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martedì 27 marzo 2012

Amina: il tuo suicidio, la nostra lotta


Penso al libro di Paola Bottero, Ius Sanguinis, alle storie di violenza sulle donne. Non posso che esser triste, triste dentro, profondamente scioccato da notizie come questa che ci è giunta dal Marocco dove Amina Al Falali, 16 anni, obbligata a sposare l’uomo che l’aveva violata, suicidatasi il 10 marzo scorso a Tangeri. Così è la legge marocchina, che permette in questo modo al violentatore di sfuggire alla prigione. Che poi questo signore se ne venga a dire che non riesce proprio a capire cosa l’abbia portata a questo gesto, dimostra solo l’abisso culturale nel quale è immerso, lui e tutti quelli come lui, che sono tanti, non solo in Marocco, ma in troppi paesi del mondo.
Si parte dal non considerare questo aspetto basico, evidente fra di noi essere umani: la diversità di genere. Non accettando questa diversità, e non costruendo un rapporto equilibrato a partire da questo, semplicemente riveliamo la nostra tendenza (non dico genetica) al non rispetto dell’altro ed alla sopraffazione. Si finisce così per legittimare ogni violenza, in nome sempre di un “bene” supremo. Si citano “valori” superiori, Famiglia, Patria e tutto il resto, ma alla fine ci si dimentica sempre da dove (non) si è partiti.
Io lo vedo nel mio lavoro, ogni giorno. La questione di genere nello sviluppo è stata declinata per molti anni come una salsa da spalmare sopra il piatto principale, che può essere la soluzione tecnica, economica, tecnologica o politica ai problemi della povertà e alla fame nel mondo. Mai che si senta dire che è dalla dimensione “genere” che si deve partire. E perché proprio da lì? La ragione e’molto semplice. La fame e la povertà sono problemi creati da noi stessi, man-made come dicono gli anglofoni. Di conseguenza dobbiamo partire da noi stessi se vogliamo risolverli. E partire da noi vuol dire innanzitutto riconoscerci per quello che siamo: diversi. Riconoscerci diversi per poi accettarci, nella nostra diversità. Rimettere la centralità dell’essere umano nelle discussioni, nelle politiche e programmi per la lotta alla fame e alla povertà vuol dire quindi partire dalla prima e più ovvia diversità, di genere. Genere vuol dire cultura, rispetto, diritti e doveri.
Finché non avremo chiaro questo aspetto basico, purtroppo ci saranno ancora tante Amina da piangere. Io provo, qui dentro, a spingere perché la questione “genere” diventi la variabile strutturale per pensare ai nostri interventi futuri, ma anche nei nostri rapporti quotidiani, dal piccolo al grande insomma, perché la diversità e il rispetto non sono solo parole da usare nella manifestazioni, ma anche nella nostra vita e nella nostra attività professionale di tutti i giorni.
Amina, non ti dimenticheremo.

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