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domenica 23 gennaio 2022

2022 L6: Amin Maalouf - Le naufrage des civilisations

 


Grasset, 2019

Il faut prêter attention aux analyses d’Amin Maalouf : ses intuitions se révèlent des prédictions, tant il semble avoir la prescience des grands sujets avant qu’ils n’affleurent à la conscience universelle. 

Il s’inquiétait il y a vingt ans de la montée des Identités meurtrières ; il y a dix ans du Dérèglement du monde. Il est aujourd’hui convaincu que nous arrivons au seuil d’un naufrage global, qui affecte toutes les aires de civilisation.
L’Amérique, bien qu’elle demeure l’unique superpuissance, est en train de perdre toute crédibilité morale. L’Europe, qui offrait à ses peuples comme au reste de l’humanité le projet le plus ambitieux et le plus réconfortant de notre époque, est en train de se disloquer. Le monde arabo-musulman est enfoncé dans une crise profonde qui plonge ses populations dans le désespoir, et qui a des répercussions calamiteuses sur l’ensemble de la planète. 
De grandes nations « émergentes » ou « renaissantes », telles la Chine, l’Inde ou la Russie, font irruption sur la scène mondiale dans une atmosphère délétère où règne le chacun-pour-soi et la loi du plus fort. Une nouvelle course aux armements paraît inéluctable. Sans compter les graves menaces (climat, environnement, santé) qui pèsent sur la planète et auxquelles on ne pourrait faire face que par une solidarité globale qui nous fait précisément défaut.
Depuis plus d’un demi-siècle, l’auteur observe le monde, et le parcourt. Il était à Saigon à la fin de la guerre du Vietnam, à Téhéran lors de l’avènement de la République islamique. 
Dans ce livre puissant et ample, il fait œuvre à la fois de spectateur engagé et de penseur, mêlant récits et réflexions, racontant parfois des événements majeurs dont il s’est trouvé être l’un des rares témoins oculaires, puis s’élevant en historien au-dessus de sa propre expérience afin de nous expliquer par quelles dérives successives l’humanité est passée pour se retrouver ainsi au seuil du naufrage.

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Uno di quei libri da leggere, soprattutto di questi tempi. Candidato alla Top

sabato 22 gennaio 2022

30 giorni all’alba della possibile guerra sul fronte Ucraino


 

Fra metà febbraio e metà marzo si apre la finestra di opportunità per l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin. L’inerzia delle sue mosse è tale che sembra difficile possa tornare indietro senza perdere la faccia, cosa per lui impossibile da accettare. Il dispiegamento di forze, non solo al confine russo-ucraino ma anche a quello con la Bielorussia, è tale per cui basta un colpo di vento e tutto comincerà, senza più possibilità di tornare indietro.

 

Putin userà anche la carta dei serbi di Bosnia per cercare di creare ulteriori disturbi in Europa, senza apparire direttamente, poi spingerà per fare in modo che Orban si metta contro a qualsiasi tentativo dell’unione europea di rispondere adeguatamente e, probabilmente, lo stesso faranno i cinesi con le loro pressioni nei confronti di paesi deboli da loro sostenuti economicamente (eufemismo per dire che sono prigionieri del debito contratti con loro) come la Grecia. L’interesse cinese essendo quello di far casino in modo da indebolire ancor di più l’Europa, senza mostrarsi direttamente.

 

Guerra possibile, e guerra che avrebbe, ovviamente, delle conseguenze disastrose per noi europei. A parte gli ucraini, quelli che pagherebbero di più saranno i cittadini russi, il cui livello di vita, degno del terzo mondo, scenderà ancora di più, dato il peso delle spese militari e le restrizioni totali che verranno imposte al paese e ai suoi gerarchi. L’unica arma di ricatto in mano a Putin sarà quella del gas, ma i tedeschi hanno già fatto capire che il NorthStream 2 verrebbe fermato prima ancora di cominciare. Noi (europei) resteremmo un po’ a secco e dovremmo andare a cercare energia altrove, ma i russi resterebbero senza l’unica fonte di soldi veri. Restrizioni in aumento e senza soldi, ai russi non resterebbe che la sottomissione … ai cinesi che potrebbero piazzarsi anche lì con il gioco delle tre carte che gli riesce così bene con la storia delle vie della seta. Questo perché, per chi non lo sapesse, le cittadine sul confine della Siberia con la Cina si stanno popolando (sul versante russo) in maniera crescente da commercianti cinesi che stanno prendendo in mano tutte le principali attività. Arriverà quindi il momento che la Cina userà la stessa scusa usata da Putin in Crimea (difendere i russi che lì vivevano), per prendersi quella parte del territorio siberiano che più servirà.

 

E’ probabile che l’occidente non manderebbe truppe in Ucraina (dato che non abbiamo una politica estera comune e ognuno fa per sé), preferendo uno strangolamento via sanzioni, contando sul giochetto cinese che, alla lunga, piegherà le velleità russe. Non sarà una guerra breve, forse la parte militare (l’invasione pura e semplice) lo sarà, si parla di tre settimane per controllare il paese, ma poi inizierà una guerriglia interna, con possibili svolti di atti di terrorismo che l’occidente finanzierebbe non solo in zona ma anche a Mosca, con una catena di ritorsioni che durerà a lungo. Noi europei pagheremo ovviamente di più degli americani: a parte la riduzione delle disponibilità energetiche, salterà il disegno dell’Unione Europea, ognuno penserà agli affari suoi e andremo tutti in malora. Le ripercussioni saranno anche devastanti all’interno di ogni paese, tra quelle forze che reclameranno una reazione forte, magari fortissima, contro i russi, e chi cercherà di spiegare che anche Putin c’ha le sue ragioni e, infine, uno sparuto gruppetto centrista che non saprà da che parte girarsi. 

 

In Francia predico che Macron sarà confortato come capo superiore dell’esercito e vincerà facilmente le elezioni, mentre da noi, qualsiasi sia l’accordo per il capo dello stato e il capo del governo, salterà tutto per aria, perché Salvini, legato ai russi (come la Le Pen in Francia) tiferà a favore dei russi, quindi contro la Nato e gli alleati occidentali, per cui uscirà dal governo. La Meloni, per ovvie ragioni anagrafiche del suo elettorato storico, sarà il ferro di lancia di un intervento militare contro Putin, e quindi finirà qualsiasi alleanza con Salvini. 

 

Il Papa proverà a mettersi in mezzo, ma non porterà a casa nulla, stante la debole credibilità minata da scandali di pedofilia a ripetizione, senza che si veda una capacità di risposta interna. Con il nuovo fronte (aggiuntivo) in Bosnia, che potrebbe esplodere anche quello nelle prossime settimane, la situazione sarà ancor di più fuori controllo. 

 

Difficile immaginare uno scenario peggiore, a parte che a qualcun sfugga il controllo sui bottoni di lancio nucleare, ma almeno quello penso sarà evitato. 

 

A livello globale, ovviamente si metteranno nel cassetto tutti gli impegni contro il cambio climatico, avremo una crisi economico-finanziaria maggiore, dato che l’Euro pagherà il prezzo maggiore (nell’occidente), non essendo supportato da una base politica. Si rafforzerà il dollaro, e alla fine della storia in finale arriveranno americani e cinesi, con questi ultimi in posizione di forza. Putin uscirà dalla storia, ma anche noi europei faremo la stessa fine, piccoli vassalli in un medioevo dominato da due soli principi, in vista dello scontro finale.

 

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Stamattina mi son svegliato e mi son detto: speriamo sia stato solo l’incubo di una cena maldigerita…

martedì 18 gennaio 2022

2022 L5: Clara Dupont-Monot - S'adapter

 


Stock, 2021

C’est l’histoire d’un enfant aux yeux noirs qui flottent, et s’échappent dans le vague, un enfant toujours allongé, aux joues douces et rebondies, aux jambes translucides et veinées de bleu, au filet de voix haut, aux pieds recourbés et au palais creux, un bébé éternel, un enfant inadapté qui trace une frontière invisible entre sa famille et les autres. C’est l’histoire de sa place dans la maison cévenole où il naît, au milieu de la nature puissante et des montagnes protectrices ; de sa place dans la fratrie et dans les enfances bouleversées. Celle de l’aîné qui fusionne avec l’enfant, qui, joue contre joue, attentionné et presque siamois, s’y attache, s’y abandonne et s’y perd. Celle de la cadette, en qui s’implante le dégoût et la colère, le rejet de l’enfant qui aspire la joie de ses parents et l’énergie de l’aîné. Celle du petit dernier qui vit dans l’ombre des fantômes familiaux tout en portant la renaissance d’un présent hors de la mémoire.

Comme dans un conte, les pierres de la cour témoignent. Comme dans les contes, la force vient des enfants, de l’amour fou de l’aîné qui protège, de la cadette révoltée qui rejettera le chagrin pour sauver la famille à la dérive. Du dernier qui saura réconcilier les histoires.
La naissance d'un enfant handicapé racontée par sa fratrie.

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Un libro delicato, da leggere pian piano, perché ti va dentro nel profondo.

lunedì 17 gennaio 2022

gender equity and land rights (introductory note by Zoraida Garcia Frias)

https://www.fao.org/3/a0297e/a0297e00.htm#Contents

Time to recall this interesting note by my old friend and colleague Zoraida.

Humankind has been witness to and a partaker of the multiple changes that agriculture has gone through over centuries. Since the early days of this ancient practice, farming has been the backbone of the economic development of many societies and the main source for the preservation and evolution of life. Agriculture, in prehistoric and earliest agrarian civilizations, was not only a main source of food and raw materials, but it also represented a source of expression of the innate order of nature. Social scientists, anthropologists, and especially feminist researchers interested in women's social role in ancient societies, have found numerous traces of evidence demonstrating how earliest civilizations in different part of the world have associated farming with their broad cultural and social settings.

From the outset, the development of agriculture has been strongly associated with women's endeavour. In fact, women's contribution to agriculture goes back to the origins of farming and the domestication of animals when the first human settlements were established more than 6 000 years ago. The domestication of plant and animal species occurred partially in response to the need for families to ensure adequate access to sources of food during the process of settlement.[2] As a consequence, the allocation and management of human and physical resources at both family and community levels were geared by the goals of adequate food supply and food security as a means for survival.

Over the years, the division of responsibilities and labour within households and communities tended to place farming and nutrition-related tasks under women's domain, since those activities were closely related to social and human reproduction goals, whereas men tended to become progressively involved in activities that required temporary migration such as hunting and fishing or other activities related to public and community organization and off-farm responsibilities. Nowadays, in many societies women continue to be mainly responsible for family food security and nutrition. Nevertheless, the institutional framework and policy environment have not necessarily evolved to respond to the goals of human and social reproduction; on the contrary, they have been subordinated to financial and profit-making goals.

During the course of social and technological evolution and the expansion of the market economy, agricultural developments began to be stimulated by profit-making goals. As the focus of agriculture moved away from the goals of human/social reproduction, so the rationale for the allocation and use of land and other associated resources, including knowledge and labour, also switched towards a more pecuniary focus. This transformation brought about a new social order that affected all aspects of living and thinking,[3] giving rise to a different way of structuring human relations and leading to a system of hierarchies and control over resources.

Gender, together with other social and economic factors, determines the individual's and group's access to and control over resources. Cultural norms and social practices, as well as socio-economic factors, are among the main obstacles women face in this regard. In practice, although most national legal codes have explicitly incorporated legal provisions acknowledging gender equality in relation to access and ownership of land and other productive resources, it has been noted that women's rights to own resources on equal conditions to those of men are repeatedly disregarded or overlooked.

Moreover, the lack of access to land and its security of tenure constitutes one of the most serious obstacles to increasing agricultural production and farm income. The set of rights held by an individual or group enables the holder/s to make management decisions on how land-based resources will be used for immediate household needs and long-term sustainable investment. If women's role as food producers and natural resource managers is to be enhanced, they need access to land, management control of landed-based resources, and economic incentives that security of tenure provides.

Especially in agriculture-based economies, where a large part of the population depends on farming-related activities, land is not only a fundamental asset and a main source of food production and food security, but for many rural communities worldwide it also constitutes a secure place to live and a base for social and cultural identity and belonging.

Women's bargaining position in rural societies is largely influenced by their role in agriculture and food security. The contribution of women to food and agricultural production in agriculture-based economies is significant, given the high number of women employed as agricultural workers for agroprocessing industries and as food producers. "In sub-Saharan Africa and the Caribbean 80 percent of basic food is produced by women, while in Asia women's contribution also accounts for around 60 percent. In Latin America and the Caribbean the number of women working in agriculture has increased from 15.1 percent in 1990 to 20 percent in 1999, in both subsistence and commercial farming."[4]

Despite the continuous changes in agriculture over the past three decades and the subsequent diversification of rural income sources for most households, land tenure continues to be a central issue in terms of the standard of living of rural populations, especially in non-industrial economies. "FAO estimates that farming remains the only source of income for an estimated 70 percent of the world s rural poor",[5] and agriculture continues to be an important component of the economy of many developing countries as it significantly contributes to domestic production and employment. In some countries, agriculture generates three-quarters of household income in rural areas, most of which comes from subsistence farming, in which women play a major role.

A number of countries over the past five decades have implemented land reform programmes, but no significant changes were introduced to the existing land tenure structure, and thus the social and power relations have remained very much the same in rural areas. Women's rights to land tended to be left aside by many of the institutional arrangements put in place for land tenure in most countries, and the implications of how men and women are affected differently by the diverse land tenure arrangements continue to be overlooked in most of the emerging institutional reforms in the agriculture sector. As a consequence, no substantial progress has been achieved with regard to women's position in relation to land access and control. As will be discussed in the various studies, land continues to be highly concentrated in very few hands - and particularly in men's hands.

Most initiatives to enhance women's land rights within the past three decades have mainly focused on legal reforms. The right-based approach to development adopted by different international fora for the advancement of women pays special attention to the importance of women's rights to own land and other property. For instance, the Beijing Platform for Action[6] itself indicates that governments should "undertake legislative and administrative reforms to give women full and equal access to economic resources, including the rights to inheritance and to ownership of land and other property, credit, natural resources and appropriate technologies". As a result, legal reforms undertaken in this regard have increasingly strengthened the recognition of women's equal rights through independent entitlements to natural resources; however, these reforms still need to be bound to more complex institutional and cultural issues that prevent the enforcement of those legal dispositions in many countries.

Countries such as Brazil, Honduras, Nicaragua, South Africa and Zimbabwe, among many others, have introduced within the past two decades new legal regulations that acknowledge women as landholders and beneficiaries of land distribution programmes; however, the concrete impact of those programmes on women's control over land and agricultural produce is not yet clear. The lack of empirical information and quantitative data on how men and women have been affected by different land tenure programmes remains a constraint.

Another feature of most land reform programmes implemented over the past two decades is the emphasis given to land registration and titling, with very little attention being paid to the demand for land redistribution. Land titles and land regularization, in general, have been seen as a preamble to the development of land markets for agriculture. Although no specific data are available, it seems that land market operations in several countries have also tended to favour land concentration. Many small farmers (both men and women) have tended to sell or have been deprived of their land; in such cases it is generally women who tend to lose out, since most rural women did not hold title of the family land and could not therefore benefit from the sale of the family plots, or were left out of the titling process because they lacked documentation proving their ownership of the land they possessed.

Moreover, the introduction of new institutional arrangements for land has not guaranteed a better position for women in relation to land ownership, although legal regulations have been introduced that acknowledge their rights to own, lease or sell land properties. Existing historical disparities among different groups have not been sufficiently addressed within the new land market institutions, and those who were traditionally economically deprived had few opportunities to obtain land through market transactions, since no provisions were granted.

On the other hand, in countries with strong traditional community tenure systems, it is crucial that women's social security and bargaining power within the traditional institutions be preserved while introducing new institutional arrangements for land tenure. As various recent studies[7] have demonstrated, women's control over land influences their bargaining power,[8] at both the household and community levels, as it is women who own land who tend to play a more central role in decision-making.

The new National Land Policy (NLP) in the United Republic of Tanzania exemplifies a typical ambivalence concerning women's rights in newly introduced land tenure reforms. While the NLP acknowledges the rights of women to acquire land in their own right through both purchasing and allocation, the inheritance of clan or family land will continue to be governed by custom and tradition. Also, provisions to enforce the law can maintain gender bias, for example the one relating to institutions set up to adjudicate land disputes. Again, in the United Republic of Tanzania, "the dispute settlement mechanism, known as Mbaraza Ya Wazee Ya Ardhi, is structured so that councils of village elders have primary jurisdiction in all land matters, including settling disputes over individualization of tenure. They determine their own procedures, subject to the obligation to follow the principles of natural justice; they are not bound by any civil or criminal procedure codes or the law of evidence."[9]

In Uganda also, women hold rights to the property attached to their houses, and legal recourses exist to protect those rights. On this basis, once property had been assigned to a wife, it cannot be transferred to another beneficiary. In addition, customary laws acknowledge a widow s inheritance rights regarding the ownership of matrimonial homes and land. However, women's rights in these respects began to be eroded by various forms of land transfer, including the emergence of a market in land, and by increased land scarcity resulting from polygamy, which is widely practiced. By the late 1960s, newly constituted magistrates courts were supporting the subdivision of women's plots of land to enable it to be shared among co-wives. This practice led to women's traditional rights under customary law being undermined, and men's decisions as heads of household determining women's property rights.

As in many other countries, changes in statutory laws have not guaranteed Ugandan women's rights over land. When conflicts exist between statutory regulations and customary laws, courts tend to refer to customary law in matters pertaining to women. For example, the Marriage Act of 1964 recognized only monogamous marriages, but in practice the courts usually ignore these provisions when conflicts arise regarding family land distribution.

Worldwide, as agriculture gradually becomes more focused on commercial and profitmaking goals, and given the historical high level of dependency of agricultural production patterns in developing countries on markets in developed economies, the growing process of market liberalization for agriculture is likely to favour land reallocation towards cash crops and exports to the detriment of foodstuffs. This increased commercialization of agriculture also tends to expel women from the land held by the family and place at risk their possibilities of obtaining access to land within the new institutional arrangements for agriculture.[10] Challenged by global market operations, the role of women as food producers and processors in many rural areas is also gradually diminishing, as small farmers increasingly need to compete with other large food producers from abroad; as in developed countries, they will be forced to migrate to urban areas, but in this case they face a highly flexible and deteriorated labour market in nonfarm sectors.

Land in most tenure systems is still very male dominated and it continues to be also highly concentrated in most countries, regardless of the economic system in place. Worldwide information on landownership and tenure is very limited. The incomplete cadastral information available and empirical evidence on land ownership reveal that the number of women registered as agricultural landowners in most countries is extremely low, in both developed and developing countries. In countries such as Denmark, Germany, the Netherlands and Spain, where agriculture is mainly based on capital-intensive technology with a high degree of mechanization, one would have expected that the modernization of agriculture would have been accompanied by improvements in land distribution and a significant increase in the number of women landholders; however, according to Eurostat data,[11] most land in the farming sector is owned by men, with less than 20 percent of agricultural land being held by women in most European countries. Likewise, agricultural land in countries such as Lesotho, Uganda, Zambia, Dominica and Brazil present a similar tenure structure, with women landholders ranging from 16 percent to 26 percent of the total number of holders (natural persons), during the 1990s[12]. In practice, the advancement of women's position in the various economic sectors other than agriculture, and their increased representation in social and political positions, has done little to modify women's position in agricultural land ownership and management in developed economies. This phenomenon poses questions regarding the institutional and economic environment in which agricultural production continues to be developed without recognizing and addressing the power relations and customary practices that tend to exclude small farmers and women in particular.

Traditional land concentration patterns and the social/gender disparities associated with them seem to be aggravated by the current process of economy globalization. Land policy and the institutional arrangements that have been set up over the last 20 years for land tenure reform in most countries have mainly focused on the expansion, formalization and regularization of land market transactions; nevertheless, in many cases market forces have tended to swap the achievements of the few attempts for land redistribution and land reform programs from the 1960s and 1970s. The current economic trends toward market liberalization may once more jeopardize the rights of small farmers and specially women to own the land they may require for agriculture and the sustainable livelihood of their family.

Ongoing discussions on the gender implications of the different land tenure arrangements tap on many structural factors. Traditional social inequities and strong asymmetric power relations existing in most countries, together with a system of beliefs and social practices that discriminate against non-economic profitable activities permeate the current debate on gender equity on rights to land. The purpose of this volume is to contribute to this debate, bringing together various papers, prepared with the contribution of different authors.

The present compendium is organized as follows: five articles, including a summary chapter, on different country experiences in relation to land rights and their gender equity considerations. The first two articles present a glance at customary institutions in South-Saharan Africa, Senegal and Burkina Faso, which, as one of the authors points out, represent a daunting challenge to augmenting effectively social recognition of women's land rights. The study on Brazil pays special attention to the evolution of legal regulations that historically prevented women from having equal access to land. Nicaragua's case study brings to the discussion the nature of the different state interventions to promote gender equal rights under the agrarian reform programmes from the 1990s and raises concerns on the effectiveness of joint titling mechanisms implemented during the last decade or longer. A more global discussion is presented in the last article, where the author has a closer and comparative look at the multiple lessons learned from various relevant country interventions over the last 20 years, building up some conclusions arising from the previous country studies. As a major conclusion, the different studies assert that despite the efforts made in most countries to promote women's equal rights to land, as part of the development agenda, many institutional, social, cultural and above all economic obstacles persist that prevent rural families, and women in particular, from having adequate access to and secure tenure of land.

[2] Jurgen Kuczynski. 1979. Breve historia de la economía. Bogotá, Ediciones Alcaraván.
[3] Riane Eisler. 1988. The chalice and the blade: Our history, our future, Chapter 8, The other half of history: Part I. San Francisco: Harper & Row.
[4] UNCTAD. 2004. Trade and gender: opportunities and challenges for developing countries, Chapter 3, Agriculture, trade and gender (contributed by FAO). New York, USA and Geneva, Switzerland, United Nations.
[5] Ibid
[6] Beijing Platform for Action, Art. 61 (b), 1995.
[7] Shahra Razavi. 2003. Agrarian change, gender and land rights. Oxford, UK, UNRISD and Blackwell Publishers; Carmen D. Deere and Magdalena León. 2001. Empowering women. Pittsburgh, USA, University of Pittsburgh Press.
[8] J.F. Platteau - Traditional marriage practices in Subsaharan Africa: Senegal and Burkina Faso.
[9] Zenebewoke Tadesse - Revisiting customary institutions and gender relations: a daunting challenge.
[10] Op. cit., see note 3.
[11] Eurostat, 1997.
[12] FAO, Waicent, agricultural census data period 1990 - 95.

Colombia: década de los 80-90; como los lideres campesinos veían el surgir de un pensamiento feminista en sus organizaciones


 

María Fernanda Sañudo Pazos. 2015. Representaciones de género y acceso a la propiedad de la tierra en Colombia – Tesis Doctoral, Universidad Complutense de Madrid 

 

[…] Al respecto Villarreal (2004) reconoce cómo los líderes de las organizaciones, quienes en su mayoría eran hombres, argumentaban de mil maneras las razones porque las mujeres no debían tener una organización propia. Los argumentos transitaban entre lo político, lo social y lo cultural.

 

En cuanto al primero se decía que la lucha particular de las mujeres difuminaría la lucha del campesinado como clase. Bajo esta razón se consideraba que las necesidades de tierra de ellas, era una cuestión que debía supeditarse a las necesidades generales de este sector. 

 

En cuanto a lo social, se argumentaba que los procesos organizativos particulares conllevarían a la crisis de las familias y de los valores tradicionales, pues ellas al contar con mayor poder, ya no se ocuparían de las familias y de sus maridos. 

 

En relación al cultural, se argüía que las mujeres, por razones biológicas estaban hechas para cuidar de las familias, para no tomar decisiones y para estar en los hogares, considerándose que este era el lugar que les correspondía. Lo anterior es corroborado por los siguientes testimonios de algunas de las entrevistadas: 

 

“Las mujeres a la cocina, nos decían los hombres de la ANUC, en la reunión del Guamo. Ellos no creían que nosotras podíamos tener la capacidad de liderar cambios. Pensaban también que si se nos daba tierra, pues nosotras íbamos a dejarlos y los hogares iban a entrar en crisis. Además que si estábamos en la política íbamos a descuidar nuestros hogares y de más. Fue complicado todo este asunto”. (Entrevista a lideresa ANMUCIC. Bogotá, noviembre 2013). 

 

“Yo veía en la reunión del Guamo, el boicoteo del que fueron sujeto las mujeres. Pero no solo era por parte de los hombres, era de las mismas mujeres de las organizaciones mixtas, que hablaban desde la perspectiva familiar. Me acuerdo tanto que les decían que si se iban a ser feministas que mejor se buscaran otro lugar donde vivir, porque ellos no querían vivir con ese tipo de mujeres. Les daban muy duro, la sanción social era muy fuerte. Pero ellas fueron muy fuertes y siguieron aun cuando esto a algunas les costó su matrimonio”. (Entrevista ex funcionaria IICA. Bogotá, noviembre de 2013). 

 

De acuerdo con lo dicho es de entrever que los dirigentes y miembros de las organizaciones campesinas no quisieron, en este momento específico, legitimar los procesos organizativos de las campesinas, no solo porque encarnaban percepciones sobre ellas, basadas en ideologías de género, sino también porque consideraban que dicho proceso podía ser una afrenta contra sus intereses como dirigentes y también como género. 

 

La creación de una organización de mujeres rurales (ANMUCIC), causó gran recelo al 

interior del movimiento campesino. Al respecto Villarreal (2004, p. 253) refiere: 

El intento de una organización autónoma fue controvertido desde su iniciación y paralizada por la crítica del resto de organizaciones campesinas, masculinas en su dirección pero mixtas en su composición, con el argumento, secundado por los funcionarios del gobierno, que debilitaría al movimiento campesino y provocaría rupturas familiares. 

 

Tras procesos de reflexión conjunta entre las líderes y las bases, se tomó conciencia que no todas las mujeres, enfrentaban las mismas problemáticas. De acuerdo con lo anterior, no solo por su pertenencia a una minoría étnica o a una región concreta, tenían discrepancias frente a los intereses que perseguían, sino también por el tipo de posición que tenían en la estructura de la tenencia de la tierra. 

 

Algunas con un acceso marginal o nulo y otras propietarias por herencia o porque habían logrado adquirir por su cuenta algunas parcelas, entraban en pugna por el tipo de reivindicaciones que debían sostener. Este aspecto debió ser sorteado sí se quería avanzar en el posicionamiento de sus demandas como mujeres en la agenda política. Este aspecto es referido por una de las entrevistadas: 

 

“Difícil, difícil, nos pasó lo mismo que en la ANUC línea Sincelejo. A la organización entraban mujeres de muchas zonas del país y como tú sabes el país es bien complejo y no es lo mismo una mujer campesina de Nariño que una de Tumaco, estando en el mismo departamento. Una era agricultora y la otra pescadora. Más encima estaba que en unas zonas el machismo era de una manera y en otras de otra. Y, con la tierra peor, pa las campesinas era una cosa la tierra, una necesidad, para las indígenas también pero estas hablaban desde lo colectivo. Comenzar a construir desde esto tan diverso, no fue fácil. Súmale que los hombres no nos veían con credibilidad. Así fueron los primeros años de la ANMUCIC”. (Entrevista a lideresa ANMUCIC. Bogotá, octubre 2013). 

Pero sí bien las mujeres de la organización contaban con el apoyo estatal para avanzar en su fortalecimiento, este proceso se veía obstaculizado por la reacción de sus pares varones, líderes de las organizaciones mixtas. En concreto a nivel de la ANUC se establecía que particularizar el acceso a la tierra por el género y lo étnico, diluía la lucha del campesinado como una lucha de clase. 

 

domenica 16 gennaio 2022

Ongoing reflections ...


Negotiated approach to territorial "development": the major challenge: freeing ourselves from the conditioning factors implicit in the ontology of modernity with which we are imbued.


Those who know me or know the work that, together with several other people, I am doing in relation to the territorial approach, know that one of the difficult challenges is the idea of convincing the "experts" to move from a top-down view of the actors based on the principle that, because they have studied at prestigious universities, they know more than farmers, fishing communities, indigenous people or whatever, to one where instead of dictating solutions we try to facilitate dialogue between the different actors so that negotiation can take place, all with the aim of finding (if possible) common ground, what we call a pact. This is a very complicated paradigm shift, because it means giving priority to listening, humility and availability, which is the opposite of what is taught in the big schools where development agency technicians are trained (including myself).


In addition to this difficulty, there are many others, such as getting the most powerful actors to agree to enter into a process of dialogue/negotiation in which the aim is to reduce these power asymmetries in favor of the weakest. Other complex issues, which we try to introduce in this type of approach, have to do with the need to address issues of asymmetrical power not only between categories of actors, but also within the basic unit itself: the family, in order to address the gender issue in a non-superficial way.

In addition to all this, there is also a problem of another kind, more philosophical if you will, which we have never seriously discussed until now: our mental imprisonment with respect to a philosophical model of development in which we have been bathing since birth.


The starting point is the need to recognize that we, as professionals in the world of "development cooperation" (whether in UN agencies, NGOs, bilateral bodies and/or financial institutions), are historical products of what we can call an ontology of modernity. To better understand what I want to talk about, it is necessary to take a small step back, for which I have to thank a friend and colleague at the University of Grenoble, Kirsten.


The story begins in ancient Greece, when the principle of the eternal beginning dominated. As Kirsten writes, "the work of Aristotle, among others, reveals that ideas about the evolution of societies and their changes were intrinsically linked to the observation of the principles of nature and life cycles: generation, growth, decline. Thus, the term physis (nature) derives from the verb phuo (to generate, grow, develop) and was used to refer to both nature and development by some Greek philosophers. The notion of "nature" thus functions as a metaphor and refers to a cyclical conception of social/social change in Aristotle. In his work Metaphysics, he sees it as the essence of things that have a principle of motion in them, as "that which is born, grows and matures even in the end declines and dies, in a perpetual restart." 


From the end of the 17th century, the idea of a linear evolution of humanity and the ideology of progress became widely accepted. The idea of development was no longer linked to the awareness of a limit to conform to the laws of nature, but made it possible to conceive of progress in the sense of continuous growth and improvement for the good of humanity. 


These new values (emancipation, individual freedom and rationality) constitute the basis of a new economic system. They support and legitimize market capitalism and then accompany productivist economics and the beginnings of industrialization.  Development thus becomes growth, and the conception of social dynamics becomes synonymous with "progressive, inevitable, sequential and permanent": in short, this is the ontology of modernity: science, technology, faith in progress expressed in economic growth and the conviction of the superiority of modern ontology over all other ways of living and thinking in the world!


With the end of World War II and a worldview beginning to dominate the global agenda, the United States and its president, Truman, unequivocally clarified the conceptual basis of this vision, which saw, of course, the United States as the self-appointed ambassador of this vision. At this postwar moment, this vision allowed various Western interests to converge, giving them a new direction and a new role in the massive decolonization of the South that was then taking place. 


Thus, the discourse of this powerful man quickly took on the character of a vast "political project". The United Nations became involved, through the new cooperation agencies that were created: UNDP and FAO. We FAO workers are children of this long history and, whether we like it or not, we are imbued with it.


Not even the criticisms of this worldview carried out by the Marxist school, Gunter Frank's dependency theory and Samir Amin's theory of unequal development, which showed that it was the societal transformations induced by the North that created underdevelopment in the South, and not the persistence of "tradition", well, even these critical currents were still children of the same modern ontology: they did not criticize the objective of reaching the "developed" countries, nor did they criticize the approach centered on the economy. Therefore, the problem was not the objectives, but the means to achieve them.


Only with the relatively recent emergence of spontaneous and resistance movements in the South have we begun to ask ourselves whether "another world is possible". The answer is: yes! Other worlds are possible and exist, as well as other truths than those that have permeated us since our earliest days. 


Remembering that "truth is a social construct", and that therefore a dominant model that has permeated us for so long has had a way of instilling in us the demon that its truth of a modernizing model is the only possible one, we must make a great personal effort to begin to free ourselves from these chains.


The critical point of this long journey arises at the moment of contrasting a method based on dialogue, negotiation and agreement with another based on the domination of the strongest, which dominates and defines the very objectives and concepts of "development".


We know what we are fighting against, against that modernity in which the triad of (Western) science, technology and progress are the pillars of the holy grail of economic growth. But this is not enough. When we aim to be facilitators of negotiated territorial development processes, whether in conflict zones or not, we must ask ourselves what ontologically different visions are at stake among the actors. And to this question, which inevitably leads to an answer that will be plural, we will have to follow the trail to understand what we want to emerge from this type of processes and what philosophical horizon we place around them: the one dictated by donors or international financial organizations, which inevitably reflect that ontology of modernity that is beginning to creak, or do we want to become builders of a new ontology of post-development and post-modernity? And the new questions come like cherries, one spilling over the other: do we, who have chosen the role of facilitators of processes of this type, have the "reason" to take sides against or in favor of a modernity, which we feel is no longer sufficient to represent us, or of a postmodernity to be invented? What are we fighting for, for "development" or for a transformation of society?

 

Reflexiones en curso ...


Enfoque negociado del "desarrollo" territorial: el mayor reto: liberarse de los condicionamientos implícitos en la ontología de la modernidad de la que estamos imbuidos


Quienes me conocen o conocen el trabajo que, junto con varias otras personas, estoy realizando en relación con el enfoque territorial, saben que uno de los retos difíciles es la idea de convencer a los “expertos” de pasar de una visión top-down de los actores basada en el principio de que, por haber estudiado en universidades de prestigio, saben más que los agricultores, las comunidades pesqueras, los indígenas o lo que sea, a uno en el que en lugar de dictar soluciones se intenta facilitar el diálogo entre los distintos actores para que se produzca una negociación, todo ello con el fin de encontrar (si posible) un terreno común, lo que llamamos un pacto. Se trata de un cambio de paradigma muy complicado, porque significa dar prioridad a la escucha, la humildad y la disponibilidad, que es lo contrario de lo que se enseña en las grandes escuelas donde se forman (incluyéndome a mi) los técnicos de las agencias de desarrollo.


A esta dificultad se suman muchas otras, como la de conseguir que los actores más poderosos acepten entrar en un proceso de diálogo/negociación en el que se quiere reducir estas asimetrías de poder a favor de los más débiles. Otras cuestiones complejas, que intentamos introducir en este tipo de enfoque, tienen que ver con la necesidad de abordar las cuestiones de poder asimétrico no sólo entre categorías de actores, sino también dentro de la propia unidad básica: la familia, a fin de abordar la cuestión del género de forma no superficial.


Además de todo esto, existe también un problema de otro tipo, más filosófico si se quiere, que nunca hemos discutido seriamente hasta ahora: nuestro aprisionamiento mental con respecto a un modelo filosófico de desarrollo en el que nos hemos estado bañando desde que nacimos.


El punto de partida es la necesidad de reconocer que nosotros, como profesionales del mundo de la "cooperación al desarrollo" (ya sea en las agencias de la ONU, las ONG, los organismos bilaterales y/o las instituciones financieras), somos productos históricos de lo que podemos llamar una ontología de la modernidad. Para entender mejor de qué quiero hablar, es necesario dar un pequeño paso atrás, por lo que tengo que dar las gracias a una amiga y colega de la Universidad de Grenoble, Kirsten.

La historia comienza en la antigua Grecia, cuando dominaba el principio del eterno comienzo. Como escribe Kirsten, "la obra de Aristóteles, entre otras, revela que las ideas sobre la evolución de las sociedades y sus cambios estaban intrínsecamente ligadas a la observación de los principios de la naturaleza y los ciclos vitales: generación, crecimiento, declive. Así, el término physis (naturaleza) deriva del verbo phuo (generar, crecer, desarrollar) y fue utilizado para referirse tanto a la naturaleza como al desarrollo por algunos filósofos griegos. La noción de "naturaleza" funciona, pues, como una metáfora y remite a una concepción cíclica del cambio social/social en Aristóteles. En su obra Metafísica, la ve como la esencia de las cosas que tienen un principio de movimiento en ellas, como "lo que nace, crece y madura incluso al final declina y muere, en un perpetuo reinicio". 


A partir de finales del siglo XVII, la idea de una evolución lineal de la humanidad y la ideología del progreso se imponen ampliamente. La idea de desarrollo ya no estaba ligada a la conciencia de un límite para ajustarse a las leyes de la naturaleza, sino que permitía concebir el progreso en el sentido de un crecimiento y una mejora continuos para el bien de la humanidad. 


Estos nuevos valores (emancipación, libertad individual y racionalidad) constituyen la base de un nuevo sistema económico. Apoyan y legitiman el capitalismo de mercado y luego acompañan a la economía productivista y a los inicios de la industrialización.  El desarrollo se convierte así en crecimiento, y la concepción de la dinámica social se convierte en sinónimo de "progresiva, inevitable, secuencial y permanente": en resumen, ésta es la ontología de la modernidad. 

 

La ciencia, la tecnología, la fe en el progreso expresada en el crecimiento económico y la convicción de la superioridad de la ontología moderna sobre todas las demás formas de vivir y pensar en el mundo.


Con el final de la Segunda Guerra Mundial y una visión del mundo que empezaba a dominar la agenda mundial, Estados Unidos y su presidente, Truman, aclararon inequívocamente la base conceptual de esta visión, que veía, por supuesto, a Estados Unidos como el embajador autoproclamado de esta visión. En este momento de la posguerra, esta visión permitió que confluyeran diversos intereses occidentales, dándoles una nueva dirección y un nuevo papel en la descolonización masiva del Sur que se estaba produciendo entonces. 


Así, el discurso de este poderoso hombre adquirió rápidamente el carácter de un vasto "proyecto político". Las Naciones Unidas se hicieron partícipes, a través de las nuevas agencias de cooperación que se crearon: el PNUD y la FAO. Los trabajadores de la FAO somos hijos de esta larga historia y, queramos o no, estamos impregnados de ella.


Ni siquiera las críticas a esta cosmovisión llevadas a cabo por la escuela marxista, la teoría de la dependencia de Gunter Frank y la teoría del desarrollo desigual de Samir Amin, que mostraban que eran las transformaciones societarias inducidas por el Norte las que creaban el subdesarrollo en el Sur, y no la persistencia de la "tradición", pues bien, incluso estas corrientes críticas seguían siendo hijas de la misma ontología moderna: no criticaban el objetivo de alcanzar a los países "desarrollados", ni criticaban el enfoque centrado en la economía. Por tanto, el problema no eran los objetivos, sino los medios para alcanzarlos.


Sólo con la aparición relativamente reciente de movimientos espontáneos y de resistencia en el Sur, empezamos a preguntarnos si "otro mundo es posible". La respuesta es: ¡sí! Otros mundos son posibles y existen, así como otras verdades que las que nos han impregnado desde nuestros primeros días. 


Recordando que "la verdad es una construcción social", y que por tanto un modelo dominante que nos ha impregnado durante tanto tiempo ha tenido la manera de inculcarnos el demonio de que su verdad de un modelo modernizador es la única posible, debemos hacer un gran esfuerzo personal para empezar a liberarnos de estas cadenas.


El punto crítico de este largo recorrido surge en el momento de contrastar un método basado en el diálogo, la negociación y la concertación con otro basado en la dominación del más fuerte, que domina y define los propios objetivos y conceptos de "desarrollo".


Sabemos contra qué luchamos, contra esa modernidad en la que la tríada ciencia, tecnología y progreso (occidentales) son los pilares del santo grial que representa el crecimiento económico. Pero esto no es suficiente. Cuando pretendemos ser facilitadores de procesos de desarrollo territorial negociados, ya sea en zonas de conflicto o no, debemos preguntarnos qué visiones ontológicamente diferentes están en juego entre los actores. Y a esta pregunta, que inevitablemente lleva a una respuesta que será plural, habrá que seguirle la pista para entender qué queremos que surja de este tipo de procesos y qué horizonte filosófico ponemos en torno a ellos: ¿el dictado por los donantes o los organismos financieros internacionales, que inevitablemente reflejan esa ontología de la modernidad que empieza a crujir, o queremos convertirnos en constructores de una nueva ontología del posdesarrollo y la posmodernidad? Y las nuevas preguntas vienen como las cerezas, una se derrama sobre la otra: ¿tenemos nosotros, que hemos elegido el papel de facilitadores de procesos de este tipo, la "razón" de tomar partido en contra o a favor de una modernidad, que sentimos que ya no es suficiente para representarnos, o de una posmodernidad por inventar? ¿Por qué luchamos, por el "desarrollo" o por una transformación de la sociedad?

 

venerdì 14 gennaio 2022

La visione che lascio in eredità

 […] no society is in complete control of its water and air nor can it protect itself completely from environmental contamination, pandemics, global warming and on and on as science uncovers new dangers (as well as opportunities) Jim Riddell, ex-capo servizio Land Tenure, FAO

Iniziai a interessarmi alle questioni dello “sviluppo” una quarantina di anni fa, con una visita casuale alla Nicaragua sandinista. Una rivoluzione era in corso, contro un antico sistema latifondista, patriarcale che dominava ogni porzione della vita dei sudditi della famiglia Somoza. La nuova guardia rivoluzionaria diceva voler costruire un mondo e un uomo nuovo, partendo dalle campagne, essendo l’economia del paese essenzialmente agricola ed essendo quello il posto dove maggiormente era visibile la dominazione della famiglia Somoza. La questione agraria divenne quindi il centro del loro disegno politico, ed io atterrai in quella realtà a me sconosciuta nel mezzo delle contraddizioni tipiche di questa nuova elite politica di origine borghese ed urbana, con scarse conoscenze storiche del tema agrario ma con una certa apertura mentale che permise di evitare i tipici errori delle avanguardie rivoluzionarie istruite da Mosca (collettivizzazione e nazionalizzazione delle terre), preferendo una via di mezzo di tipo cooperativo, che se sembrava poter rispondere ad alcuni dei problemi strutturali (tipo la sottocapitalizzazione, la mancanza di macchinari e risorse produttive), dall’altro poco interessava l’anima individuale dei contadini nicaraguensi.

Cominciai ad interessarmi più da vicino, leggendo i documenti che trovavo e poi cercando altri testi di più ampio respiro geografico per capire meglio come si inquadrasse questa eterna questione agraria nel mondo in cui vivevo. A futura memoria, ricordo che io ero un tipico prodotto delle Facoltà di Scienze Agrarie italiane, dove non si studiava la storia agraria, il credo era quello della tecnologia e della scienza occidentale e dove la chimica la faceva da padrone.

Altre casualità mi portarono ad incrociare il mio cammino di studi con gli insegnamenti offerti nella cattedra di agricoltura comparata e sviluppo agricolo dell’INAPG, Parigi. Cattedra che era stata di Réné Dumont e, quando ci arrivai, era diretta da Marcel Mazoyer il quale, alla visione mondiale e approssimativamente comparata che portava Dumont per la prima volta nell’insegnamento di questo tipo, aggiunse una teorizzazione che, dal concetto di “sistema agrario”, si andava ampliando alla differenziazione storica e geografica dei principali sistemi esistenti. “Capire a che gioco stavamo giocando” era la frase chiave di Mazoyer che voleva trasmettere a noi studenti: cercare il perché delle cose che vedevamo in campagna, interrogarsi sulle origini storiche, sulle diverse evoluzioni e cercare di costruire una visione coerente che spiegasse la situazione attuale, da cui trarre lezioni per proposte evolutive. Col senno di poi devo dire che mancava completamente una ancorché minima visione della questione di genere, ma a quei tempi era così che andava.

Erano anni in cui un piccolissimo paese come il Nicaragua poteva pensarsi come indipendente, fuori dalle logiche geo-politiche mondiali, salvo poi doversi ricredere molto velocemente a mano a mano che l’embargo americano chiudeva tutti i possibili sbocchi economici. Ma quella era un’impressione (la possibile indipendenza d’azione di un paese, per quanto piccolo sia) che ci portavamo dietro in tanti, e che mi seguì per anni nel mio lavoro alla FAO. All’inizio quindi mi concentrai, paese per paese, a far conoscere l’ABC dell’approccio sistemico della scuola di Parigi, interpretato alla luce dei miei primi lavori in America latina quando ero di base all’ufficio regionale in Cile. Cercare degli interlocutori nazionali, fossero universitari oppure organizzazioni non governative, nonché persone all’interno dei governi che erano la nostra controparte ufficiale, così da passar loro, come un Bignami dell’approccio sistemico, i principi teorici e le possibili applicazioni metodologiche. L’idea che sosteneva questi sforzi era che una miglior comprensione delle dinamiche agrarie locali, diverse da paese a paese, potessero permettere l’elaborazione di proposte di miglioramento delle condizioni produttive ed economiche dei contadini con poca o senza terra.

Nacquero da lì i contatti con le organizzazioni contadine nazionali, nonché con ONG italiane e non, nell’intuito che fosse necessario fare sponda con loro per poter forzare la mano di cambiamenti di politiche in favore dei settori agricoli più svantaggiati. 

Ogni occasione era buona per cercare di sviluppare nuovi progetti. Bastava un segnale da un rappresentante FAO nel paese, e ci lanciavamo a proporre interventi iniziali dai quali speravamo fiorissero dei progetti o programmi più ambiziosi, nel tempo e nelle risorse. La logica era che dovevamo trovarci ad essere pronti ad intervenire se e quando si fossero date delle condizioni storiche che permettessero un cambio. Moltiplicare gli interventi era quindi non solo una possibilità di fare esercizio di comparazione metodologica, per continuare ad apportare miglioramenti all’approccio, ma anche moltiplicare le nostre chances di poter incidere in qualcuna di queste realtà.

Era uno sforzo che trovava pochi appoggi all’interno dell’unità in cui lavoravo ma, almeno finché Marcos rimase a dirigerla, potèi contare con l’appoggio del capo servizio, un brasiliano che divenne col tempo un carissimo amico. Messa a parte questa importante, ma breve parentesi, il problema del mancato appoggio di colleghi ma soprattutto dei capi servizio e direttori di divisione, rimase come una costante, quasi un assioma. Ragione per cui, ben prima che si formalizzasse la possibilità di avere degli “stagiaires”, cominciai a prendere con me giovani volonterosi interessati a queste tematiche ed aperti, almeno speravo, a visioni diverse e non convenzionali.

A mano a mano che imparavo a conoscere l’organizzazione, quella vera e non quella delle dichiarazioni ufficiali, diventava per me evidente la scarsissima volontà di lavorare per incidere realmente sulle dinamiche della povertà agricola e rurale, accontentandosi perlopiù di un lavoro superficiale che mostrasse un certo impegno ma senza disturbare chi deteneva il potere. 

Col tempo imparai anch’io a rendermi conto di quanto illusorio fosse l’azione portata avanti isolatamente in un paese, senza approfondire la questione geopolitica a più alti livelli. Fu così che, profittando dei buoni risultati ottenuti in Brasile e dell’appoggio di Marcos, il capo servizio brasiliano, iniziammo a lavorare anche in altri paesi di lingua portoghese, Mozambico, Angola e successivamente Guinea Bissau, Capo Verde, Sao Tomé e, anni dopo, Timor Leste, cercando di pensare a una strategia di più alto respiro. 

Da un lato avevamo i risultati positivi del lavoro non solo in Brasile ma anche in Mozambico, nonché i contatti più stretti con organizzazioni contadine che, dal livello nazionale, come era il caso del MST brasiliano, erano passate a una rete mondiale a favore delle lotte contadine, con diramazioni in molti di questi paesi. Avevamo inoltre degli ottimi legami politici (uno dei nostri consulenti brasiliani era stato nominato ministro responsabile dell’agricoltura familiare), il che permetteva di portare il dialogo con questi altri governi a livelli e contenuti diversi da quelli possibili nei primi anni. Si trattava inoltre di un gruppo di paesi dove, per la ridotta presenza di esperti che parlassero il portoghese, la presenza di agenzie tecniche o di organismi finanziari era ancora limitata, così aprendo maggiori spazi per i nostri lavori di terreno.

Non più solo in queste lotte, ma accompagnato da un numero (ridotto ma non inesistente) di consulenti nazionali e internazionali, qualche risultato riuscimmo a portarlo a casa. In questo sforzo supra-nazionale cercai di coinvolgere anche colleghe di altre unità tecniche, con le quali collaboravo saltuariamente: l’ufficio legale, l’unità di genere e quella incaricata della tematica dell’acqua. Molte energie furono dedicate a questo sforzo di cercare alleanze interne, ma il problema era a monte, cioè nella selezione del personale tecnico che quasi mai sommava a una buona capacità tecnica specifica, una visione di medio-lungo termine dei rapporti di forza e delle necessità di fare squadra per far avanzare qualcuno dei nostri temi. La divisione con cui ottenni i minori risultati fu quella delle foreste, malgrado il fatto che disponevano di una rete molto fitta di progetti di terreno e un personale tecnico molto preparato. A un certo punto si era anche creata al loro interno un gruppo di lavoro particolare, guidato da una persona molto in gamba, Marylin Hoskins, che portava avanti riflessioni molto simile alle mie iniziali proposte. Sfortuna sua, deve aver calpestato i piedi di qualche potente, perché venne mandata via e la sua unità smantellata. 

Il problema principale, che cominciava a diventare sempre più evidente per me, era la mancanza di una riflessione, all’interno del gruppo che si occupava di “politiche” legata non solo alla questione agricola ma, più amplia, a quella agraria e cioè al divenire delle strutture agrarie, i giochi di potere e l’accaparramento che si cominciava a vedere. Questo ci obbligava a cercare di portare noi stessi le nostre istanze, elaborate a partire dalle esperienze di terreno, a livello “politico” nazionale e all’interno della FAO, ma era difficile trovare interlocutori dato che anche lì si preferiva di gran lunga limitarsi alle questioni agricole senza toccare mai i problemi strutturali.

I problemi, a mano a mano che conoscevamo meglio i portatori di interessi, invece di diminuire aumentavano. Il nuovo interesse che la terra cominciò a suscitare dagli inizi degli anni 2000, fece aumentare le pressioni da parte di attori internazionali che portavano avanti un’agenda molto diversa dalla nostra, incentrata sul profitto, la regola del più forte e una competizione internazionale dove non c’era posto per i piccoli agricoltori, il cui destino era l’emigrazione urbana, nazionale o internazionale. Se da un lato questa deriva l’avevamo vista arrivare, quello che probabilmente ci fece più male fu la comprensione che anche i movimenti contadini, anche i più conosciuti a livello mondiale, funzionavano con un livello di retorica ideologica verso l’esterno, simile ai tanti partitini e gruppuscoli dell’estrema sinistra, ma poi una logica di potere patriarcale e leninista verso l’interno, dove non c’era spazio per costruire collaborazioni con altre forze simili e ancor meno con chi, all’interno di agenzie come la nostra, cercasse di aprire spazi di dialogo e collaborazione.

Ci siamo venuti a trovare quindi da un lato una mondializzazione degli interessi per le risorse naturali con attori di peso economico e politico che facevano sempre squadra nei momenti topici, e dall’altro una frammentazione delle organizzazioni di lotta contadina, in competizione fra di loro per risorse economiche, visibilità politica e spazi di potere all’interno delle macchine governative. Rapporti di forza così diseguali che permettono di capire come, se da un lato la questione delle risorse naturali nell’accezione più amplia sia diventata centrale in molto agende politiche, dall’altro le questioni fondamentali, come la loro diseguale ripartizione e l’attualità della questione agraria intesa come necessità di riforme agrarie, siano praticamente sparite dall’orizzonte.

L’evoluzione interna alla FAO aveva portato un nuovo capo servizio, figlio della cultura colonialista inglese e quindi geneticamente disinteressato alle questioni dei diritti delle comunità contadine, donne, popoli indigeni etc. Era (ed è) figlio di quella ontologia del modernismo, così riassunta da B. Latour (citato da Kirsten Koop nel suo ultimo lavoro ancora non pubblicato): “depuis le siècle des Lumières, les sociétés occidentales étaient attirées par la modernisation, projet social synonyme de progrès, de bien-être matériel, de liberté individuelle et de droits universels. Il ne s’agissait pas seulement d’œuvrer en sa faveur sur place, mais aussi de l’étendre dans le monde, d’abord par la colonisation, puis par l’économie mondiale libérale. Ce front d’expansion géographique ignorait tout autre mode d’existence, la modernisation étant un projet aussi bien dans l’espace que dans le temps.” (fin dall'Illuminismo, le società occidentali sono state attratte dalla modernizzazione come un progetto sociale sinonimo di progresso, benessere materiale, libertà individuale e diritti universali. Non si trattava solo di lavorare per esso a livello locale, ma anche di diffonderlo nel mondo, prima attraverso la colonizzazione, poi attraverso l'economia mondiale liberale. Questo fronte di espansione geografica ignorava qualsiasi altra modalità di esistenza, poiché la modernizzazione era un progetto nello spazio oltre che nel tempo) (LATOUR, B., (2017), Où atterrir? Comment s’orienter en politique, La Découverte, Paris). 

L’inglese incarnava la visione occidentale della Banca mondiale figlia della teoria del trickle-down per cui bisognava creare condizioni ideali per investitori internazionali – da cui la promozione di sistemi di amministrazione fondiaria copiati sui modelli occidentali – in modo che grazie a loro si sviluppasse l’economia e questo portasse degli effetti positivi anche ai più poveri. Si creò così un’alleanza strutturale tra i vari segmenti conservatori della FAO e la Banca mondiale, supportata poi da un insieme di altre organizzazioni bilaterali del nord, e dal settore finanziario privato che fecero sì che l’asimmetria di potere fra nord e Sud aumentasse ancor di più.

La violenza di questo assalto capitalista alle risorse naturali nei paesi del Sud ha portato alla ribalta questa questione attraverso un nuovo angolo, quello dei conflitti, aumentati a dismisura in tutte le regioni del mondo. Oggigiorno possiamo dire senza paura di essere smentiti, che praticamente tutti i conflitti in corso hanno una base legata all’accaparramento delle risorse naturali, suolo e sottosuolo. Gran parte di questi trovano le loro origini nelle decisioni prese dalle potenze coloniali occidentali, che spartirono il mondo con frontiere artificiali in funzione dei loro soli interessi. 

Oggi più che mai ci sarebbe bisogno di interlocutori internazionali, come le agenzie ONU, ma proprio quando più sarebbero necessarie meno le troviamo. La situazione si sta incancrenendo ed è difficile vedere delle vie d’uscita dato che i principali detentori del potere (le vecchie oligarchie coloniali e le nuove potenze emergenti) condividono sempre la stessa idea di non voler intervenire sulle cause dei problemi (che loro hanno creato), e limitandosi a palliativi per cercare di limitare i danni.

Ecco perché i conflitti legati alle terre e territori aumentano, così come le emigrazioni, forzate dalle guerre, dall’economia o dall’ecologia, pian piano diventando un problema per il nord del mondo, visto però, ancora una volta, sotto l’angolo sbagliato, cioè quello della nostra sicurezza (per non parlare delle teorie incredibili sul grande rimpiazzamento del mondo occidentale cattolico da parte di fantomatici milioni di mussulmani in arrivo sulle nostre coste).

In questo contesto, il nostro lavoro di evoluzione metodologica, da quello che all’inizio chiamavo il “diagnostico dei sistemi agrari”, verso un approccio di tipo territoriale, basato su dialogo e negoziazione, si è interessato sempre più alla questione dei conflitti. Lo spazio che noi cercavamo di aprire ed occupare in materia di sviluppo agricolo nei paesi del Sud prima che la conflittualità diventasse troppo grande, trovò il suo apogeo nella Conferenza Internazionale che organizzammo a Porto Alegre nel 2006. Fu una mano tesa, non rivoluzionaria, dati i limiti politici della FAO, ma di un riformismo di tipo nuovo, portata verso quegli interlocutori, i movimenti contadini organizzati, con i quali volevamo provare a fare sponda per coordinare le nostre azioni, laddove possibile, in maniera di incidere più strutturalmente sulle dinamiche politiche ed economiche nazionali. 

Il messaggio di felicitazione che ricevemmo all’indomani della sua conclusione da parte dei vertici della Via Campesina, ci fece credere per un momento che fosse possibile sommare il loro peso, in quanto organizzazione che poteva agglutinare un insieme di altri movimenti nazionali, e il nostro (limitato) peso internazionale per contrapporci in maniera più strutturata e coesa alle forze economico-finanziarie neoliberali che dominavano la scena.

Era un sogno, un miraggio di come avremmo potuto, assieme, lottare per cambiare il mondo. E per un momento lo credemmo possibile. Poi il realismo politico di questi movimenti fece loro scegliere di restare all’interno delle loro zone di confort, laddove possono gridare contro gli oppressori ma senza andare mai a sporcarsi le mani nell’azione politica diretta, e scelsero di appoggiare con coscienza la manovra opposta che venne messa in atto dai paesi occidentali più neoliberali, appoggiati dalla Banca mondiale e dalle forze economiche e finanziarie interessate a non avere lacci e lacciuoli che limitassero la loro presa di controllo delle risorse del Sud. Fu così che inventarono il programma che portò alle Direttrici Volontarie sulla Buona Governanza della Terra che, il giorno della loro approvazione, maggio del 2012, vennero applaudite pubblicamente dal rappresentante della Via Campesina. Un tradimento degli ideali di questa portata non l’avevo mai visto, e tutto in cambio del famoso piatto di lenticchie nella forma di pochi soldi per appoggiare il loro lavoro interno, che vennero elargiti da qualche donatore che se li comprò.

Bastarono pochissimi anni perché si rendessero conto del loro tragico errore, ma oramai la frittata era fatta e troppe celebrazioni, troppi documenti e troppe prese di posizione era state fatte e dette per poter tornare indietro. 

In questo contesto, il lavoro che aumentammo nei paesi in conflitto si trovò in una situazione molto complicata, dalla quale non siamo ancora riusciti ad uscire. Da un lato in molti casi i governi occidentali hanno preferito vedere in questi conflitti una dimensione di lotta internazionale al terrorismo (di matrice islamica o altro), così da portare avanti un’agenda militare che non ha mai avuto possibilità di successo, dato che le ragioni di fondo sono legate alle risorse naturali e alle popolazioni che ne rivendicano i legittimi diritti. Dall’altro, i movimenti contadini non hanno ancora elaborato una riflessione che permetta loro di uscire dalla trappola delle Direttrici Volontarie, per cui sono attori inesistenti in questa che sta diventando l’agenda principale del tema “cooperazione allo sviluppo”. 

Ecco perché la ricerca di possibili alleati di diversa natura è iniziata già da parecchi anni. Come lo scrivemmo nel nostro documento GreeNTD, il principale alleato con cui dovremmo (il condizionale è d’obbligo) poter contare è Papa Francesco, dato che la visione dei rapporti tra esseri umani e risorse naturali come spiegata nell’enciclica Laudato Sì, calza perfettamente con quanto portiamo avanti noi. Per capirci meglio: non si tratta di contare sulla Chiesa Cattolica nel suo insieme, dato che anche questa è strutturalmente una forza conservatrice e restia a qualsiasi cambiamento strutturale, ma alle spinte che persone al suo interno possono provare a impartire. In questo contesto storico, la parola del Papa può aiutare a cercare alleanze in quella direzione, anche se finora i risultati sono stati scarsi. In particolare nel mondo dell’associazionismo cattolico, quelle tante ONG italiane ed europee che si rifanno all’insegnamento cattolico ma che, nella pratica, funzionano con la stessa logica delle altre ONG laiche che ho conosciuto: la ricerca di fondi come attività principale, di origine quasi esclusivamente occidentali, il che crea una barriera insormontabile all’indipendenza della riflessione e dell’azione sul terreno, che non vanno mai contro i principi ideologici dei loro sostenitori. Di conseguenza ci si ritrova in un circolo senza uscita: ai livelli inferiori troviamo persone interessate e volenterose, ma poi mano a mano che si sale nella gerarchia, l’uniformizzazione diventa la regola: comanda chi mette i soldi, come ben dicono i donatori del nord: value for money!

La logica di fondo che noi dovremmo spingere l’aveva già chiarita il mentore del mio mentore, Réné Dumont, molti anni fa: “consigliare a chi detiene il potere economico-finanziario-culturale di cambiare al proprio interno, di condividere gentilmente il potere con chi non ce l’ha, è una strategia portata avanti dal cristianismo durante duemila anni, senza risultati. Quello che bisognerebbe predicare è la rivolta dei poveri, una crociata contro le casseforti dei ricchi.”

Di fronte allo stato delle cose attuali, da alcuni anni ho iniziato ad interessarmi maggiormente di quello che potrebbe essere una chiave di volta, di medio-lungo periodo sicuramente, ma forse di maggior probabilità di successo. Da parte mia credo che non esista nessuna possibilità per i movimenti contadini come sono oggi da una parte, e i movimenti ecologisti sparsi in giro per il mondo dall’altra, di riuscire a influire strutturalmente nel modello economico finanziario che da oltre 40 anni determina i nostri modi di vita. L’auge dell’interesse mondiale dell’opinione pubblica per i movimenti contadini fu quasi 25 anni fa, al momento del massacro de Eldorado dos Carajàs in Brasile. Quell’onda di simpatia tuttavia non fu sufficiente per spostare di un millimetro i rapporti di forza e, ancor peggio, non servì per spingere ad un avvicinamento tra i vari settori in lotta, come sempre succede con i movimenti politici di sinistra o rivoluzionari che siano, nel mondo intero. La competizione tra loro e per fette sempre più marginali di potere ha fatto perdere interesse per le loro lotte, che sono diventate sempre più difensive di piccoli spazi e/o conquiste del passato e sempre meno tese alla rivoluzione tanto decantata. 

Oggi pertanto vediamo bene come, malgrado la crisi del 2008-09 e quella attuale, non esistono segnali seri di una volontà di cambiamento politico a livello internazionale. Quei pochi leader progressisti arrivati al potere in questi ultimi decenni sono finiti tutti inghiottiti dalla brama di potere che ha fato perdere loro contatto con le realtà contadine nazionali e locali e quindi incapaci di porsi all’avanguardia di lotte a livello mondiale. 

Gli oltre 70 anni dedicati al tema dello sviluppo e sottosviluppo sono stati essenzialmente dominati da una visione maschilista e patriarcale, sia dentro le sfere di potere che quelle dell’opposizione. Si è giocato quasi sempre sul campo economico, allargandolo a qualche briciola di “sociale” per far piacere all’opinione pubblica, e più recentemente alla questione ecologica, ma sempre vista a partire da un paradigma economico essenzialmente neoliberale (e quindi patriarcale), come si vede bene con le discussioni nostrane sul piano nazionale di resilienza post-covid (finanziato dall’Unione Europea).

Si è così scelto di lasciar fuori dalla discussione, quasi non fossero parte in causa, la metà del mondo, quella femminile. Malgrado l’arrivo sulla scena internazionale di una riflessione progressivamente sempre più affinata sulla questione, quando si entra nello specifico dello sviluppo agricolo/agrario, dobbiamo constatare quanto poco si sia fatto in pratica. 

Ci ho pensato molto, ma alla fine sono giunto alla conclusione che non ci sarà quella rivolta dei poveri agognata da Dumont e, a parole, sostenuta dai movimenti contadini. Non ci sarà perché questi ultimi hanno dei limiti strutturali che richiedono tempi lunghi e forze nuove per essere superati, non ci sarà perché il mondo delle ONG, del nord come del Sud, è troppo dipendente finanziariamente dai fondi di chi detiene quel potere che si vorrebbe cambiare, e non ci sarà perché l’opinione pubblica del nord, penso in particolare al caso italiano, è stata anestetizzata da 40 anni di politiche culturali inesistenti, da un modello culturale imposto dai media di Berlusconi (possibile futuro Presidente della Repubblica! Cose da pazzi che si pensava non potessero succedere in Italia, ed invece …) e da una scarsa curiosità per leggere e capire cosa succeda in giro per il mondo. (pensavo e scrivevo queste cose poco prima che il Cile, ancora una volta, stupisse tutti facendo vincere un fronte progressista e un candidato giovane e fuori dagli schemi come Presidente della Repubblica. Vale forse ancora il detto: spes ultima dea…).

Al di là però di questa tenue speranza, in me domina il pessimismo. Mi ritrovo molto in queste parole di Sardan, autore conosciuto grazie alla cara amica Kirsten:

« The spirit of our age is characterised by uncertainty, rapid change, realignment of power, upheaval and chaotic behaviour. We live in an in-between period where old orthodoxies are dying, new ones have yet to be born, and very few things seem to make sense. Ours is a transitional age, a time without the confidence that we can return to any past we have known and with no confidence in any path to a desirable, attainable or sustainable future [...]. Postnormal times demands [...that we abandon the ideas of ‘control and management’, and rethink the cherished notions of progress, modernisation and efficiency. The way forward must be based on virtues of humility, modesty and accountability, the indispensible requirement of living with uncertainty, complexity and ignorance. » (SARDAR, Z., (2010), Welcome to postnormal times, Futures, vol. 42, n°5) 

Come lo ricorda l’autore di queste parole ci troviamo in una fase storica caratterizzata da: complessità, caos e contraddizioni. Sono arrivato quindi alla conclusione che il problema vada impostato da un angolo diverso: quello del necessario riequilibrio dei rapporti uomo-donna, un precedente necessario per poter ripensare l’equazione tra esseri umani e natura. 

Nella mancata comprensione di questo aspetto preliminare, io vedo i limiti della Laudato Sì. All’inverso che in matematica, cambiando l’ordine dei fattori qui il prodotto cambia. Non credo sarà possibile operare per un riequilibrio strutturale del rapporto tra risorse umane e risorse naturali se prima non si riempie il fossato delle disuguaglianze di genere. Il contrario non funziona. Non si parte dall’ecologia per arrivare all’essere umano. Si parte da quest’ultimo per poter pensare un equilibrio diverso con la Natura.

 E questo va fatto partendo da una visione che non sia di tipo individualistico-neoliberale, ma dalla diversità del mondo femminile, dalle disuguaglianze che si moltiplicano tra variabili di classe, genere, etnia, per promuovere dei movimenti tellurici di gruppo.

Negli anni 70 Mariarosa Dalla Costa ed altre femministe italiane avevano promosso l’idea di un salario da riconoscere al lavoro domestico. Moltissime furono le critiche, ma alla fine oggi cominciamo a renderci conto che è dalla sfera familiare che bisogna ripartire. Dei veri movimenti contadini genuinamente rivoluzionari dovrebbero essere i primi a far sì che questo equilibrio interno, che passa per una diversa ripartizione dei compiti, con il maschio che prende a carico la sua parte di compiti nell’insieme della sfera riproduttiva e del “care”. Che siano sforzi difficili per le resistenze storicamente accumulate non esime che, se si pretende ad essere diversi e rivoluzionari, bisogna avere il coraggio di prendere strade nuove, anche se difficili. Bisogna però anche uscire dalla dominazione modernista che abbiamo in testa tutti quanti: non è un salario, soldi, che permetterà di cambiare il rapporto. E’ certamente un buon punto d’entrata per sfidare gli altri attori in gioco, ma la vera questione è di cominciare a pensare a un’altra ontologia, da costruire.

Anche qui si pone il problema delle alleanze, ma credo che esista un mondo di organizzazioni femministe con cui sia possibile aprire un dialogo per far aumentare la pressione al cambio dentro le istanze direttive dei movimenti contadini, delle ONG e dei governi. Bisogna fare attenzione però, perché il mondo neoliberale ha già molto vantaggio su di noi, tanto da appoggiare molte istanze femministe purché restino dentro la visione individuale del mondo: non società ma individui, come diceva la Lady di Ferro. Noi, cioè chi continuerà la lotta che ho promosso in questi anni, dovrà iniziare a riflettere al suo interno per arrivare probabilmente a conclusioni simili, cioè che è da lì che si deve ripartire. Poi, fatto questo primo passo, dovrà cercare nel suo agire professionale di costruire legami e una visione che si adatti alle varie realtà di disuguaglianza di genere che dobbiamo combattere, in uno spirito che non sia più competitivo ma di alleanza. Arriveremo pian piano alla questione fondiaria, ma questa non può essere vista solo come una questione giuridica formale di chi ha dei diritti sulla terra. Se non si fa pressione per un cambio societale, iniziando dagli uomini che sono membri attivi nei movimenti contadini che si definiscono “progressisti”, non andremo da nessuna parte, e continueremo a proporre, sempre più stancamente, dei Forum mondiali ai quali sempre meno persone si interessano.

Non possiamo partire da chi comanda i movimenti contadini, perché si tratta di elite votate all’interno di quella cultura patriarcale che ha dominato e, magari parzialmente, continua a dominare quelle stesse organizzazioni. Vanno cercate al loro interno quelle forze che si battono per far emergere questo tema, come è stato con le donne brasiliane della Contag che hanno imposto quella che è conosciuta come La Marcia delle Margherite, contro le opinioni contrarie dei loro capi. Cambiare si può, e loro lo hanno dimostrato, così come piccole voci dentro la Via Campesina cercano di portare avanti la stessa rivoluzione interna. Quelle voci dobbiamo cercare e accompagnare, ma non limitarci a quell’universo. Fuori dal mondo agricolo esistono molte organizzazioni femministe che si interessano alle problematiche agrarie ed ambientali. Certo, ci sono molte divisioni, il che è giusto e normale, ma noi dobbiamo entrare in quell’universo e proporre un filo per tessere rapporti.

Anche sulla questione dei conflitti dobbiamo cambiare prospettiva. Prima di essere conflitti esterni, sono innanzitutto conflitti interni che non vogliamo riconoscere, per nostra incapacità culturale. Se non iniziamo ad interessarci a quella sfera, non sarà mai possibile raggiungere un equilibrio, un accordo, sulle dimensioni esterne del conflitto. Avremo una pace di superficie, che non risolverà nulla, esattamente come fanno i paesi occidentali (pian piano seguiti dalla Cina e dalla Russia) quando privilegiano l’intervento militare, come se qualche volta nella storia i militari fossero stati capaci di risolvere strutturalmente un problema.

Quello che lascio è una visione che è ancora in via di formulazione. Quest’anno, assieme ad alcune colleghe e amiche, dovremmo riuscire a pubblicare un libro sulla questione delle Terre, Donne e Diritti. Un altro piccolo passo, che fa parte del lascito morale ed intellettuale per voi amici e amiche con cui ho lavorato in questi lunghi anni.

Un abbraccio e un incoraggiamento perché le energie non vi manchino. Come cantava il vecchio di Pavana (Guccini), sulle parole di un altro emiliano (Ligabue), io “la mia parte ve la posso garantire”.