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sabato 1 ottobre 2011

L. 45: Trois jours chez ma mère - François Weyergans



Grasset, 20005

Un libro che ha vinto il Goncourt in Francia e che ho trovato di là, senza ricordare chi l'avesse comprato. Letto con curiosità ma, mano a mano che andavo avanti, un dubbio mi è sorto: o i giurati del Goncourt sono degli intellettuali sopraffini a cui noi non arriveremo nemmeno dopo morti perchè geneticamente troppo lontani, oppure qualcosa non quadra.
Se uno lo legge senza conoscere la fama dell'autore e le pippe mentali che i francesi amano farsi, non arriverebbe mai alla fine. Non è un gran libro onestamente e forse la spiegazione del perchè gli abbiano dato il premio nel 2005 è che il superfavorito, Houellebecq, stava proprio sulle palle a tutti. Riprendo i commmenti fatti dal critico di Famiglia Cristiana che sottoscrivo in pieno.


Un romanzo sull’impossibilità di scrivere un romanzo. Una storia continuamente interrotta. Annunciato da anni a ogni rentrée, e sempre rinviato, era ormai l’araba fenice delle lettere francesi, un oggetto misterioso, di cui l’autore distillava le anticipazioni, creando attorno al suo difficile parto un’atmosfera di attesa che suscitava l’interesse dei critici e metteva in imbarazzo l’editore. Ora, invece, quando tutti cominciavano a dubitare della sua esistenza, il romanzo è arrivato nelle librerie. E, a sorpresa, ha vinto anche il prestigioso Premio Goncourt, battendo sul filo l’ultrafavorito Michel Houellebecq.

Trois jours chez ma mère di François Weyergans (Grasset, pagg. 264, euro 17,50) non è un capolavoro. E non è neppure il libro migliore dell’autore. È un pastiche di generi diversi, un racconto autobiografico tra il comico e il tragico, in cui troviamo tutte le ossessioni dello scrittore, dalla psicanalisi all’educazione cattolica mal digerita e ripudiata, dai giochi di parole all’erotismo spinto. Ma Weyergans è una specie di Woody Allen prima maniera, a cui tutto si perdona. Goffo, maldestro, ansioso, malato – sembra incredibile – di agorafobia e di claustrofobia nello stesso tempo, seduttore inveterato, capace di proporre micidiali calembours, ha il dono di suscitare simpatia, mescolando come pochi intelligenza e umorismo, sublimi considerazioni metafisiche e trivialità.

Nel libro precedente (Franz et François, Grasset, 1997), aveva fatto i conti con il fantasma ingombrante del padre, intellettuale cattolico di fama, critico cinematografico, autore – negli anni ’60 – di saggi sul valore della fedeltà nella vita di coppia e sulla santità del matrimonio cristiano. Ora, in Trois jours chez ma mère, Weyergans figlio mette al centro dell’intrigo una visita sempre rinviata alla madre novantenne che vive da sola in Provenza. Di digressione in digressione, l’autore si sdoppia, cambia identità e il tema del libro diventa il dramma della pagina bianca, la crisi di ispirazione, l’impossibilità di terminare un romanzo o qualsiasi altra cosa. Ma il gioco questa volta sembra più futile e vacuo del solito: un esercizio di stile che strappa qualche risata, ma che non emoziona. Ed è probabile che i giurati del Goncourt abbiano voluto premiare non tanto il libro quanto l’autore. Sbarazzandosi del sulfureo e sopravvalutato Houellebecq.

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