Scritto tra la fine del 1829 e la prima
metà del 1830, Il rosso e il nero è il secondo
romanzo di Stendhal. L'autore ne corregge
le bozze proprio durante le giornate
della Rivoluzione di luglio, che liquida
la Restaurazione e inaugura la monarchia
borghese di Luigi Filippo. Di questo
passaggio cruciale della storia francese
Stendhal restituisce con crudele fedeltà
non la cronaca (malgrado il sottotitolo
del romanzo), ma lo spirito, muovendo
dalla realtà della provincia per approdare
a Parigi, dove da sempre si annodano
e si sciolgono i destini politici della Francia.
L'impietosa analisi storica non esaurisce
tuttavia la complessità della vicenda
e del suo protagonista. L'ostinata rivolta
di Julien Sorel non è riducibile semplicemente
all'acuto senso della propria inadeguatezza
economica e sociale. La sua non
è coscienza di classe, e Il rosso e il nero non
è il romanzo dell'ambizione e della scalata
ai vertici della società: Stendhal non
è Balzac. Julien Sorel affronta il mondo
brandendo la propria inferiorità sociale
come un'arma, ma il mondo creato dalla
potenza del denaro lo disgusta, anche se
tanto spesso deplora l'umile condizione in
cui la sorte lo ha fatto nascere. Perciò rimpiange
l'epoca napoleonica (di cui questo
romanzo rafforza il mito, nato già all'indomani
di Waterloo), convinto com'è che
allora fosse possibile affermarsi soltanto
grazie ai propri meriti. Il rosso e il nero è
il romanzo dell'esasperata consapevolezza
di sé e della propria dignità, ma anche
della vanità, dell'amor proprio, del risentimento. Racconta la guerra, persa in partenza,
di un individuo contro tutti. Julien
Sorel è un corpo estraneo in qualunque
ambiente si venga a trovare, non si lascia
integrare, e non sa cedere alla spontaneità
nemmeno nell'amore. Maniaco della strategia,
ha l'ossessione del controllo, su di
sé e sugli altri, ma anche tutta l'ingenuità
di chi vorrebbe imporsi in un mondo ostile
senza conoscerne né accettarne fino in
fondo le regole. Solo in rarissimi momenti
si concede di essere sincero con se stesso,
nella solitudine della natura o, alla fine,
nel felice isolamento del carcere, in attesa
della ghigliottina.
A me é sembrato un libro partito bene, sia con la descrizione storica che dei vari personaggi, ma poi mano a mano che ci si avvicina all'intrigo d'amore, diventa difficile capirne la logica. Il giovane Sorel non si rivolta contro un mondo che vorrebbe invece conquistare, anzi che pensa meritare dall'alto della sua superbia. Il rapporto con la giovane fidanzata é incomprensibile, ed il ritorno di fiamma della prima la fa passare come un'oca pronta a buttarsi a piedi del "bello del quartierino". Insomma la Signora de Renal ci fa una pesimma figura, Mathilde la giovane mezza svampita che alla fine scopre di amarlo alla follia non é che ne venga fuori meglio. Forse questo va messo in conto al periodo quando é stato scritto, un'epoca quando il "gender" non era ancora un tema alla moda. Peró poteva finire in modo diverso, con lui che invece di finire in galera arriva al culmine dei suoi desideri e cosí avremmo potuto vederlo alla prova dei fatti.. invece tutto finisce cosí causa una gravidanza non desiderata né da Mathilde né da Julien... Stendhal mi ha dato l'impressione di non sapere come far finire questa storia, come se gli scappasse dalle mani e quindi, con l'artificio della gravidanza, fa pendere l'equilibrio per una fine si tragica ma, onestamente, un po' fuori tema.
martedì 10 giugno 2014
domenica 1 giugno 2014
La necessaria riorganizzazione sociale
Varie sono le correnti di lavoro attorno ai concetti di
Stato e nazione. Alcuni per esempio propendono a ritenere che sia nato prima lo
Stato e che la sua progressiva strutturazione, attraverso le istituzioni, abbia
dato luogo alle nazioni. Questo sarebbe stato in particolare il caso delle
grandi monarchie europee, Francia, Spagna ed Inghilterra, grandi spazi dell’
Antico Regime (pre-rivoluzione francese) che avrebbero così creato le condizioni
preliminari di unificazione – giuridica, militare, linguistica, economica,
amministrativa – da cui è derivato il senso dell’identità nazionale dei loro
sudditi.
Altri invece hanno fatto riferimento a processi costitutivi
diversi, soprattutto quando i gruppi sociali effettivamente partecipi di un
sentire e una cultura comune fossero particolarmente esigui. Si è parlato
quindi di “nazionalizzazione delle masse”, con
la quale si è inteso definire il processo di integrazione nazionale, operata
mediante un largo ricorso a elementi simbolici, da parte delle élitepolitiche
nei riguardi dei ceti popolari.
A me sta più simpatica questa seconda concezione, dati gli
spazi professionali nei quali mi muovo. La genesi della nazione moderna diventa
quindi funzionale all’espansione di nuovi sistemi economici industriali (non a
caso questa concezione nasce e si applica al periodo dalla seconda metà dell’ottocento
in poi), i quali necessitano di spazi più omogenei di riferimento (i mercati
nazionali). L’accento è messo quindi sulla rispondenza di una costruzione
sociale, lo Stato-nazione, a un dominus che poco a poco prenderà in mano il
divenire dell’uomo: il mercato e il sistema economico su di esso imperniato. La
nazione quindi diventa un prodotto assai recente dell’incontro fra un messaggio
ideologico e gli interessi di élite economico-sociali che in condizioni non
nazionali avrebbero stentato a emergere. Il rischio che questo prodotto, la
nazione, possa poi degenerare nel suo estremo, il nazionalismo, era un rischio
implicito, che abbiamo già corso con le due guerre mondiali, a dimostrazione
che non sempre i processi sociali si possono controllare del tutto.
Resta comunque, in questa concezione, lo Stato-nazione come
elemento necessario, in certi momenti storici.
Ma al giorno d’oggi quello che
osserviamo, oramai da qualche decennio, è che il sistema economico ha
oltrepassato i limiti dei mercati nazionali; la globalizzazione gioca oramai a
livelli più alti, e per questo spinge alla creazione di spazi omogenei ad un
piano superiore. Lo Stato-nazione non è più quindi funzionale, da cui la
necessità progressiva di rimpiazzarlo con qualcosaltro: queste entità supranazionali,
Unione Europea, o Patti tipo il Nafta o altri simili, si presentano nella
storia come dei prodotti che soffrono di un sentire e una partecipazione
comune, secondo l’espressione usata poc’anzi. Di più, la percezione che se ne
hanno è proprio di essere quello che devono essere, cioè delle costruzione
funzionali al dispiegarsi della globalizzazione, cioè della sottomissione dell’individuo
e dei gruppi sociali, al potere del sistema economico dominante.
Questo stesso sistema economico ha già iniziato da tempo a
rimpiazzare le elite nazionali con altri portatori di interessi che operano
nella più totale a-nazionalità, non rispondono (o sempre meno) ad interessi
specifici di un paese, un governo, ma sempre di più sono autoreferenziali.
Parlo delle multi e transnazionali, dei Trust e altri Fondi di investimento. Si
tratta di entità che prefigurano quale sarà il nostro futuro: la sottomissione
aumenterà, dato che l’asimmetri di potere tenderà ad aumentare, dato che la
progressiva marginalizzazione dello stato nazione ridurrà gli strumenti
difensivi alla portata del cittadino comune. Quel poco che sappiamo del
trattato che si sta negoziando tra la Commissione Europea e gli Stati Uniti, è
sufficiente per allarmarsi: nemmeno più una parità fra Stati e Privati, ma
oramai i Privati (e i loro interessi) prevarranno sugli Stati (che sono quelli
che devono difendere i nostri piccoli interessi). Il Privato, la Company, potrà
portare in giudizio uno Stato, nel caso in cui metta i bastoni tra le ruote all’espansione
della Company. E’ già successo: La
Philip Morris, multinazionale del tabacco, ha portato in giudizio l’Uruguay,
reo di aver messo delle norme antifumo troppo stringenti. Eccolo lì ancora una
volta il nostro futuro.
Nel Sud del mondo, dove lo Stato-nazione è ancora
balbuziente, il dispiegarsi della globalizzazione sta avendo un altro effetto:
aumenta la conflittualità. La chiamata a ridefinire i confini degli Stati si
sta facendo ogni giorno più forte e la legittimità degli Stati attuali si
fragilizza quando gli stessi paesi tutori del Nord cominciano a sentire sul
collo il fiato dello stesso fenomeno disgregante: se al Nord abbiamo i
catalani, i padani, i corsi etc. a voler ridisegnare l’Europa, al Sud invece
abbiamo già avuto l’emergere di Stati nuovi: l’Eritrea, il Sudan del Sud e, sta
bussando alla porta per esser riconosciuto come tale, il Somaliland. Non sono i
soli, ma i primi ad avere osato mettere le carte sul tavolo. Quello che sta
succedendo in Libia è lì a ricordarcelo a due passi da casa. La Tripolitania e
la Cirenaica si stanno dicendo addio e dato che il divorzio non è consensuale,
bene ecco che si gettano metaforicamente le pentole dalla finestra.
Nel bene e nel male, il dispiegarsi dello Stato nazione
moderno, soprattutto dopo gli estremi del nazionalismo, infezione che comunque
torna continuamente, aveva permesso a una serie di istituzioni democratiche di
interpretare il senso comune e a portare avanti istanze in questo senso. Nulla
di rivoluzionario, ma le attuali battaglie per l’acqua bene comune o simili,
penso al movimento messo in moto da Rodotà, sia di fatto figlio di quei
genitori. Cioè sia potuto nascere e andare avanti perché esisteva un quadro
superiore di riferimento, lo Stato nazione con le sue regole e doveri, che lo
hanno permesso.
Noi adesso dobbiamo invece coinvivere con qualcosa di molto
peggio, dove il dominante economico sarà sempre meno intralciato dalle
istituzioni nazionali e, da quanto sembra, anche supra-nazionali, proprio mentre
il cittadino lambda comincia a risvegliarsi e a rendersi conto del bisogno di
lottare per quel poco di comune che ancora ci resta. Forse non è troppo tardi,
ma mi sembra che bisogna cominciare a darsi una mossa in termini di riflessione
e di azione.
Iscriviti a:
Post (Atom)