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lunedì 26 giugno 2017

Tensioni – dispute – conflitti: l’acqua si sta avvicinando al punto di ebollizione

Tensioni – dispute – conflitti: l’acqua si sta avvicinando al punto di ebollizione
Il sottotitolo potrebbe essere: possiamo sul serio fare qualcosa per raffreddarla?

Da anni uso questo mio blog per fare il punto della situazione sulle questioni legate alle risorse naturali, come e dove cerco di dirigere il mio lavoro e, ogni tanto, per informare se qualche goccia di speranza siamo riusciti a metterla in saccoccia per l’inverno che verrà.
Continuo questo percorso, che si avvale di mille fonti diverse, dai giornali, passando per i rapporti di agenzie di sviluppo, ONG, individui, colleghi, dialoghi con comunità quando riesco ad incontrarle e così via. Essendo la materia parzialmente volatile ed evolutiva, penso sia utile fare periodicamente delle verifiche, per capire (anche per me stesso) se la direzione è giusta oppure no. Lavorare sul tema dei conflitti sulle risorse naturali, facendo parte di una agenzia specializzata delle nazioni unite, fa sì che di fatto ti ritrovi a dover aprire la strada da solo: Caminante no hay camino, se hace camino al andar, https://www.youtube.com/watch?v=2DA3pRht2MA, recita una vecchia canzone spagnola e cosi è nel nostro caso. 
La differenza di fondo fra chi lavora su questi temi al livello che è il nostro, e chi faccia un qualsiasi altro lavoro, dall’operaio al tornio, al falegname, all’insegnante e via discorrendo, è che nei loro casi riesci ad arrivare alla fine del tuo percorso lavorativo dicendoti: sono riuscito a fare delle cose, ho aiutato dei bambini a crescere, ho costruito dei tavoli e dei mobili, ho messo a punto dei pezzi importanti per quella macchina, etc.etc. e, per quanto stanco e stressato, dentro di te senti un certo grado di soddisfazione. Sei incazzato perché ti pagano poco, magari perché gli altri non riconoscono il valore del tuo lavoro, ma resta uno spazio tuo, personale, dove resiste la soddisfazione del lavoro ben fatto. Io l’ho imparato da mio padre, quando lo accompagnavo a fare un po’ di lavori extra-fabbrica per arrotondare il salario. Un muretto tirato su a regola d’arte, la copertura dei garages fatta con la tela catramata, la prima che abbia visto in vita mia, sarà stato nel 1970, cosi da impedire l’infiltrazione della pioggia… insomma piccole cose ma che davano soddisfazione.
Io ho sempre cercato di riportare questo metodo all’interno del mio lavoro. Ma mano a mano che mi addentravo nel mondo dei conflitti, mi rendevo conto che alla fine della giornata erano sempre ben magre le soddisfazioni che si riusciva (e si riesce) a portare a casa. Soprattutto quando cerchi di guardare al di là del caso singolo sul quale lavori e cerchi di capire le dinamiche regionali o globali di questi fenomeni.
Da parecchi anni, in modo molto freddo e tecnico, abbiamo messo a disposizione dati globali, regione per regione, mostrando il livello di attitudine delle terre alle coltivazioni, la loro progressiva rarefazione, e anche il calo progressivo degli aumenti di produttività raggiunti con le nuove tecnologie. Il messaggio era, e resta, sempre lo stesso: dobbiamo imparare a usare meglio quello che abbiamo, dato che non sarà più possibile una espansione della frontiera agricola. Nei pochi posti dove questo sarebbe in teoria possibile, Amazzonia e bacino del Congo, la consapevolezza della loro importanza ambientale sta diventando un freno (relativo, va detto) a quell’espansione. E comunque, anche se si espandesse la produzione su quelle terre, la risposta globale non potrà mai essere all’altezza della sfida. Questo perché il cammino che si è intrapreso nel dopoguerra, sta arrivando al capolinea.
All’epoca l’entusiasmo per i miglioramenti produttivi ottenuti grazie alla ricerca agricola, nuove varietà, introduzione massiccia della chimica in agricoltura, fecero parlare di vera e propria rivoluzione. I rendimenti individuali crebbero a ritmi incredibili per alcuni decenni, poi pian piano, dagli anni 60 in poi, si cominciò a notare che i tassi di crescita si riducevano. Aumentavano ancora i risultati globali, ma i progressi costavano sempre di più cari in termini di ricerca e i risultati non solo non si mantenevano, ma cominciavano a calare. Da allora abbiamo cominciato a porci la vera domanda: se esista un potenziale genetico al di là del quale non si possa andare, dato che il costo non sarebbe mai compensato dai benefici. 
Abbiamo preparato delle varietà che sono come delle Ferrari. Messe in una buona strada, con asfalto adeguato, rettilinei, gomme adeguate e tutto il resto, vanno da Dio. Queste Ferrari hanno però bisogno di condizioni climatiche particolari e di trattamenti chimici abbondanti. Globalmente sia l’America del Nord che l’Europa aveva delle condizioni molto simili, per cui il passaggio delle varietà messe a punto in America sui suoli europei non ha posto grosse difficoltà. All’inizio producevano tanto oltre oceano e altrettanto qui da noi. Tutti contenti, e in pochi anni noi europei siamo passati, da una situazione deficitaria (vera e propria fame) all’uscire dalla guerra, a essere esportatori netti ai primi anni 60. 
La domanda di cibo ha continuato a crescere e a diversificarsi. Mano a mano che si diventava meno poveri, aumentava la domanda di proteine di origine animale. Quindi lo slogan per decenni è sempre stato di produrre di più. Nel Nord del mondo questo funzionava ancora: avevamo settori produttivi che assorbivano la mano d’opera agricola che usciva dal settore a mano a mano che le dimensioni aziendali aumentavano; la produttività a ettaro continuava a salire (anche se meno di prima), per cui i prezzi unitari pagati ai contadini scendevano (e questi continuavano a indebitarsi per produrre sempre di più guadagnando sempre meno) e il costo di riproduzione della mano d’opera calava anche lui.
A un certo punto, quando il livello di povertà e di “morti di fame” nel sud del mondo ha raggiunto un livello critico, vicino al miliardo, le nazioni unite si sono mosse per sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale attraverso un Summit. Successe a metà degli anni 90, e fu quando i grossi produttori dell’agro-industria americana ci scrissero dicendo che era inutile preoccuparsi con i poveracci del sud del mondo. Le loro agricolture erano troppo ritardate perché valesse la pena investire, la cosa migliore era di dare i soldi ai bravi produttori del nord che, con le meraviglie promesse dalle varietà OMG, avrebbero alimentato il mondo intero. Da un certo punto di vista questa posizione, frutto dei miglioramenti tecnologici e chimici storici dell’agricoltura americana, oramai diventata un vero e proprio conglomerato agro-industriale, era un frutto logico. Bisogna ricordarsi come in quegli anni il credo fosse solo uno: produrre sempre di più. Nei nostri corridoi le foto che rimbalzavano gli slogan ufficiali erano sempre quelle: contadini al lavoro e sotto la scritta: bisogna produrre di più. Il mercato essendo oramai globalizzato, era ovvio che i signori del Nord dicessero, parafrasando il nostro (ex)Cavaliere: Ghe pensi mi!
Quello che attirò l’attenzione nel loro discorso fu soprattutto il riferimento agli OGM, e il dibattito prese quella piega. Io credo avrebbe dovuto occuparsi anche di un altro aspetto, già introdotto nelle scienze sociali vari anni prima, e cioè la bassissima considerazione che si prestava ai contadini e contadine del sud del mondo, in particolare l’idea che le comunità rurali del sud non sapessero fare un uso razionale delle loro risorse e che quel loro comunitarismo avrebbe di fatto portato allo sfacelo. Non era razzismo allo stato puro, ma un semplice rifiuto verso quelli che erano considerati oggetti dello “sviluppo” e non “soggetti” attivi.
Negli anni, a mano a mano che cresceva il “bisogno” delle nostre civiltà del nord di prodotti disponibili nel sud, la questione del prendersi quelle risorse naturali divenne sempre più importante. I vecchi metodi coloniali non potevano più essere usati, o almeno non più nella stessa maniera. L’obiettivo restava chiaramente lo stesso: spartirci fra di noi le cose degli altri che ci servivano, e poi trovare la giustificazione giusta per andarcele a prendere. La tela di fondo era che lasciare quel ben di Dio in mano ai locali (non più chiamati selvaggi, ma la sostanza era la stessa) era uno spreco che il mondo non poteva più permettersi. Non più solo oro, petrolio e altre materie prime antiche, tipo gomma, ma tutto l’ambaradam moderno per telefonini e batterie al litio. L’ideologia mercantilista neoliberale comincio a teorizzare che quelle terre lasciate così com’erano fossero un capitale morto. Un modo gentile per dire, ancora una volta: Ghe pensi mi!
Abbiamo assistito così a un numero crescente di tensioni, dispute e conflitti, sfociati in vere e proprie guerre che, da qualsiasi parte le si voglia guardare, restano delle battaglie per l’accaparramento e il controllo delle risorse naturali (terra, acqua, risorse genetiche e tutto quanto sta nel sottosuolo; negli ultimi anni si è aggiunto anche ciò che sta sopra, cioè l’aria pura). Non che baruffe e conflitti non esistessero anche prima, per carità. Tensioni, dispute e conflitti fanno parte dell’essere umano quindi non è immaginabile di “eliminare” i conflitti, ma riportarli a un livello gestibile dagli stessi attori. Invece gli interventi sia delle caste al potere (messe lì per soddisfare i nostri bisogni) che delle forze straniere, sia pubbliche che private, hanno avuto l’effetto di mettere un fiammifero acceso vicino a una polveriera. 
Dal nord al sud, da ovest a est, difficile trovare un paese che sia esente da conflitti di questo tipo. Cambia la scala e l’intensità, ma il tratto comune di questo secolo, cioè che unifica la terra tutta è proprio la questione dei conflitti crescenti. Le due mappe che ho messo qui danno una idea dei conflitti legati a ragioni religiose e quelli legati a problemi ambientali.


Siamo oramai in tanti a costatare che il patto sociale che teneva assieme popoli, istituzioni e stati si sta disgregando a velocità folle. La sola rete, il solo meccanismo che avevamo “inventato” storicamente per stare assieme, con i nostri interessi diversi, a volte opposti, si sta disgregando proprio quando ne avremmo maggior bisogno: più conflitti e meno “colla” che ci tenga assieme, risultante in un moto accelerato che rischiamo di non controllare più.
Chi mi segue su questo blog sa cosa io pensi della relazione tra i due. Per riassumere: sono convinto che dagli anni sessanta in poi si sia preparata la strada per un modello di crescita economica individuale, scevra da ogni controllo sociale, basata su regole da far west. Far soldi, tanti e subito, con qualsiasi metodo, togliendo di mezzo gli eventuali freni, tipo gli Stati e le loro istituzioni, il sistema di welfare e diritti e tutto il resto. Se vogliamo metterci una data ufficiale, eccola: Febbraio 1971, dichiarazione del Presidente Nixon che rompe la parità dollaro-oro. A questo seguì l’ondata neoliberale di Reagan e della Thatcher e le decisioni di Bush senior che aprirono la mercantilizzazione della natura con la No Net Loss policy.
Credo che, se siamo arrivati al punto attuale, con l’acqua che sta iniziando a bollire, questo non necessariamente sia il diabolico disegno di un Grande Vecchio (tipo le BR), ma il risultato logico e coerente di scelte di politica economica e politica tout court che sono state prese decenni orsono, soprattutto da chi aveva in mano il volante principale. Preme ricordare che, vedendo gli stessi meccanismi all’opera in Cina, non si tratta di un antimericanismo da quattro soldi. La febbre aveva e ha preso tutti quelli che stanno ai piani alti della governanza mondiale.
Il fatto che queste scelte abbiamo arricchito solo una parte minima della popolazione, non cambia il senso, anzi lo irrobustisce. La nostra classe media europea si è formata dalle lotte del dopoguerra e ha potuto cominciare a beneficiarne a partire da quello stesso periodo; proprio quando si cominciava già a erodere le sue basi da sotto, per portarci al nostro presente attuale. Un presente fatto di erosione di tutti i diritti conquistati, di precarizzazione del lavoro, di progressivo impoverimento di strati sempre più vasti della popolazione e di una degradazione accelerata delle risorse naturali.
Se invece di guardare a pezzetti, cercassimo di guardare l’insieme, non credo arriveremmo a posizioni molto diverse. Ci siamo persi per strada l’uomo come parte integrante del pianeta, come animale sociale, per lasciar filar via un uomo economicus forgiato sul principio del tutto a me e nulla agli altri.
Il punto diventa quindi di capire se esista una volontà di cominciare a pensare al come venirne fuori. Una volontà che vada al di là degli sforzi che possiamo fare a livello individuale e/o di piccola comunità. Una volontà che si materializzi ai piani alti della struttura di governanza di questo mondo.
E lì il dubbio, periodicamente, mi assale. Quando guardo con attenzione gli interventi che vengono fatti in casi di emergenza, di disastri creati dall’uomo e da conflitti, sento come un gusto amaro in bocca. Mi sembrano sempre trattamenti che toccano la superficie del problema, l’immediatezza del bisogno, ma che quasi mai scendono in profondità. Come se a nessuno interessasse realmente intervenire sulle cause dei problemi. Caso tipico riguarda le “ondate” di migranti: le nazioni unite parlano di 65 milioni di sfollati e rifugiati (e non ci sono dubbi che si tratti di numeri destinati a aumentare) https://www.unhcr.it/news/comunicati-stampa/newscomunicati-stampa3024-html.html 
L’abc di un mondo diverso dovrebbe essere quello di partire dal riconoscimento dei diritti storici che le comunità locali hanno sulle loro risorse naturali. Lo stesso meccanismo attraverso il quale si è formata la proprietà privata dalle nostre parti, insomma, niente di comunista. Riconoscere quei diritti, in modo da dire una verità semplice, ma che neghiamo nei fatti da parecchi decenni: che le comunità agricole e forestali del sud del mondo debbano essere considerate non più come oggetti, ma come soggetti. Soggetti attivi, con diritti e doveri, ma ai quali non si possono imporre scelte con la forza del cannone o del dio mercato. Soggetti che diventano parte attiva di meccanismi diversi, più dialogati e inclusivi, per le scelte che riguardano loro e il resto della comunità nazionale.
Questo, nella realtà, non succede quasi da nessuna parte. Abbiamo sperato che una piccola alleanza di fatto fra settori progressisti dentro le nazioni unite e dentro le organizzazioni contadine, permettesse l’emergere di questo tipo di dibattito. Porre le vere domande per cominciare a discutere la costruzione di scenari futuri. Non ci siamo riusciti, e l’impressione, sempre quell’amaro in bocca, è che il gusto del potere, pur se piccolo, abbia preso radici anche all’interno di quelle organizzazioni.
Dentro le nazioni unite esistono ovviamente tendenze diverse, e quelle dominanti non possono essere espressione di qualcosa di diverso da quello che gestisce il mondo. Quindi se i paesi individualmente non hanno voglia di riconoscere i diritti ancestrali delle popolazioni indigene o delle comunità locali, non ci si può stupire che le nazioni unite non lo facciano. Il consenso sul quale si basano le NNUU è sempre quello del minimo denominatore, non quello del massimo comune multiplo. Spingere dall’interno è sempre stata la mia scelta, spesso e volentieri solitaria. La speranza era di riuscire a far squadra con altri colleghi, dentro e fuori, con organizzazioni che, al di là degli interessi di bottega immediati, percepissero la necessità di aprire un cantiere più ambizioso. 
La mia speranza più grande è stata quando il Papa ha pubblicato l’enciclica Laudato Si. Un documento molto più progressista (nel suo insieme) di gran parte delle deliberazioni delle nazioni unite. Un documento che spingeva la base cattolica attraverso le sue organizzazioni, verso una rivoluzione culturale, dove accanto al Progetto Uomo, base delle filosofia cattolica, si installava, a pari grado, il Progetto Natura. La ricerca di un equilibrio, quella tensione verso l’alto poteva (potrebbe?) essere il possibile punto di partenza. Ma non se ne fa nulla. Anche le organizzazioni cattoliche italiane con cui sono in contatto da tempo, e alle quali ho offerto la mia disponibilità su questi temi, non sembrano affatto muoversi, sia nel preparare una propria capacità analitica al livello necessario, sia nel cominciare a sperimentare questo nuovo impeto sul terreno. Dentro la nostra agenzia, ma credo valga in maniera più ampia, il fatto che un documento del genere venga dalla Chiesa pone problemi, soprattutto a livello degli operativi che non vogliono sporcarsi le mani con attori che considerano più come un problema che come una risorsa.
E allora andiamo avanti: facciamo studi superficiali, continuiamo a portare aiuti alimentari, medicinali e quanto altro serva nell’immediatezza, ma restiamo fuori dalle questioni di fondo. In questo modo noi rubiamo ai popoli del sud anche il protagonismo sul loro futuro. 
Nessun conflitto negli ultimi decenni è finito e si è risolto in modo definitivo grazie alle nazioni unite. Ricordiamocelo bene. Gran parte di quelli che consideriamo risolti, hanno avuto protagonisti diversi. Sono pochissimi purtroppo anche quei casi lì, e questo dovrebbe farci riflette, ancora una volta, sulla volontà ai piani alti, di voler attaccare seriamente questo problema. Io oggi sono di luna storta, e le mie conclusioni sono che a chiacchiere siamo bravissimi, ma quando poi si tratta di metterci sul serio a lavorare, allora spariscono tutti. Peggio ancora, non appena qualche segnale comincia ad apparire, confermando che la nostra scelta di puntare su dialogo, negoziazione e concertazione si sta rivelando utile, allora arrivano in tanti a metterci il cappellino sopra. La solita vecchia storia: la vittoria ha tanti padri e la sconfitta uno solo. Peccato che in questo caso, la sconfitta riguardi tutti noi, perché se l’acqua bollente dei conflitti comincia a trasbordare fuori dalla pentola, ce la troviamo in giro anche per casa nostra. 




sabato 24 giugno 2017

UTOPÍA para un mundo sin hambre: una mirada desde el ángulo de los recursos naturales

UTOPÍA para un mundo sin hambre: una mirada desde el ángulo de los recursos naturales(1)

Ponencia presentada a invitación de la revista Le Monde Diplo-España, en Valencia, Diciembre de 2010
(repetita iuvant)

Introducción
Quería, antes que todo, agradecer los amigos de Le Monde Diplo para la oportunidad de volver a España a tocar temas tan sensibles y complicados, a partir de una visión utópica, tal como la definió Eduardo Galeano: Ella está en el horizonte [...]. Me acerco dos pasos, ella se aleja dos pasos. Camino diez pasos y el horizonte se corre diez pasos más allá. Por mucho que yo camine, nunca la alcanzaré. ¿Para que sirve la utopía? Para eso sirve: para caminar.(2)
Vengo para hablarle de un sueño, de algo que podía ser distinto y que, si logramos juntar fuerzas, un día podría cambiar de rumbo. Le hablaré de las raíces de la crisis del campesinado actual, del hambre creciente y de lo que se podría hacer para que nuestra lucha mejore de calidad. 

Trataré de ser bastante concreto, sin entrar en demasiado detalles, para concluir lanzando lo que yo y los colegas que conmigo han contribuido a forjar estas ideas, llamaremos un Llamado en contra del Lobby del Hambre.

Mi presentación se dividirá en tres partes: 

  1. Desde el sueño de la Autoridad Alimentaria Mundial hacia la historia como la conocemos: (casi) 1000 millones de hambrientos
  2. « Plaidoyer » para volver a soñar
  3. Conclusiones

1. Desde el sueño de una Autoridad Alimentaria Mundial 

La primera conferencia de las Naciones Unidas fue reunida, en 1943, en Estados Unidos bajo el tema: "La alimentación y la agricultura". Como comentario sintético, el historiador Marc Bloch, escribía, hacia el fin de ese año: "Una política mundial de la alimentación exige una cierta dosis de dirigismo económico. Este se opone a una libertad total de los intercambios internacionales". 

Estas ideas se tradujeron con la proposición del primer Director General de FAO, Sir Borr Oyd; su “sueño” era de crear una Autoridad Alimentaria Mundial que preveía: “la estabilización de los precios agrícolas, la gestión de una reserva alimentaria internacional, la financiación de la disponibilidad de excedentes agrícolas para destinarlos a los países desfavorecidos y la cooperación con organismos encargados de los créditos al desarrollo agrícola”. 

Otro aspecto novedoso en los debates constitutivos de la FAO fue aquel relativo a su posible gobernancia. Algunos proponían la participación de representantes de los productores y de los consumidores. Algo muy interesante hoy en día, a la luz del debate entorno a la cuestión de la gobernancia. Desafortunadamente, la propuesta fue rechazada en ese entonces...

Uno de los pocos elementos que fue aceptado al comienzo como carácter no interestatal del Consejo (compuesto por 9 a 15 personalidades independientes), tampoco duró mucho y en 1947 los miembros independientes fueron substituidos por delegados estatales, dejando solo la figura del Presidente como independiente, inerte, en recuerdo de la composición originaria. 

Fue así que murió la idea de crear la Autoridad Alimentaria Mundial, una institución con una visión de organizar a partir de bases no liberales el comercio internacional de los precios de los productos agrícolas para poder atacar a la base el problema de la malnutrición y del hambre en el mundo.

Esos años serán recordados también por la aparición de un libro destinado a marcar la historia: La geografía del hambre (1946) del brasileño Josué de Castro(3). De Castro, segundo Presidente Independiente del Consejo de FAO, fue una de las primeras personas en considerar la necesidad de ver al hambre como un problema político, social y ético, y no sólo como un fenómeno natural. Toda su vida luchó para transformar estos conocimientos en políticas y programas que atacasen estructuralmente estos problemas. Las resistencias fueron muchas, y por eso que, durante su discurso de despedida como Presidente Independiente, de Castro dijo que se sentía decepcionado con lo que había logrado durante sus años como Presidente. Dijo que no había sido lo suficientemente atrevido y se lamentó de que los países desarrollados no hubiesen ayudado a crear una política pública de seguridad alimentaria realista, que respondiera a las necesidades de los hambrientos a nivel global. 

¡Resumiendo! FAO podía ser una organización distinta, con poderes más fuertes para atacar estos temas que nos afectan a todos; hubo gente que luchó durante años, enseñándonos un camino de reflexión y acción. Sin embargo las presiones que tuvieron que enfrentar fueron más fuertes y el perímetro de la organización que salió de allí fue la que conocemos hoy en día.  Muchos critican la organización, sin embargo sería más correcto recordar que la inaptitud de FAO para resolver los problemas de fondo – cosa que le ha sido reprochada durante toda su historia, ha sido una decisión libre de los Estados que han contribuido a su creación desde la Conferencia de Hot Springs, y no una elección propia de la Organización(4).

El paradigma básico de la lucha en contra del hambre fue, durante muchas décadas, y seguramente hasta los años 90, que la seguridad alimentaria era igual que la auto subsistencia (food security equals food self-sufficiency)(5). Es en este contexto que el énfasis ha sido puesto durante muchos años en la cuestión de producir más y más. 

Lo que tenemos al frente, los grandes desafíos que todavía marcan la agenda mundial, pueden ser resumidos en: el aumento de la demanda de materias primas de origen agrícola con escasos recursos naturales; el incremento de la población y el acceso a los alimentos; y la relación de la agricultura con el medioambiente (erosión y degradación de los suelos, el cambio climático que contribuye a la deforestación, las prácticas agro-industriales, y la presión sobre el recurso agua.

Por eso hoy tenemos una oportunidad buena para abrir una discusión seria y poder repensar, profundamente, la forma misma como enfrentar este desafío. Por eso parece necesario, partir de un recordatorio histórico de lo que podía ser nuestra organización, de lo que, en cierta época se planteó, para ver si podemos repartir de bases más sólidas.

2.  “Plaidoyer » para volver a soñar

El mensaje importante de esta breve reseña histórica sobre FAO es que la lucha para enfrentar estos problemas de otra manera es una lucha legítima y posible, aún cuando parezca muy difícil.

Para poder soñar, es fundamental tener los pies en la tierra. Por eso la “construcción” de este “plaidoyer” necesita tocar unos puntos claves:

  1. Recordar como el hambre en el mundo tenga razones estructurales, dependientes del modelo de desarrollo que se ha escogido. 
  2. Recordar cuales son los determinantes futuros con los cuales debemos convivir
  3. Plantear algunos elementos para construir una teoría de un mundo mejor (en lo referente a los temas agrarios) 

a. El hambre como resultado de una diferenciación de los sistemas productivos y de una competición mundial sin protecciones.

“El hecho de que históricamente la cifra de personas desnutridas continúe incrementándose incluso en períodos de elevado crecimiento económico y precios relativamente bajos indica que el hambre es un problema estructural, según la FAO. Por lo tanto resulta evidente que el crecimiento económico, aunque esencial, no será suficiente para eliminar el hambre en un plazo de tiempo aceptable”.(6)

Elementos básicos:
  • la gran mayoría son pequeños productores sin titulo de propiedad (o de algún tipo de derecho), trabajan como peones (tenants) pagándole porcentajes muy altos (30-50%) en cantidad o valor de sus cosechas al propietario con el resultado de alimentar un circulo vicioso de pobreza estructural 
  • las mujeres campesinas, en muchos casos las verdaderas productoras de alimentos para la familia, no tienen derecho a la tierra, ni útiles, ni capital para invertir.
  • las políticas agrarias en muchos países es enfocada hacia la comercialización de gran escala agro industrial (y no a la seguridad alimentaria a nivel familiar y local) con una integración al  sistema de mercado libre dominado por unos pocos grandes exportadores y empresas agroalimentarias)
  • la investigación esta concentrada hacia la mejora de la productividad y ganancia del agro industria internacional y no al nivel de producción local 
  • la participación campesina en la toma de decisiones en temas de política agraria y desarrollo rural es mínima  

Los diferenciales de productividad llegan de 1 a 500 en producción neta(7). Esto significa que los agricultores del sur del mundo deben competir contra sistemas de producción que son infinitamente más productivos (además de tener a su lado políticas que los apoyan).

Los precios en los mercados mundiales se establecen a partir de pocos productos (que influencian a los demás) y de una parte muy pequeña de la producción (estimación: 10% para los cereales); la interconexión de los mercados hace que los precios establecidos a partir de los países/productores excedentarios (más capitalizados y más productivos) se apliquen también a la totalidad de los productores. 

Resultados: solo una ínfima minoría de productores puede mantenerse en esta competencia, mientras que la muy grande mayoría va perdiendo por causa de competencia desleal. 

Sin embargo, de los que están en la carrera, ocurren fenómenos crecientes de “expropiación” de su renta: concentración creciente hacia arriba y hacia abajo de los mercados de insumos y de venta en poquísimas manos. Esto redunda en un poder creciente de las firmas transnacionales con dos estrategias principales:

  • organizar directamente su propia producción (ejemplo: ganadería industrial de Cargill, primer negociador de granos en el mundo) o, en la mayoría de los casos, 
  • las firmas de arriba (semillas, químicos…) y de abajo (distribución) hacen contratos con los productores (familiares y no) a condiciones favorables solo para las firmas debido al control que tienen del mercado.

De esta manera les dejan a los productores la parte más arriesgada del ciclo productivo. Y esto explica porque las tendencias entre los precios pagados a los productores sean descendiente, mientras que los precios en los supermercados se mantengan elevados. 

A esto se le va sumando el tentativo de algunas grandes empresas de controlar toda la cadena, creando mega clusters entre ellas: el caso más conocido es el Cargill-Monsanto.(8)

b. Los determinantes futuros 

¿Cuáles son los determinantes con los cuales debemos convivir? 

  • Aumento de la población
  • Urbanización progresiva
  • Aumento del consumo y demanda energética (bio-combustibles)
  • Cambio de las dietas alimentarias
  • Cambios climáticos (se calcula que si las temperaturas medias aumentasen más de 2ºC, en muchos países en desarrollo la productividad agrícola total podría descender entre un 20 y un 40%.(9))  

La FAO dice que habrá que aumentar la producción de un 70% para responder a los desafíos mundiales de aquí al 2050. Nos deberíamos preguntar si realmente se necesitará producir más. Según la misma FAO existen alimentos más que suficientes para alimentar a la Humanidad, sin embargo los hambrientos no tienen acceso a los mismos. 

Segundo, suponiendo que algo se deba producir, donde se debería hacerlo y a partir de cual diagnóstico del problema? Si se tiene en cuenta que la mayor parte (70%) de la población hambrienta vive en zonas rurales, promover la producción ´in situ´ parece la más eficiente y quizás la única solución duradera.(10)

TIERRA Y AGUA: FACTORES PRODUCTIVOS CADA DIA MÁS LIMITADOS:

Las tierras degradadas aumentan y se reducen las tierras de alto valor agrícola: “only 3.5% of the land surface can be regarded to be entirely free of constraining factors”.(11)

Apostar sobre un aumento de las productividades de los mejores cultivos es poco juicioso: no solo las mejores tierras no aumentarán, sino también la evolución histórica de las últimas 3 décadas nos muestra una reducción progresiva del aumento de productividad.

En este escenario se inserta también la corrida hacia el acaparamiento de tierras que es cada día más preocupante: según las previsiones del Banco mundial este “Land Rush” no va a disminuir luego.

Mirando a la lámina que les estamos presentando es importante explicar lo que se entiende con la categoría agua: Escasez de agua desde el punto de vista económico (obstáculos ligados al capital humano, institucional y financiero que impiden el acceso al agua mismo que los recursos hídricos son disponibles a nivel local y podrían satisfacer las necesidades humanas). Los recursos hídricos son abundantes, y menos del 25% del agua fluvial es usada para satisfacer las necesidades del hombre (malnutrición presente).

Cuando miramos el mapa hacia el oriente y vemos la situación crítica de China e India, entendemos mejor el porque debemos empezar a preocuparnos(12). Y no es casual que la BBC haya lanzado recientemente un grito de alarma: “Water map shows billions at risk of 'water insecurity'”. (13)

El agua es principalmente usada por fines agrícolas; en Asia más del 80% (con puntas del 87%) se va para ese propósito. Esta es la otra cara del modelo agrícola dominante: gran consumidor de otro recurso potencialmente más limitado que las tierras. 

EROSIÓN BIOGENÉTICA:

De las 8000 esp. de plantas comestibles solo se usan unas 200.  Únicamente 12 son alimentos básicos importantes. 3 sp., Maíz, trigo y arroz representan el 60% de la producción mundial.

En los últimos cien años una tremenda pérdida de diversidad genética se ha producido dentro de la llamadas "principales especies alimentarias". Cientos de miles de heterogéneas variedades de plantas cultivadas durante generaciones han sido sustituidas por un pequeño número de modernas variedades comerciales que son a veces muy uniformes y vulnerables.

Sin embargo, podemos recordar que, a pesar de todo, estos cultivos continúan siendo cultivados. En época de crisis los cultivos marginados no se ven prácticamente afectados por la fluctuación de los precios y la especulación que se produce a nivel mundial en los principales cultivos comerciales. Los cultivos marginados se producen y consumen localmente y son por lo tanto, son de fácil acceso en las zonas rurales donde vive una gran parte de las personas que pasan hambre. Además, esos cultivos viajan menos, ahorrando dinero y energía en el transporte, contribuyen menos al cambio climático y necesitan menos intermediarios.

Por lo tanto, modificar radicalmente este modelo es necesario.

c. Elementos para construir una teoría de un mundo mejor (en lo referente a los temas agrarios(14))

Modificar profundamente el modelo actual significa trabajar para revertir un proceso de descapitalización histórica de las agriculturas familiares del mundo. Por eso que el primer paso es de proponer una serie de medidas para recapitalizar las agriculturas familiares de todo el mundo, con particular atención a las del Sur. 

Esta transferencia de poder adquisitivo en favor de las agriculturas familiares es necesaria y urgente para incrementar los ingresos de los agricultores sub equipados y devolverles la posibilidad de sobrevivir, invertir y desarrollarse; así frenando el éxodo rural, reduciendo la pobreza extrema y la desnutrición rurales y, al mismo tiempo, limitar el desempleo y la pobreza urbana.(15)

Esto pasa por un lado por un aumento progresivo, importante y prolongado de los precios de las mercancías agrícolas en los países en desarrollo. Significa también pensar, al igual que lo hizo la Unión Europea, establecer grandes áreas de librecambio agrícola integradas por países con productividades agrícolas similares y proteger estos “grandes mercados agrícolas” contra las importaciones de excedentes, a precios muy rebajados, mediante unos derechos de aduana ajustables, de manera que se obtengan unos precios internos estables y suficientes para que los agricultores menos productivos de las regiones menos favorecidas puedan vivir de su trabajo. 

Sin embargo, recapitalizar las agriculturas campesinas no es solo un proceso económico; significa también reconocer la necesidad de soluciones distintas en cada lugar y en cada momento histórico. No existen soluciones únicas, ni recetas universales. La situación y la historia de cada país, incluyendo su historia y su cultura, sus condiciones edafo-climáticas y socio-económicas, su grado y tipo de desarrollo, son distintos y por tanto distintas deben ser las soluciones a sus problemas agrícolas y alimentarios. 

La diversidad de sistemas agrícolas debe ser protegida e incentivada como un valor positivo y un importante amortiguador en época de cambios. Al igual hablamos también de biodiversidad: la cooperación internacional en esta materia no es una opción, sino una necesidad. Por lo tanto hay que (i) Situar la biodiversidad agrícola en el centro de la agenda  política; (ii) Reforzar la colaboración entre las entidades internacionales pertinentes y desarrollar programas y estrategias internacionales comunes sobre biodiversidad agrícola; (iii) Acelerar la aplicación a nivel nacional de las disposiciones de los acuerdos e instrumentos internacionales existentes relacionados con la biodiversidad agrícola

En los países en los que el empobrecimiento extremo y la desnutrición de un gran número de pequeños agricultores y empleados agrícolas se deben también a la falta de tierras y a unos salarios bajos impuestos por una minoría de grandes latifundios, esta reorganización de los intercambios agrícolas será evidentemente insuficiente. Se necesitará también una reforma agraria, así como una legislación sobre la tenencia de tierras que garantice el más amplio acceso a la tierra y la seguridad de la propiedad.

Finalmente, recapitalizar estas diversidades de culturas, de tecnologías, de saberes, de paisajes y de formas de ocupación, uso y manejo del espacio rural significa tomar una posición clara respecto a la necesidad de regular y desacelerar la producción de biocombustibles, especialmente aquellos de primera generación.

Para aplicar esta estrategia, es imprescindible que la temática agrícola salga del dominio de la OMC y vuelva a ser tratadas dentro de una (nueva) organización (o una organización renovada). 

3. Conclusiones 

Como lo decía J. de Castro: “Existe una necesidad urgente de proceder a una conversión del hombre, esto es, por una parte, a cambiar la mentalidad de poder y de dominio de algunos y, por otra, a crear una mentalidad henchida del gusto y del deseo del progreso, así como de la voluntad de acceder a los beneficios del verdadero desarrollo. En esta nueva óptica del desarrollo, son la enseñanza, la educación y la formación humana la que deben constituir la inversión previa, que será probablemente la más rentable”.(16) 

Es necesario volver a poner hombres y mujeres al centro del debate y de la acción. Al mismo tiempo, urge reafirmar la confianza que debemos conservar en la grandeza de la especie humana y su capacidad de enfrentar los nuevos desafíos y cambiamientos. Creer en nosotros para tener la fuerza de enfrentar estos desafíos. Este es el primer paso.

La necesaria movilización de los actores sociales: es cierto que, si miramos hacia atrás, en los últimos 20 años hemos tenido un aumento considerable del nombre de organizaciones que han entrado en la arena mundial para defender campesinos/as, pastores, comunidades indígenas, productores forestales, pescadores artesanales etc. Se han realizados esfuerzos hacia una mejor coordinación y hay diálogos abiertos sobre como reforzar sus capacidades (tanto organizativas, como operacionales). 

Pero esto no es suficiente. El nivel de complejidad de los problemas, junto con el número de actores presentes y los esfuerzos que son colocados por el lado de los defensores del modelo actual, llama a un esfuerzo mucho más fuerte en cuanto se refiera a juntar fuerzas. Es imprescindible que las distintas redes de organizaciones hagan un esfuerzo adicional de modestia y de aceptar las diversidades de opciones que cada uno representa en función de su propia visión y grupos que está defendiendo, de manera a lograr una plataforma de acción mínima que permita tener una capacidad de negociación mucho más fuerte que la actual.

Seguir privilegiando visiones parciales e intereses locales, aún cuando legítimos, solo permitirá de mantener una presencia simbólica que, mismo cuando pueda atraer la atención de la opinión pública por un momento, no será suficiente para mantener la presión necesaria para enfrentar luchas que serán de larga duración.

Dentro de nuestras organizaciones también tenemos que trabajar. Divide et Impera parece ser la palabra de orden: demasiadas instituciones, que operan por su cuenta, rindiéndole cuentas a distintos ministerios. Cuanto más parecería evidente la necesidad de integración, de tener un único foro intergubernamental dentro del sistema de Naciones Unidas el que tenga poder normativo y de toma de decisiones sobre el sistema alimentario mundial, cuanto meno se avanza en esta dirección. El último ejemplo nos viene de la desconexión entre los foros internacionales de formulación de políticas alimentarias (el Grupo de Trabajo de Alto Nivel de Naciones Unidas y el Comité de Seguridad Alimentaria Mundial-CSA) y la reciente asignación de responsabilidades al Banco Mundial para que establezca en el contexto de la actual crisis alimentaria un fondo multilateral de lucha contra el hambre que estaría dotado de 20.000 millones de dólares. Estas divisiones no son casuales; cuanto más dividido el frente de los que deberían luchar, cuanto más fácil mantener el control bajo los organismos financieros, que son los que dictan el rumbo. 

Es por eso que, para luchar contra todo eso, debemos pasar a ser partes activas en lo que sea posible de nuestra vida personal y profesional. Así como les he hablado de algunos hombres del pasado, quiero aquí recordar un hombre de hoy: un español, del cual tengo la honra de considerarme amigo: José Esquinas-Alcázar. A él se debe en buena parte la firma en 1983 del Compromiso Internacional de Recursos Genéticos, y en 2001 el Tratado Internacional sobre Recursos Fitogenéticos para la Alimentación y la Agricultura redactado en el ámbito de la Conferencia de la FAO. Han sido dos instrumentos fundamentales para afrontar a escala casi mundial el grave asunto de la biodiversidad. La acción de un hombre ha demostrado que a veces se pueden cambiar rumbos que parecen ya diseñados. 

Hay mucho que hacer, pero este depende también de cada uno de nosotros y nosotras. Debemos aprender a ocupar espacios de poder, entrar en las instituciones y subir en los lugares de mando. Criticar de afuera no será suficiente y aún meno continuar con gritos separados en un desierto donde las fuerzas que se oponen, una verdadera lobby, son cada día más organizadas.

Por eso que quiero terminar aquí, con un llamado a juntar esfuerzos para luchar en contra de una “lobby del hambre” que cada día demuestra una capacidad impresionante de definir el rumbo de las políticas(17), de las acciones de los gobiernos; que tiene la fuerza para comprar consenso o para evitar el disenso(18) y frente a la cual parece casi imposible poder luchar. Sin embargo, así como hemos logrado volver a poner el tema de la reforma agraria en la agenda internacional, con la Conferencia realizada en marzo de 2006 en Brasil, así como muchos movimientos han logrado resultados en temas importantes (el reconocimiento del agua como un derecho – votado por Naciones Unidas(19), la nueva política de FAO hacia los pueblos indígenas), existen esperanzas concretas que algo se pueda mover. 

Trabajemos juntos a una agenda de propuestas concretas que, en el respeto de cada uno, logren catalizar fuerzas. No son sueños, sino alimentos para que los sueños se vuelvan realidad.

Quiero terminar volviendo a la idea de Utopía citando una pintada que alguien estampó en una calle de Montevideo (Uruguay) que dice: “La Utopía solo cuesta un poquito más”.

Gracias.

Notas
(1)Texto preparado principalmente por Paolo Groppo, con participaciones de: Carolina Cenerini, Gérard Ciparisse, Wim Polman, Guido Santini, Alvaro Toledo, Daniele Volpe, Francisco Carranza y Txaran Basterretxea; se agradecen los “emprestamos” de ideas y sugerencias de Marcel Mazoyer y José Esquinas. Las opiniones expresadas son a título personal y no representan las de FAO
(2) Galeano, E. 1993. Las Palabras andantes, Siglo XXI, Madrid
(3) De Castro, J., 1946. La geografìa del hambre, Rio de Janeiro
(4) Marchisio S.; Di Blase A. 1986. L’Organisation des Nations Unies pour l’Alimentation et l’Agriculture (FAO). IUED/SIOI, Genève, Rome
(5) FAO stayed highly committed into the 1990s to the notion that increasing food production was a sufficient condition for food security. The initiation of the Special Programme for Food Security (SPFS) in 1995 was focused on projects at the national level to increase agricultural production. Some early adjustments were made. But only after a critical external evaluation30 in 2002 did the vocabulary, if not the substance, of the programme change. FAO-IEE p. 61
(6) FAO Centro de Prensa. 2010: http://www.fao.org/news/story/es/item/45291/icode/
(7) Mazoyer, M. 2001. Defendiendo al campesinado en un contexto de globalización, FAO http://www.fao.org/worldfoodsummit/msd/Y1743s.pdf
(8) Un ejemplo es lo del pollo: el noventa por ciento de la producción en EEUU se realiza en una cadena integrada verticalmente, donde la empresa contrata al productor avícola y le provee con todo – pollitos, alimentos, servicios veterinarios, vacunas—y al final, compra los pollos
(10) La FAO en su reciente informe ´Los caminos hacia el éxito´ (Nov. 2009) (pdf en inglés: http://www.fao.org/fileadmin/user_upload/newsroom/docs/pathways.pdf ) señala que una de las mejores y más rentables vías para salir de la pobreza y el hambre en el medio rural es apoyar a los pequeños campesinos.
(11) FAO. 2002. Agro Ecological Zoning, p.67
(12) http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2010/09/17/venti-milioni-senz-acqua-la-grande-sete.html
(13) http://www.bbc.co.uk/news/science-environment-11435522
(14) Reconocemos aquí nuestra deuda hacía la visión iluminante del Prof. M. Mazoyer, en su documento: Defendiendo, op. cit.
(15) Es importante recordar como los subsidios actuales de la Unión europea vayan en su gran mayoría a los grandes productores: 80% del total va a un 20% de las explotaciones. Esto para decir que políticas de apoyo a los ingresos agrícolas no son cosas nuevas; son parte estructural del montaje de la unión europea por parte de gobiernos liberales, lo que demuestra que, si hay conciencia del problema y voluntad, se puede hacer.
(16) De Castro J., 1951. Geopolítica del Hambre
(17) véase el artículo de Agnès Sinaí: La nueva estrategia mundial de Monsanto, Le Monde Diplo, Número 25 - Julio 2001 http://www.insumisos.com/diplo/NODE/2872.HTM
(18) véase la campaña de la BP para “comprar” departamentos universitarios para evitar que puedan hacer investigaciones libres sobre los daños del pozo Deep Water en Luisiana (….)
(19) http://www.un.org/News/Press/docs/2010/ga10967.doc.htm