

Era uno sforzo che trovava pochi appoggi all’interno dell’unità in cui lavoravo ma, almeno finché Marcos rimase a dirigerla, potèi contare con l’appoggio del capo servizio, un brasiliano che divenne col tempo un carissimo amico. Messa a parte questa importante, ma breve parentesi, il problema del mancato appoggio di colleghi ma soprattutto dei capi servizio e direttori di divisione, rimase come una costante, quasi un assioma. Ragione per cui, ben prima che si formalizzasse la possibilità di avere degli “stagiaires”, cominciai a prendere con me giovani volonterosi interessati a queste tematiche ed aperti, almeno speravo, a visioni diverse e non convenzionali.

A mano a mano che imparavo a conoscere l’organizzazione, quella vera e non quella delle dichiarazioni ufficiali, diventava per me evidente la scarsissima volontà di lavorare per incidere realmente sulle dinamiche della povertà agricola e rurale, accontentandosi perlopiù di un lavoro superficiale che mostrasse un certo impegno ma senza disturbare chi deteneva il potere. 

Col tempo imparai anch’io a rendermi conto di quanto illusorio fosse l’azione portata avanti isolatamente in un paese, senza approfondire la questione geopolitica a più alti livelli. Fu così che, profittando dei buoni risultati ottenuti in Brasile e dell’appoggio di Marcos, il capo servizio brasiliano, iniziammo a lavorare anche in altri paesi di lingua portoghese, Mozambico, Angola e successivamente Guinea Bissau, Capo Verde, Sao Tomé e, anni dopo, Timor Leste, cercando di pensare a una strategia di più alto respiro. 

Da un lato avevamo i risultati positivi del lavoro non solo in Brasile ma anche in Mozambico, nonché i contatti più stretti con organizzazioni contadine che, dal livello nazionale, come era il caso del MST brasiliano, erano passate a una rete mondiale a favore delle lotte contadine, con diramazioni in molti di questi paesi. Avevamo inoltre degli ottimi legami politici (uno dei nostri consulenti brasiliani era stato nominato ministro responsabile dell’agricoltura familiare), il che permetteva di portare il dialogo con questi altri governi a livelli e contenuti diversi da quelli possibili nei primi anni. Si trattava inoltre di un gruppo di paesi dove, per la ridotta presenza di esperti che parlassero il portoghese, la presenza di agenzie tecniche o di organismi finanziari era ancora limitata, così aprendo maggiori spazi per i nostri lavori di terreno.

Non più solo in queste lotte, ma accompagnato da un numero (ridotto ma non inesistente) di consulenti nazionali e internazionali, qualche risultato riuscimmo a portarlo a casa. In questo sforzo supra-nazionale cercai di coinvolgere anche colleghe di altre unità tecniche, con le quali collaboravo saltuariamente: l’ufficio legale, l’unità di genere e quella incaricata della tematica dell’acqua. Molte energie furono dedicate a questo sforzo di cercare alleanze interne, ma il problema era a monte, cioè nella selezione del personale tecnico che quasi mai sommava a una buona capacità tecnica specifica, una visione di medio-lungo termine dei rapporti di forza e delle necessità di fare squadra per far avanzare qualcuno dei nostri temi. La divisione con cui ottenni i minori risultati fu quella delle foreste, malgrado il fatto che disponevano di una rete molto fitta di progetti di terreno e un personale tecnico molto preparato. A un certo punto si era anche creata al loro interno un gruppo di lavoro particolare, guidato da una persona molto in gamba, Marylin Hoskins, che portava avanti riflessioni molto simile alle mie iniziali proposte. Sfortuna sua, deve aver calpestato i piedi di qualche potente, perché venne mandata via e la sua unità smantellata. 

Il problema principale, che cominciava a diventare sempre più evidente per me, era la mancanza di una riflessione, all’interno del gruppo che si occupava di “politiche” legata non solo alla questione agricola ma, più amplia, a quella agraria e cioè al divenire delle strutture agrarie, i giochi di potere e l’accaparramento che si cominciava a vedere. Questo ci obbligava a cercare di portare noi stessi le nostre istanze, elaborate a partire dalle esperienze di terreno, a livello “politico” nazionale e all’interno della FAO, ma era difficile trovare interlocutori dato che anche lì si preferiva di gran lunga limitarsi alle questioni agricole senza toccare mai i problemi strutturali.

I problemi, a mano a mano che conoscevamo meglio i portatori di interessi, invece di diminuire aumentavano. Il nuovo interesse che la terra cominciò a suscitare dagli inizi degli anni 2000, fece aumentare le pressioni da parte di attori internazionali che portavano avanti un’agenda molto diversa dalla nostra, incentrata sul profitto, la regola del più forte e una competizione internazionale dove non c’era posto per i piccoli agricoltori, il cui destino era l’emigrazione urbana, nazionale o internazionale. Se da un lato questa deriva l’avevamo vista arrivare, quello che probabilmente ci fece più male fu la comprensione che anche i movimenti contadini, anche i più conosciuti a livello mondiale, funzionavano con un livello di retorica ideologica verso l’esterno, simile ai tanti partitini e gruppuscoli dell’estrema sinistra, ma poi una logica di potere patriarcale e leninista verso l’interno, dove non c’era spazio per costruire collaborazioni con altre forze simili e ancor meno con chi, all’interno di agenzie come la nostra, cercasse di aprire spazi di dialogo e collaborazione.

Ci siamo venuti a trovare quindi da un lato una mondializzazione degli interessi per le risorse naturali con attori di peso economico e politico che facevano sempre squadra nei momenti topici, e dall’altro una frammentazione delle organizzazioni di lotta contadina, in competizione fra di loro per risorse economiche, visibilità politica e spazi di potere all’interno delle macchine governative. Rapporti di forza così diseguali che permettono di capire come, se da un lato la questione delle risorse naturali nell’accezione più amplia sia diventata centrale in molto agende politiche, dall’altro le questioni fondamentali, come la loro diseguale ripartizione e l’attualità della questione agraria intesa come necessità di riforme agrarie, siano praticamente sparite dall’orizzonte.

L’evoluzione interna alla FAO aveva portato un nuovo capo servizio, figlio della cultura colonialista inglese e quindi geneticamente disinteressato alle questioni dei diritti delle comunità contadine, donne, popoli indigeni etc. Era (ed è) figlio di quella ontologia del modernismo, così riassunta da B. Latour (citato da Kirsten Koop nel suo ultimo lavoro ancora non pubblicato): “depuis le siècle des Lumières, les sociétés occidentales étaient attirées par la modernisation, projet social synonyme de progrès, de bien-être matériel, de liberté individuelle et de droits universels. Il ne s’agissait pas seulement d’œuvrer en sa faveur sur place, mais aussi de l’étendre dans le monde, d’abord par la colonisation, puis par l’économie mondiale libérale. Ce front d’expansion géographique ignorait tout autre mode d’existence, la modernisation étant un projet aussi bien dans l’espace que dans le temps.” (fin dall'Illuminismo, le società occidentali sono state attratte dalla modernizzazione come un progetto sociale sinonimo di progresso, benessere materiale, libertà individuale e diritti universali. Non si trattava solo di lavorare per esso a livello locale, ma anche di diffonderlo nel mondo, prima attraverso la colonizzazione, poi attraverso l'economia mondiale liberale. Questo fronte di espansione geografica ignorava qualsiasi altra modalità di esistenza, poiché la modernizzazione era un progetto nello spazio oltre che nel tempo) (LATOUR, B., (2017), Où atterrir? Comment s’orienter en politique, La Découverte, Paris). 

L’inglese incarnava la visione occidentale della Banca mondiale figlia della teoria del trickle-down per cui bisognava creare condizioni ideali per investitori internazionali – da cui la promozione di sistemi di amministrazione fondiaria copiati sui modelli occidentali – in modo che grazie a loro si sviluppasse l’economia e questo portasse degli effetti positivi anche ai più poveri. Si creò così un’alleanza strutturale tra i vari segmenti conservatori della FAO e la Banca mondiale, supportata poi da un insieme di altre organizzazioni bilaterali del nord, e dal settore finanziario privato che fecero sì che l’asimmetria di potere fra nord e Sud aumentasse ancor di più.

La violenza di questo assalto capitalista alle risorse naturali nei paesi del Sud ha portato alla ribalta questa questione attraverso un nuovo angolo, quello dei conflitti, aumentati a dismisura in tutte le regioni del mondo. Oggigiorno possiamo dire senza paura di essere smentiti, che praticamente tutti i conflitti in corso hanno una base legata all’accaparramento delle risorse naturali, suolo e sottosuolo. Gran parte di questi trovano le loro origini nelle decisioni prese dalle potenze coloniali occidentali, che spartirono il mondo con frontiere artificiali in funzione dei loro soli interessi. 

Oggi più che mai ci sarebbe bisogno di interlocutori internazionali, come le agenzie ONU, ma proprio quando più sarebbero necessarie meno le troviamo. La situazione si sta incancrenendo ed è difficile vedere delle vie d’uscita dato che i principali detentori del potere (le vecchie oligarchie coloniali e le nuove potenze emergenti) condividono sempre la stessa idea di non voler intervenire sulle cause dei problemi (che loro hanno creato), e limitandosi a palliativi per cercare di limitare i danni.

Ecco perché i conflitti legati alle terre e territori aumentano, così come le emigrazioni, forzate dalle guerre, dall’economia o dall’ecologia, pian piano diventando un problema per il nord del mondo, visto però, ancora una volta, sotto l’angolo sbagliato, cioè quello della nostra sicurezza (per non parlare delle teorie incredibili sul grande rimpiazzamento del mondo occidentale cattolico da parte di fantomatici milioni di mussulmani in arrivo sulle nostre coste).

In questo contesto, il nostro lavoro di evoluzione metodologica, da quello che all’inizio chiamavo il “diagnostico dei sistemi agrari”, verso un approccio di tipo territoriale, basato su dialogo e negoziazione, si è interessato sempre più alla questione dei conflitti. Lo spazio che noi cercavamo di aprire ed occupare in materia di sviluppo agricolo nei paesi del Sud prima che la conflittualità diventasse troppo grande, trovò il suo apogeo nella Conferenza Internazionale che organizzammo a Porto Alegre nel 2006. Fu una mano tesa, non rivoluzionaria, dati i limiti politici della FAO, ma di un riformismo di tipo nuovo, portata verso quegli interlocutori, i movimenti contadini organizzati, con i quali volevamo provare a fare sponda per coordinare le nostre azioni, laddove possibile, in maniera di incidere più strutturalmente sulle dinamiche politiche ed economiche nazionali. 

Il messaggio di felicitazione che ricevemmo all’indomani della sua conclusione da parte dei vertici della Via Campesina, ci fece credere per un momento che fosse possibile sommare il loro peso, in quanto organizzazione che poteva agglutinare un insieme di altri movimenti nazionali, e il nostro (limitato) peso internazionale per contrapporci in maniera più strutturata e coesa alle forze economico-finanziarie neoliberali che dominavano la scena.

Era un sogno, un miraggio di come avremmo potuto, assieme, lottare per cambiare il mondo. E per un momento lo credemmo possibile. Poi il realismo politico di questi movimenti fece loro scegliere di restare all’interno delle loro zone di confort, laddove possono gridare contro gli oppressori ma senza andare mai a sporcarsi le mani nell’azione politica diretta, e scelsero di appoggiare con coscienza la manovra opposta che venne messa in atto dai paesi occidentali più neoliberali, appoggiati dalla Banca mondiale e dalle forze economiche e finanziarie interessate a non avere lacci e lacciuoli che limitassero la loro presa di controllo delle risorse del Sud. Fu così che inventarono il programma che portò alle Direttrici Volontarie sulla Buona Governanza della Terra che, il giorno della loro approvazione, maggio del 2012, vennero applaudite pubblicamente dal rappresentante della Via Campesina. Un tradimento degli ideali di questa portata non l’avevo mai visto, e tutto in cambio del famoso piatto di lenticchie nella forma di pochi soldi per appoggiare il loro lavoro interno, che vennero elargiti da qualche donatore che se li comprò.

Bastarono pochissimi anni perché si rendessero conto del loro tragico errore, ma oramai la frittata era fatta e troppe celebrazioni, troppi documenti e troppe prese di posizione era state fatte e dette per poter tornare indietro. 

In questo contesto, il lavoro che aumentammo nei paesi in conflitto si trovò in una situazione molto complicata, dalla quale non siamo ancora riusciti ad uscire. Da un lato in molti casi i governi occidentali hanno preferito vedere in questi conflitti una dimensione di lotta internazionale al terrorismo (di matrice islamica o altro), così da portare avanti un’agenda militare che non ha mai avuto possibilità di successo, dato che le ragioni di fondo sono legate alle risorse naturali e alle popolazioni che ne rivendicano i legittimi diritti. Dall’altro, i movimenti contadini non hanno ancora elaborato una riflessione che permetta loro di uscire dalla trappola delle Direttrici Volontarie, per cui sono attori inesistenti in questa che sta diventando l’agenda principale del tema “cooperazione allo sviluppo”. 

Ecco perché la ricerca di possibili alleati di diversa natura è iniziata già da parecchi anni. Come lo scrivemmo nel nostro documento GreeNTD, il principale alleato con cui dovremmo (il condizionale è d’obbligo) poter contare è Papa Francesco, dato che la visione dei rapporti tra esseri umani e risorse naturali come spiegata nell’enciclica Laudato Sì, calza perfettamente con quanto portiamo avanti noi. Per capirci meglio: non si tratta di contare sulla Chiesa Cattolica nel suo insieme, dato che anche questa è strutturalmente una forza conservatrice e restia a qualsiasi cambiamento strutturale, ma alle spinte che persone al suo interno possono provare a impartire. In questo contesto storico, la parola del Papa può aiutare a cercare alleanze in quella direzione, anche se finora i risultati sono stati scarsi. In particolare nel mondo dell’associazionismo cattolico, quelle tante ONG italiane ed europee che si rifanno all’insegnamento cattolico ma che, nella pratica, funzionano con la stessa logica delle altre ONG laiche che ho conosciuto: la ricerca di fondi come attività principale, di origine quasi esclusivamente occidentali, il che crea una barriera insormontabile all’indipendenza della riflessione e dell’azione sul terreno, che non vanno mai contro i principi ideologici dei loro sostenitori. Di conseguenza ci si ritrova in un circolo senza uscita: ai livelli inferiori troviamo persone interessate e volenterose, ma poi mano a mano che si sale nella gerarchia, l’uniformizzazione diventa la regola: comanda chi mette i soldi, come ben dicono i donatori del nord: value for money!

La logica di fondo che noi dovremmo spingere l’aveva già chiarita il mentore del mio mentore, Réné Dumont, molti anni fa: “consigliare a chi detiene il potere economico-finanziario-culturale di cambiare al proprio interno, di condividere gentilmente il potere con chi non ce l’ha, è una strategia portata avanti dal cristianismo durante duemila anni, senza risultati. Quello che bisognerebbe predicare è la rivolta dei poveri, una crociata contro le casseforti dei ricchi.”

Di fronte allo stato delle cose attuali, da alcuni anni ho iniziato ad interessarmi maggiormente di quello che potrebbe essere una chiave di volta, di medio-lungo periodo sicuramente, ma forse di maggior probabilità di successo. Da parte mia credo che non esista nessuna possibilità per i movimenti contadini come sono oggi da una parte, e i movimenti ecologisti sparsi in giro per il mondo dall’altra, di riuscire a influire strutturalmente nel modello economico finanziario che da oltre 40 anni determina i nostri modi di vita. L’auge dell’interesse mondiale dell’opinione pubblica per i movimenti contadini fu quasi 25 anni fa, al momento del massacro de Eldorado dos Carajàs in Brasile. Quell’onda di simpatia tuttavia non fu sufficiente per spostare di un millimetro i rapporti di forza e, ancor peggio, non servì per spingere ad un avvicinamento tra i vari settori in lotta, come sempre succede con i movimenti politici di sinistra o rivoluzionari che siano, nel mondo intero. La competizione tra loro e per fette sempre più marginali di potere ha fatto perdere interesse per le loro lotte, che sono diventate sempre più difensive di piccoli spazi e/o conquiste del passato e sempre meno tese alla rivoluzione tanto decantata. 

Oggi pertanto vediamo bene come, malgrado la crisi del 2008-09 e quella attuale, non esistono segnali seri di una volontà di cambiamento politico a livello internazionale. Quei pochi leader progressisti arrivati al potere in questi ultimi decenni sono finiti tutti inghiottiti dalla brama di potere che ha fato perdere loro contatto con le realtà contadine nazionali e locali e quindi incapaci di porsi all’avanguardia di lotte a livello mondiale. 

Gli oltre 70 anni dedicati al tema dello sviluppo e sottosviluppo sono stati essenzialmente dominati da una visione maschilista e patriarcale, sia dentro le sfere di potere che quelle dell’opposizione. Si è giocato quasi sempre sul campo economico, allargandolo a qualche briciola di “sociale” per far piacere all’opinione pubblica, e più recentemente alla questione ecologica, ma sempre vista a partire da un paradigma economico essenzialmente neoliberale (e quindi patriarcale), come si vede bene con le discussioni nostrane sul piano nazionale di resilienza post-covid (finanziato dall’Unione Europea).

Si è così scelto di lasciar fuori dalla discussione, quasi non fossero parte in causa, la metà del mondo, quella femminile. Malgrado l’arrivo sulla scena internazionale di una riflessione progressivamente sempre più affinata sulla questione, quando si entra nello specifico dello sviluppo agricolo/agrario, dobbiamo constatare quanto poco si sia fatto in pratica. 

Ci ho pensato molto, ma alla fine sono giunto alla conclusione che non ci sarà quella rivolta dei poveri agognata da Dumont e, a parole, sostenuta dai movimenti contadini. Non ci sarà perché questi ultimi hanno dei limiti strutturali che richiedono tempi lunghi e forze nuove per essere superati, non ci sarà perché il mondo delle ONG, del nord come del Sud, è troppo dipendente finanziariamente dai fondi di chi detiene quel potere che si vorrebbe cambiare, e non ci sarà perché l’opinione pubblica del nord, penso in particolare al caso italiano, è stata anestetizzata da 40 anni di politiche culturali inesistenti, da un modello culturale imposto dai media di Berlusconi (possibile futuro Presidente della Repubblica! Cose da pazzi che si pensava non potessero succedere in Italia, ed invece …) e da una scarsa curiosità per leggere e capire cosa succeda in giro per il mondo. (pensavo e scrivevo queste cose poco prima che il Cile, ancora una volta, stupisse tutti facendo vincere un fronte progressista e un candidato giovane e fuori dagli schemi come Presidente della Repubblica. Vale forse ancora il detto: spes ultima dea…).

Al di là però di questa tenue speranza, in me domina il pessimismo. Mi ritrovo molto in queste parole di Sardan, autore conosciuto grazie alla cara amica Kirsten:

« The spirit of our age is characterised by uncertainty, rapid change, realignment of power, upheaval and chaotic behaviour. We live in an in-between period where old orthodoxies are dying, new ones have yet to be born, and very few things seem to make sense. Ours is a transitional age, a time without the confidence that we can return to any past we have known and with no confidence in any path to a desirable, attainable or sustainable future [...]. Postnormal times demands [...that we abandon the ideas of ‘control and management’, and rethink the cherished notions of progress, modernisation and efficiency. The way forward must be based on virtues of humility, modesty and accountability, the indispensible requirement of living with uncertainty, complexity and ignorance. » (SARDAR, Z., (2010), Welcome to postnormal times, Futures, vol. 42, n°5) 

Come lo ricorda l’autore di queste parole ci troviamo in una fase storica caratterizzata da: complessità, caos e contraddizioni. Sono arrivato quindi alla conclusione che il problema vada impostato da un angolo diverso: quello del necessario riequilibrio dei rapporti uomo-donna, un precedente necessario per poter ripensare l’equazione tra esseri umani e natura. 

Nella mancata comprensione di questo aspetto preliminare, io vedo i limiti della Laudato Sì. All’inverso che in matematica, cambiando l’ordine dei fattori qui il prodotto cambia. Non credo sarà possibile operare per un riequilibrio strutturale del rapporto tra risorse umane e risorse naturali se prima non si riempie il fossato delle disuguaglianze di genere. Il contrario non funziona. Non si parte dall’ecologia per arrivare all’essere umano. Si parte da quest’ultimo per poter pensare un equilibrio diverso con la Natura.

 E questo va fatto partendo da una visione che non sia di tipo individualistico-neoliberale, ma dalla diversità del mondo femminile, dalle disuguaglianze che si moltiplicano tra variabili di classe, genere, etnia, per promuovere dei movimenti tellurici di gruppo.

Negli anni 70 Mariarosa Dalla Costa ed altre femministe italiane avevano promosso l’idea di un salario da riconoscere al lavoro domestico. Moltissime furono le critiche, ma alla fine oggi cominciamo a renderci conto che è dalla sfera familiare che bisogna ripartire. Dei veri movimenti contadini genuinamente rivoluzionari dovrebbero essere i primi a far sì che questo equilibrio interno, che passa per una diversa ripartizione dei compiti, con il maschio che prende a carico la sua parte di compiti nell’insieme della sfera riproduttiva e del “care”. Che siano sforzi difficili per le resistenze storicamente accumulate non esime che, se si pretende ad essere diversi e rivoluzionari, bisogna avere il coraggio di prendere strade nuove, anche se difficili. Bisogna però anche uscire dalla dominazione modernista che abbiamo in testa tutti quanti: non è un salario, soldi, che permetterà di cambiare il rapporto. E’ certamente un buon punto d’entrata per sfidare gli altri attori in gioco, ma la vera questione è di cominciare a pensare a un’altra ontologia, da costruire.

Anche qui si pone il problema delle alleanze, ma credo che esista un mondo di organizzazioni femministe con cui sia possibile aprire un dialogo per far aumentare la pressione al cambio dentro le istanze direttive dei movimenti contadini, delle ONG e dei governi. Bisogna fare attenzione però, perché il mondo neoliberale ha già molto vantaggio su di noi, tanto da appoggiare molte istanze femministe purché restino dentro la visione individuale del mondo: non società ma individui, come diceva la Lady di Ferro. Noi, cioè chi continuerà la lotta che ho promosso in questi anni, dovrà iniziare a riflettere al suo interno per arrivare probabilmente a conclusioni simili, cioè che è da lì che si deve ripartire. Poi, fatto questo primo passo, dovrà cercare nel suo agire professionale di costruire legami e una visione che si adatti alle varie realtà di disuguaglianza di genere che dobbiamo combattere, in uno spirito che non sia più competitivo ma di alleanza. Arriveremo pian piano alla questione fondiaria, ma questa non può essere vista solo come una questione giuridica formale di chi ha dei diritti sulla terra. Se non si fa pressione per un cambio societale, iniziando dagli uomini che sono membri attivi nei movimenti contadini che si definiscono “progressisti”, non andremo da nessuna parte, e continueremo a proporre, sempre più stancamente, dei Forum mondiali ai quali sempre meno persone si interessano.

Non possiamo partire da chi comanda i movimenti contadini, perché si tratta di elite votate all’interno di quella cultura patriarcale che ha dominato e, magari parzialmente, continua a dominare quelle stesse organizzazioni. Vanno cercate al loro interno quelle forze che si battono per far emergere questo tema, come è stato con le donne brasiliane della Contag che hanno imposto quella che è conosciuta come La Marcia delle Margherite, contro le opinioni contrarie dei loro capi. Cambiare si può, e loro lo hanno dimostrato, così come piccole voci dentro la Via Campesina cercano di portare avanti la stessa rivoluzione interna. Quelle voci dobbiamo cercare e accompagnare, ma non limitarci a quell’universo. Fuori dal mondo agricolo esistono molte organizzazioni femministe che si interessano alle problematiche agrarie ed ambientali. Certo, ci sono molte divisioni, il che è giusto e normale, ma noi dobbiamo entrare in quell’universo e proporre un filo per tessere rapporti.

Anche sulla questione dei conflitti dobbiamo cambiare prospettiva. Prima di essere conflitti esterni, sono innanzitutto conflitti interni che non vogliamo riconoscere, per nostra incapacità culturale. Se non iniziamo ad interessarci a quella sfera, non sarà mai possibile raggiungere un equilibrio, un accordo, sulle dimensioni esterne del conflitto. Avremo una pace di superficie, che non risolverà nulla, esattamente come fanno i paesi occidentali (pian piano seguiti dalla Cina e dalla Russia) quando privilegiano l’intervento militare, come se qualche volta nella storia i militari fossero stati capaci di risolvere strutturalmente un problema.

Quello che lascio è una visione che è ancora in via di formulazione. Quest’anno, assieme ad alcune colleghe e amiche, dovremmo riuscire a pubblicare un libro sulla questione delle Terre, Donne e Diritti. Un altro piccolo passo, che fa parte del lascito morale ed intellettuale per voi amici e amiche con cui ho lavorato in questi lunghi anni.

Un abbraccio e un incoraggiamento perché le energie non vi manchino. Come cantava il vecchio di Pavana (Guccini), sulle parole di un altro emiliano (Ligabue), io “la mia parte ve la posso garantire”.

 

 

 

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