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domenica 26 febbraio 2017

Riflessioni dopo aver letto Congo


L’autore, parlando della politica dell’amministrazione Clinton nei confronti del Congo di Kabila, scrive:

Il cinismo con cui il governo Clinton voleva rompere col passato lasciò campo a un nuovo genere di cinismo: umanitario nelle intenzioni, estremamente ingenuo nelle analisi, e di conseguenza disastroso nei risultati.

Dopo aver speso oltre trent’anni in questo mondo detto della “cooperazione all sviluppo”, un’affermazione del genere mi verrebbe voglia di estenderla paro paro a molti degli attori che infestano questo mondo. Non contesto ovviamente la bontà delle intenzioni, la voglia di darsi agli altri per fare “qualcosa” di utile. Quello che mi ha fatto pena in tutto questo tempo è stato il vedere sia l’impreparatezza di tanti “specialisti”, “cooperanti” o “esperti”, che la loro ignoranza, mancanza di curiosità verso delle realtà diverse e già pre-giudicate prima di intervenire. Il trasporre ideologie di cui non si rendevano nemmeno conto, parole d’ordine imposte più o meno velatamente sempre dagli stessi poteri del nord.

Il libro Congo è stato come ripercorrere le ferite che mi hanno angustiato in questi anni. Ritrovare quel cinismo del XIX secolo quando almeno era chiaro che le uniche cose che interessavano a noi del Nord erano le risorse di quelli del Sud, risorse naturali, da prendere in qualsiasi modo, e negando qualsiasi ruolo a quelle stesse popolazioni nel determinare il proprio futuro.

Cent’anni e oltre di guerra, un paese distrutto ma non interessa più a nessuno, tanto in modo legale o illegale le sue materie prime arrivano da noi. Che siano i diamanti, il legname, il cobalto o il tanto ricercato coltan per i nostri telefonini (80% delle riserve mondiali stanno lì sotto, nel Congo detto “democratico”), queste sono le cose che ci servono. Le piccole guerre locali, fomentate dal Ruanda e dall’Uganda, e da un’infinità di gruppuscoli locali che lottano per controllare miniere dove manderanno bambini morti di fame… Di quello non ci interessa più nulla, ma forse è addirittura meglio così se pensiamo che gli interventi precedenti dei Belgi, Francesi, Olandesi in quella parte dell’Africa detta dei Grandi Laghi hanno servito ad aiutare generosi come quello del Ruanda dal quale non siamo ancora usciti.

La triade delle intenzioni umanitarie, analisi scadenti e risultati disastrosi è ancora la parte positiva della cooperazione, perché poi arrivano quelli delle istituzioni finanziarie, FMI e Banca Mondiale, il cui cinismo, associato a un’arroganza senza fine, una ignoranza e un disinteresse totale per le conseguenze sociali dei loro programmi sono senza pari. Dalle mie parti si diceva spesso: i migliori hanno la rogna… ecco a cosa è ridotto il mondo della cooperazione.. i francesi, al solito più cinici nel loro umorismo, hanno modificato leggermente l’aggettivo terzomondismo che da loro equivale alla nostra cooperazione: terzomondismo che viene, come si capisce, da Terzo Mondo. Adesso dicono, un terzo monismo (un Tiers - mondiale) e un terzo mondano (Tiers - mondain), 

Congo sarà il mio libro dell’anno perché bisogna ricordare il passato, soprattutto quando questo passato, come nel caso del Congo, è il precursore probabile del nostro futuro: 
“La violenza etnica nell’Ituri (l’autore parla di una delle regioni del Congo dove una decina d’anni fa era ristoppiata una guerra interna, una delle tante non ancora finite) non era atavismo, né un riflesso primitivo, ma la logica  conseguenza della mancanza di terre in un’economia di guerra al servizio della globalizzazione - e in tal senso annunciatrice di ciò che attende un pianeta sovrappopolato. Il Congo non è in ritardo sulla Storia, è un precursore”.


Non potrei non essere più d’accordo con l’autore. Rileggete post precedenti sull’avvento della Terza Guerra dove da tempo sviluppo questi stessi argomenti. 

ricordo qui sotto la copertina del libro che invito tutti a leggere

2017 L7: David Van Reybrouck - Congo


Feltrinelli 2015

Si parte dal gigantesco estuario del fiume Congo, come i colonizzatori, i missionari, i bianchi hanno sempre fatto. Un getto possente di detriti, terra, alberi che trasforma l’oceano in un brodo torbido per centinaia di chilometri: “Le immagini del satellite lo mostrano chiaramente: una macchia brunastra che, durante il picco della stagione dei monsoni, si estende verso ovest per ottocento chilometri. Quando ho visto per la prima volta delle fotografie aeree mi è venuta in mente una persona che si era tagliata i polsi e li teneva sotto l’acqua – ma per sempre. Così, quindi, comincia un paese: diluito in una grande quantità di acqua di oceano”. E poi, attraverso centinaia di interviste con congolesi di tutte le età e le etnie, attraverso lo studio della storia, dell’archeologia, della geografia e della climatologia, attraverso una scrittura tersa e coinvolgente, si parte alla scoperta di un paese, di un popolo, di un continente. Dai primi insediamenti preistorici agli orrori della dominazione coloniale belga, dall’indipendenza alle guerre civili, attraverso giungle e città, montagne di ghiacciai perenni e pianure rigogliose, miniere di ogni possibile minerale prezioso e una natura ricchissima e incontaminata, un libro che davvero restituisce un mondo. Un fulminante bestseller in patria, tradotto in tutte le lingue maggiori, che ha vinto numerosi premi, rinnovando il fascino eterno dell’Africa nera e la capacità di raccontare il mondo del miglior giornalismo di reportage.

Il libro dell'anno, senza al con dubbio!!!

giovedì 23 febbraio 2017

Where have our dreams gone?


Una dedica particolare a 5 amici di vecchia o vecchissima data: Massimo Schiavotto e Mauro Vinchesi, dai tempi del Canova, Roberto de Marchi dall’epoca universitaria, Giuseppe “Patty” Chiò, dall’epoca dell’Angola e Walter de Oliveira con cui condivido una quindicina d’anni, credo, di comune lavoro, dopo aver scoperto di aver frequentato la stessa università e gli stessi professori molti anni prima. Un pensiero anche a Elisabetta che proprio stamattina mi chiedeva a cosa mi servisse questo Blog. Ecco, adesso hai la risposta, a mettere sfoghi e riflessioni da condividere.
In comune, una passione per la politica, non necessariamente partitica, e un impegno verso gli altri presente fino ad oggi nel loro lavoro, riflessioni e quant’altro.
Eravamo giovani allora, scoprivamo la politica con la coscienza (limitata) che potevi arrivando alle superiori. Massimo era più dentro l’organizzazione partitica, noi fuori, oserei dire più liberi di movimenti e pensieri, ma chissà poi se era vero.
Sognavamo in qualche modo un mondo diverso, più giusto, cercavamo ovviamente di capire il nostro posto dentro questo mondo sognato mentre vivevamo in mezzo ad un altro, quello vero. Non sognavamo la Russia e nemmeno Cuba, le esperienze dei fratelli maggiori ci avevano vaccinato contro queste influenze; ci piacevano i jeans americani anche se per i Lewis io ho dovuto aspettare ancora anni, all’epoca andavo avanti con y Roy Rogers, ma tant’è. L’America ce l’avevamo li vicina, grazie al nostro amico Alberto Z. e alla sorella che si faceva fotografare in posa plastica sul Giornale di Vicenza.
Crescendo le strade si sono differenziate, ci siamo persi di vista con alcuni, incontrati nuovi compagni di strada ed oggi siamo tutti qui a riflettere su questo mondo, dove sta andando e noi, sempre lì a chiederci cosa ci facciamo e quale sia il nostro posto e ruolo.
Io posso dire la mia, magari cosi stimolerò anche loro a voler scrivere qualcosa, non si sa mai. Il sogno restava presente, anche se la sua materializzazione era difficile. Ovviamente era più facile essere contro qualcosa che a favore di un qualcos’altro che non trovava contorni chiari.
Per me fu il Nicaragua a cambiarmi la vita. Un viaggio iniziatico breve, sufficiente per far battere forte il cuore ed innamorarmi di una rivoluzione che sembrava molto pacata nella sua espressione governativa. Facce giovani, aperte al dialogo e tese a ricercare il benessere del proprio popolo. Ricordo ancora quando vidi passare la carovana presidenziale, con Daniel Ortega presidente, a Matagalpa, agosto del 1983, con lui che guidava, finestrino aperto e braccio mezzo fuori, tanta era la sicurezza di sentirsi amato dal proprio popolo. Poi Ortega è diventato quello che è diventato, fra lui e la moglie è difficile capire chi comandi sul serio, ma non si tratta di una vittoria dell’uguaglianza di genere, ma di una sconfitta della libertà e della democrazia. 
In casa nostra morivano i partiti di ieri e dell’altro ieri, nasceva l’Ulivo e io mi ci ritrovai dentro quel sogno del Mortadella che voleva far cambiare l’Italia in modo progressivo senza strappi troppo forti.
Ognuno si porta dietro la propria storia, la mia è fatta di quelle passioni, ragionevoli, senza troppe rivoluzioni. Il cuore da giovane andava con Democrazia Proletaria, ma la ragione diceva che il potere va conquistato e cambiato dal didentro, col rischio, fortissimo, che sia il potere a cambiare te.
Arrivarono i sogni latinoamericani più recenti, ed ancora una volta si tratto di decidere da che parte stare: con Chavez o con Lagos/Bachelet in Cile? Con Kirchner o con Lula, con Lugo o con Ortega?
La stella polare era rimasta la stessa: da un lato studiare per capire dove andasse il mondo e come indirizzare il mio piccolo sforzo quotidiano, dall’altro seguire le esperienze “progressiste” per capire il livello di coerenza fra promesse e realizzazioni.
Ecco perché questi paesi ho cercato di seguirli ancor più da vicino, grazie a tutte le opportunità avute in questi anni. Molti di noi avranno avuto il cuore che gli batteva forte quando Ricardo Lagos, primo socialista dopo Salvador Allende, entrava al palazzo presidenziale in Cile. E ancor di più al vedere come dopo di lui una donna, Michelle Bachelet, entrava in quel covo machista che era la politica cilena per guidare il paese.
Chavez lo prendemmo subito con le pinze e, una volta capito chi fosse il personaggio e soprattutto cosa stava facendo e come, in particolare nel settore agrario, con l’apoteosi dell’ignoranza fatta politica, l’avversione è stata totale e definitiva, continuatasi al giorno d’oggi con l’epigono autista di autobus che ha preso il suo posto.
Il caso argentino è sempre stato nel sottofondo, ma come non ricordare che fu il presidente Kirchner a riaprire i processi contro la dittatura militare e a mandarne un bel po’ in prigione. Voleva fare i conti col passato, cosa che da noi in Italia, e in Europa, si è preferito chiudere in fretta e furia, ritrovandoci i fascisti vicini a tornare al potere in non pochi paesi europei.
Tra Lugo e Lula la scelta ‘e stata difficile. Lula mi sembrava la persona giusta: un paese che soffriva di disuguaglianze feroci a partire dalla base produttiva agricola, tramutatesi in una società classista e razzista, le promesse e l’appoggio politico delle classi popolari in favore di una riforma agraria vera avevano fatto sperare bene.
Vista dall’angolo del Presidente del Paraguay Lugo, col quale ho avuto l’occasione di lavorare personalmente a lungo, Lula aveva cominciato a perdere molti punti: l’assoluta mancanza di volontà di discutere la spartizione delle royalties generati dalla centrale di Itaipu, che lasciava al Paraguay neanche le briciole di un tesoro che Lula si teneva ben stretto, cominciarono a farmi pensare che qualcosa non andava.
La riforma agraria non si fece mai, Lula accarezzo il capitale finanziario fino a farlo sentire contentissimo di avere lui come presidente, e si limito a spartire i frutti di una crescita che dipendeva solo e unicamente dagli alti prezzi delle materie prime. Tutta la politica pubblica espansiva fatta i quegli anni, per eliminare la fame, migliorare la salute e l’educazione.. tutte cose bellissime, ma che si reggevano su un castello di carta. E’ stato sufficiente che i prezzi scendessero, per mettere in evidenza tutte le lacune e, una volta ancora, chi ha cominciato a pagare il prezzo, sono state quelle classi povere e medie che si erano illuse di essere uscite dal loro status anteriore. Adesso la destra ha ripreso il potere, in modo sgangherato, ma dati i chiari di luna la cosa più probabile è che la povertà torni a crescere in Brasile e, se il partito di Lula ha fortuna, ne daranno la colpa alla destra e non a chi, avendone avuto il comando per 13 lunghi anni, non ha nemmeno provato a cambiare il modello economico. Anzi, stando alle inchieste in corso e alla tante condanne di leaders del partito di Lula, l’impressione che si siano adattati benissimo al mondo delle bustarelle e delle amicizie ne esce rafforzata.
Finiti quei sogni, non ne è rimasto uno in piedi. Nemmeno la Bachelet è esente da scandali in questo periodo. Siamo di nuovo con le gomme a terra. Ma con la costatazione che oramai la “gente” non si lascia più abbindolare e comincia a reagire. Reazioni indiscriminate, senza testa se vogliamo, da noi o altrove, ma qualcosa si muove sotto. Chi vuol continuare a far politica dimenticandosi di chi sta sotto, rischia sorprese grosse negli anni a venire.
Io guardo l’Italia da lontano, in questi giorni mi sembra di essere su Plutone e seguire gli incredibili dibattiti sui giornali italiani come una cosa che riguarda un circolo di pazzi. Il mio è un mondo fatto di violenze crescenti contro le classi più povere, di bombe, attentati e quant’altro a ogni pie sospinto, qui in Asia come in Africa. Il turbocapitalismo distrugge posti di lavoro a ritmi sfrenati e noi discutiamo delle beghe interne al PD o di Grillo e/o quell’altra ridicola sindaca romana. Il nostro ex-leader va in California, a vedere il futuro dice lui. Ma il futuro immediato ce l’abbiamo davanti casa ed è fatto di migliaia di poveracci che diventeranno milioni a passare il mare ed arrivare da noi. New volgiamo parlare? Nemmeno gli appelli del Papa che cerca di ricordare come oramai siamo in guerra, sembra riescano ad attirare l’attenzione di qualcuno.
Non fumo, ma se lo facessi, dopo essermi riletto, mi direi: ma cosa ti sei fumato?

mercoledì 22 febbraio 2017

La battaglia di Mosul e un warning che continuo a ripetere


Quasi tutti i giorni riceviamo notizie riguardanti la battaglia di Mosul in Iraq. Decine di migliaia di rifugiati, un numero che si sta avvicinando ai centomila e in continua crescita. La speranza che si tratti di una battaglia veloce non è mai esistita, fin da subito si sapeva che ci sarebbero voluti parecchi mesi per riconquistare la città e che quindi il problema dei profughi si sarebbe posto in maniera allarmante. Da parecchi mesi le nazioni unite, in contatto con parecchi donatori, si preparavano agli aiuti da portare in questa emergenza. 
Nuovi campi profughi vengono aperti per dare un sollievo a popolazioni sfinite. Il nuovo segretario generale delle NNUU vuole fare di questa operazione un esempio di come le varie agenzie lavorano bene, velocemente e con risultati sostenibili. Totalmente d’accordo. E proprio per questa ragione da tempo sto cercando di allertare i colleghi che lavorano in zona su un problema del quale non si sente parlare ma che potrebbe avere effetti sul medio-lungo termine. Parlo della questione delle terre dove i campi dei rifugiati sono creati. 
Nella mia vita lavorativa non mi è ancora capitato di trovare un caso dove, prima di decidere se installare un campo profughi, venga fatta un’analisi con gli aventi diritto locali, siano essi diritti formali o informali, e poi una negoziazione sia avviata con loro in modo da ottenere una certa sicurezza rispetto al luogo. Casi del genere devono sicuramente esistere, anche se la mia impressione è che preferisca saltare questo passaggio in nome della famosa “emergenza”. Sulla sacia delle esperienze italiane dove con le procedure d’urgenza sono saltati tutti i controlli e si sono aperte le falle per lasciar spazio a personaggi molto dubbiosi, la mia paura è che anche in questi casi le terre dove installare i campi non siano mai oggetto di una rigorosa analisi. Nel caso specifico di Mosul, una alta responsabile del HCR (agenzia Onu per i rifugiati) ha dichiarato pochi giorni fa su Al Jazeera che negoziare con i “proprietari” di queste terre è una procedura lunga (time-consuming). Nel gergo emergenziale, questa frase va interpretata con: non abbiamo tempo da perdere!
Che la situazione in Iraq sia complicata lo sanno anche i bambini ma, come diceva il mio vecchio Professore parigino: dobbiamo sapere a cosa stiamo giocando! Se togliamo delle terre ad aventi diritto per il solo fatto che non abbiamo tempo da perdere, ricordiamoci che questo significa creare nuovo rancore, addizionale, in una zona dove per molto meno hanno preso le armi.

Io ci provo, ma finora non mi ascoltano. Ecco perché ho deciso di scrivere questo blog a futura memoria. Soluzioni, quando si vuole, se ne trovano sempre, soprattutto quando i preparativi della battaglia erano noti da parecchi mesi così come la questione dei profughi, per cui le negoziazioni sulla installazione dei campi potevano iniziare subito, guadagnando tempo prezioso. Chiudo con la speranza di essermi sbagliato e che questo blog sia una allerta inutile.

martedì 21 febbraio 2017

Chiang Mai: haiku de Christiane

l



les fougères vertes sous le toit


pleurent des larmes vertes qu'on ne voit pas

sabato 18 febbraio 2017

2017 L6: Mario Vargas Llosa - Eloge de la marâtre


Folio Gallimard, 1988

Don Rigoberto découvre le plaisir des sens entre les bras de doña Lucrecia, sa seconde épouse. Mais il a un rival en la personne de son propre fils, Alfonsito, qui, avec une blonde, enfantine et désarmante perversité, séduit sa marâtre. Mieux encore, il en fait l'éloge par écrit, en guise de composition à sujet libre, qu'il donne à lire à son père. Rien n'est occulté de cet éveil des sens, de ce débridement audacieux, de cette plongée orgastique. Dressant un malicieux catalogue de la luxure, Mario Vargas Llosa, sans s'écarter vraiment de la galerie de ses personnages habituels, avec ironie et truculence, réinvente le roman érotique. 

Sembra che sia piaciuto a molti, io invece resto perplesso davanti a una storia che sembra evocare fantasmi dell'autore principalmente. Ho letto di meglio di MVL che considero uno dei miei favoriti.

mercoledì 15 febbraio 2017

Recette salade de boeuf thai à la citronelle


quindi, noi andiamo a vivere a Bangkok e chi fa la cucina Thai? Charlotte...

Ingrédients pour 2 personnes

300 gr de boeuf (steack)
1 citron vert
1 bouquet de coriandre
1 bouquet de basilic thai
1 bouquet de menthe
du gingembre frais
1 baton de citronelle
de la sauce soja
de la sauce nuoc mam
de l'huile
2 carottes
100 gr de pousses de soja (haricots mungo)
De la laitue 
1 piment thai
des cachouètes
1/2 oignon blanc
1 gousse d'ail

Préparation

Faire mariner au moins 6h à l'avance la viande coupée en fine lamelle avec le jus et les zestes d'un citron vert, la sauce soja et 3/4 d'un baton de citronelle coupé de tranche et du gingembre frais, réservez au frais.

Coupez en fin batonnets les carottes et hachez toutes les erbes aromates ainsi que le bout restant du baton de citronnelle.

Mixer les cacahouètes. 
Faire cuire avec de l'huile d'olive dans un wok l'oignon, l'ail, les carottes, les cacahouètes et la viande avec sa marinade. Laissez refroidir.

Dans un saladier mettez tous vos ingrédients ainsi que la viande et les erbes hachées.

Asaisonnez avec de la sauce nuoc mam, huile d'olive, le piment. Ajustez si nécessaire. 

-- 
Charlotte Groppo

lunedì 13 febbraio 2017

Dieci virtù reali da rispettare



















Approfittando di una giornata festiva di cui non sappiamo la ragione, siamo andati a visitare il Palazzo Reale, uno dei posti che nessun turista oserebbe mancare.

Devo ammettere che ci andavo un po’ di controvoglia, dicendomi che tra la vita di palazzo e la quotidianità dei bangocchini c’è un abisso come tra la vita di Trump e di quelli che l’hanno votato. 

Ma alla fine mi sono lasciato prendere dal gioco e dall’estetica dei luoghi. La folla non era nemmeno troppo numerosa e la temperatura abbastanza clemente per cui alla fine la somma è positiva.

Le foto che metto qui sono state prese velocemente, senza nessun lavoro di post-produzione; piccoli attimi per non farsi sfuggire un sentimento di beltà, tutto qui.

Alla fine siamo anche riusciti a trovare una guida dei luoghi in francese e alla lettura del testo di accompagnamento non ho potuto esimermi dal pensare quanto le dieci virtù reali che il sovrano è tenuto a rispettare farebbero bella mostra anche da noi, per cui invito il nostro management a prendere in seria considerazione la possibilità di inspirarsi a loro:

DANAM: la generosità
SILAM: il comportarsi bene
PARICCAGAM: il sacrificio personale tanto materiale che spirituale 
AJJAVAM: l’onestà e l’assenza di pretese
MADDAVAM: la dolcezza e l’umiltà
TAPAM: la concentrazione e lo sforzo
AKKODHAM: l’assenza di collera
AVIHIMSA: l’assenza di crudeltà
KHANTI: la pazienza e
AVIRODHANAM: il controllo di fronte a delle cattive azioni.


Pensate a quanto sarebbe bello lavorare con una squadra retta da queste virtù cardinali. Vabbè, direte voi, sognare non costa nulla. Certo, però nulla impedisce di proporre che nelle elezioni future al posto di direttore generale esista anche un codice morale, ispirato a virtù come queste, che debba aggiungersi ai principi generali già esistenti. Immaginate il discorso annuale dove oltre a rivendicare i risultati ottenuti, venisse fatto il bilancio attorno questi principi. Ci vorranno anni sicuramente, ma io sogno il giorno quando un potente arriverà a dire: Scusatemi, mi sono comportato poco generosamente, ho avuto troppe pretese e non sono mai stato abbastanza umile; poco paziente e collerico, non ho ascoltato chi mi dava consigli spassionati e quindi credo sia giunto il momento di rimettere il mio mandato.

domenica 12 febbraio 2017

911


Il numero delle urgenze quando sei negli Stati Uniti, oramai simbolo mondiale delle chiamate d’emergenza.
Vedo passare reportages sul Nicaragua, i tagliatori di canna da zucchero della monopolista Pellas (la proprietaria del rum Flor de Canha) che muoiono come mosche a causa di una malattia, l’insufficienza renale cronica) dovuta ai prodotti chimici sparsi nella produzione. Sono migliaia, ma non interessano a nessuno, non di certo alla compagnia privata, men che meno al governo e nemmeno ai tanti operatori dello sviluppo. Cambio programma e mi ritrovo ai confini tra il Pakistan e l’Afghanistan, anche lì migliaia di rifugiati afgani rispediti a casa senza niente, e che cercano di ricostruirsi una vita a Kabul. Solo l’HCR sembra presente per aiutarli, almeno per dar loro quattro soldi per provare a installarsi. La polizia di Kabul li vuol cacciare dalle terre invase ai margini della città dove cercano di costruirsi una misera capanna in zone aride. Fanno anche loro parte dei tanti dimenticati. Giro allora sul confine del Messico col Texas. Una iniziativa lodevole per cercare di dare un nome alle migliaia di morti ritrovati alla frontiera nel vano tentativo di rincorrere un sogno di una vita migliore. 

Sempre la stessa storia. Nella lista dei programmi già visti in questi gironi, i pulitori di cessi indiani, gran parte donne, i senza patria del Myanmar e poi una lunga fila di tanti altri reportages da ogni parte del mondo. Fame, povertà, perdita di identità, violenze di ogni tipo che ti fanno oscillare tra la voglia di non guardare più e invece il bisogno di ricordarsi sempre e ancora di più di cosa sia questo mondo in cui viviamo e quale era il compito immane attribuito alle nazioni unite e alle sue agenzie tecniche. 

Avendo avuto il privilegio di lavorarci per quasi trent’anni ho potuto osservare da abbastanza vicino  la traiettoria discendente che ci ha portato ai livelli attuali. Da piccolo ricordo ancora quando si parlava delle nazioni unite e subito veniva un pensiero di rispetto (o forse ero io che me lo sognavo, essendo piccolino).Poi ci sono andato a lavorare, ed ho conosciuto una vecchia generazione di colleghi che passavano gran parte del loro tempo a seguire progetti sul terreno, e che sempre ti parlavano di quello che stavano facendo, con una foga che ti faceva sentire voglioso di far parte di quella squadra. Gli anni sono passati, il mondo è cambiato, la povertà e la fame sono diventati giochi di potere, per cui ci si batte sulle statistiche annuali in modo da far dire ai numeri quello che interessa a noi, e cioè che ci sono meno morti di fame, meno poveri, anche se sono ancora tanti. 

Ma non senti mai una sola persona dire la cosa più ovvia: se questi decenni passati sono stati quelli che hanno permesso uno sviluppo economico così forte, grazie alla liberalizzazione dell’economia e alla globalizzazione, e grazie ai quali l’un per cento della popolazione è diventato così ricco da non saper più cosa fare dei soldi, mentre il rimanente 99% resta lì ad arrabattarsi per mettere assieme pranzo e cena, non verrebbe da pensare che forse è il modello economico che continuiamo a perseguire che ci sta portando alla rovina? Dove sono andati i nostri economisti dello sviluppo, perché non si sentono mai a dire che o si cambia sul serio o finiremo tutti contro un muro? Nella mia organizzazione gli economisti capaci di pensare con la loro testa sembrano spariti nel nulla. Anche qui dove mi trovo, si parla del più e del meno, di nuovi progetti da formulare, ma le basi restano sempre le stesse, un paradigma economico che non si vuol mettere in dubbio.

Ed ecco che alla lunga capisci perché la tua organizzazione oramai è diventata inascoltata: non abbiamo nulla da dire a chi soffre veramente e non osiamo dire le quattro verità a chi li governa, contentandoci di un tran tran che non serve a noi e nemmeno a loro. Stiamo sparendo perché abbiamo perso il contatto con la realtà. Anche quelle rare volte che ci capita di incontrare un/a contadino/a povero/a, che sia nelle campagne dove cercano di sopravvivere o nelle periferie di casa nostra, non sappiamo più cosa dir loro, perché abbiamo dimenticato di batterci per quei valori che continuiamo a sbandierare ogni giorno.

Vista da quaggiù, la barca sta affondando velocemente, i vari pezzi non si parlano più tra loro e ognuno cerca una soluzione individuale di sopravvivenza. Roma oramai è percepita come un impaccio, un qualcosa che non capisce le dinamiche di questa regione e che solo manda ordini e mai risorse per poter far qualcosa. Quindi tutti sono in caccia di soldi, invece che mettersi alla ricerca di idee, di qualcosa per cui valga la pena dire: sono fiero di aver dato un contributo alle nazioni unite. Oggi siamo un peso per tutti, abbiamo una burocrazia pesante e cara, dall’alto piovono decisioni che sono percepite come provenienti dalla luna e comunque l’esempio che ci arriva da Roma è proprio sempre quello del divide et impera. Le energie sono spese all’interno, per spiegare e rispiegare cose ovvie, e questo vale per tutte le agenzie delle nazioni unite. Prendi il caso del cambio climatico e della invenzione magistrale dell’agricoltura climaticamente smart, che i francesi chiamano agricoltura connessa (sempre precisino sto francesi, vero?). Questa agricoltura viene declinata in mille pubblicazioni e il suo acronimo, CSA, sbandierato ai quattro venti, come la soluzione miracolo. La soluzione per tutti: governi, università, contadini e settore privato. Poi vai a vedere di cosa si parla, e capisci ancora meglio il concetto della scoperta dell’acqua calda. Pratiche agricole vecchie di millenni, saggezza contadina che ha permesso loro di adattarsi a tutte le situazioni, ecco, queste cose vengono scoperte negli anni duemila. Non oso nemmeno immaginare cosa pensi sul serio un contadino a cui venga spiegato che adesso la lotta contro il cambio climatico si farà grazie alla CSA: ci va ancora bene se non prende il fucile con i pallettoni caricati a sale…  Un caso dite voi? Ma allora spiegatemi la magia della apparizione della parola resilienza da alcuni anni a sta parte. Ancora una volta, i contadini sono resilienti by definition, altrimenti sarebbe già scomparsi. Ci ha provato il vecchio Marx a teorizzare la loro fine. Nel frattempo è morto lui, Lenin, Trotsky e quant’altro, e sto contadini sono sempre lì, malgrado tutte le innovazioni tecnologiche che dovevano farli sparire. Quindi abbiamo inventato la parola nuova per dire una cosa che esisteva da sempre: la resilienza. Cioè: invece di andare a studiare con umiltà il mondo che ci circonda e dal quale potremmo prendere lezioni per lottare contro povertà e fame, noi sprechiamo anni a cercare di inventare parole come fossero concetti nuovi. Avessimo almeno l’onestà di dire che siamo noi quelli più indietro della coda dell’asino, allora sarei meno arrabbiato. Ma invece no. Adesso dobbiamo essere climate smart e favorire la resilienza. Ma va a cagher come avrebbe detto mio nonno.


Perché non siamo capaci di dire che questa agricoltura industrializzata, chimicizzata e finanziarizzata ha distrutto il pianeta, le sue risorse umani e naturali? Perché abbiamo paura di questo? Perché quando uno dei tanti ministri dell’agricoltura viene a visitarci non gli diciamo (lui o lei che sia poco importa): dovete cambiar strada, e presto, altrimenti sarete e saremo tutti travolti da una rivolta che quando arriverà non saremo riusciti a capire. Ma statene sicuri che sotto sta covando.   

2017 L5: autori vari - Il calcio in giallo

Sellerio, 2016

Con una leggera amarezza che diventa presto denuncia sociale e voglia di smascherare gli intrighi che soffocano lo sport più amato d'Italia, i detective Sellerio si mettono alla prova, ciascuno con il carattere, con il metodo e le loro vite alle spalle, come li conoscono i lettori che li hanno seguiti nei romanzi maggiori.
Nel calcio sono le divisioni minori che conservano le più interessanti storie umane. Così i lampi criminali e rapidi intrecci polizieschi qui pubblicati, con protagonisti alcuni dei più convincenti investigatori del nuovo giallo italiano (è questa la decima antologia che Sellerio dedica a crimini a tema), si svolgono tutti in quel mondo. Per scoprire che forse lì di sportivo non è rimasto più niente, tranne il ricordo di quando si giocava al campetto da bambini.
Con questa, leggera, amarezza che diventa presto denuncia sociale e voglia di smascherare gli intrighi che soffocano lo sport più amato, i diversi detective si mettono alla prova, ciascuno con il carattere, con il metodo e le loro vite alle spalle, come li conoscono i lettori che li hanno seguiti nei romanzi maggiori.
L’ispettrice Petra Delicado della polizia di Barcellona, protagonista della serie famosa inventata dalla spagnola Alicia Giménez-Bartlett; l’elettricista Enzo Baiamonte che il palermitano Gian Mauro Costa porta a investigare nei tinelli e nelle botteghe del suo quartiere popolare; il pensionato Consonni e gli altri della Casa di Ringhiera che stavolta l’autore Francesco Recami mette alle prese con una specie di thriller violento; il giornalista disoccupato Saverio Lamanna che spesso e volentieri il suo creatore Gaetano Savatteri strappa, per seguire i suoi misteri, dal ritiro obbligato sul mare siciliano di Màkari; i Vecchietti del BarLume, del giallista-umorista Marco Malvaldi, che infilano il loro pettegolo naso investigativo nel calcio femminile; il fosco, torbido, affascinante, tenerissimo Rocco Schiavone, vicequestore romanaccio che l’autore Antonio Manzini ha castigato in quel di Aosta a capo di una squadra pericolante; la libraia Kati Hirschel, della scrittrice turca Esmahan Aykol, tedesca radicata a Istanbul in giri avventurosi in mezzo alla folla della metropoli suggestiva d’elezione.
Sono loro che dietro la svagatezza della partita devono svelare il disegno cinico da smascherare, lo spregiudicato affarismo, l’assurdo del delitto, o una spregevole ossessione collettiva.

Piccoli racconti da bordo piscina. 

domenica 5 febbraio 2017

Bangkok: Ojalá






Ojalá è una bellissima canzone di Silvio Rodriguez che, per i casi della vita, ci è capitato di ascoltare ieri sera, dopo una giornata intensa a visitare un mercato di fiori (vedete le foto sopra) che rallegra l’anima, ed aver passato oltre un’ora chiusi in un taxi nel traffico bangkocchino per un tragitto di qualche chilometro. 
In quei momenti, oltre a contare i minuti fermi ai semafori, hai anche tempo per pensare ad altro, alla tua vita, al tuo lavoro, e magari anche a cosa ti farai da mangiare quando arriverai a casa. Per il momento l’idea di mangiare street food non è all’ordine del giorno. Vedremo più avanti.

Parlavo della canzone: scritta per una ragione, nota al compositore, ha finito per assumere altri significati e, come succede, ognuno la può interpretare come meglio crede. Che sia stata scritta a causa di un amore finito male, che molti l’abbiano interpretata come un inno di lotta contro le dittature, una in particolare e che al giorno d’oggi ci siano altrettante, se non di più, ragioni per scrivere e cantare versi come questi, ecco, io penso e voglio dedicarli a una persona in particolare:

Ojalá se te acabe la mirada constante, la palabra precisa, la sonrisa perfecta, ojalá pase algo que te borre de pronto:

Una luz cegadora, un disparo de nieve, ojalá por lo menos que me lleve la muerte, para no verte tanto, para no verte siempre, en todos lo segundos, en todas la visiones. 

Arrivati finalmente a casa, mi sono fatto due spaghi, amo, mio … senza peperoncino perchè, come dice l’amico Hernan Mora, inventore di neologismi oramai conosciuti (participulacion, per indicare la manipolazione che viene costantemente fatta ai più deboli, in nome di una falsa retorica partecipativa), il peperoncino … pica … y repica. A buon intenditor…

Parlo poco di lavoro oggi, tanto quello che avevo da dire in questi anni l’ho già scritto. Alla fine della fiera aveva ragione quel vecchio amico di mio nonno, poveraccio come lui, che così prendeva in giro se stesso e la sua classe sociale nell’immediato dopoguerra quando ricominciava la stagione degli scioperi in nome di diritti mai riconosciuti: i poveri ci sono sempre stati, cosa vogliono adesso?

Ecco, siamo ritornati a questa semplice e triste verità. Si lotta, ci si agita, ma alla fine diventiamo sempre prede del nostro io, crediamo che la nostra lotta, il nostro sforzo - individuale, al massimo col proprio progetto, sia quella goccia sufficiente a cambiare l’ordine delle cose.

La delusione più grande della mia vita professionale non sono stati quei governi profittatori, del nord come del sud, quei funzionari corrotti che cercano di estorcerti anche l’ultimo centesimo, o quei capi, direttori e più su, che, messi in quei posti per ragioni politiche, hanno fatto di tutto per impedire che si lottasse sul serio contro la fame e la povertà. In fin dei conti quella è la loro ragione sociale. Si è mai visto una persona pericolosamente di sinistra arrivare a gestire una qualsiasi di queste agenzie delle nazioni unite? Pochi anni fa sognammo quando Michelle Bachelet arrivò a UNWoman: integerrima, una storia personale che era la prova provata della capacità e serietà della persona… ed ecco che in quattro e quattr'otto molla tutto, dopo aver appena iniziato a lavorare, per tornare a lanciarsi, vincendo, nell’arena politica nazionale, tornare a fare la Presidente e poi trovarsi in mezzo a storie di corruzione con coinvolgimenti familiari. Un capitale di simpatia mondiale buttato via in un attimo. Ma a parte questo raro caso, la realtà è quella che è: la selezione naturale porta in alto non i più capaci o intelligenti, ma chi ha i legami politici, e quindi i voti, che permettono di arrivare lassù. Di conseguenza chi si preoccupa sul serio di chi sta sotto, viene tagliato/a fuori subito. Inutile tettarella strada delle promozioni interne, quando capiscono che razza di animale sei, cercano di parcheggiarti da qualche parte o buttarti fuori. Ripeto, fa parte del gioco. Bisogna proprio essere degli ignoranti come il neo presidente americano per non capire che la macchina nazioni unite è lì per servire gli interessi principalmente dei paesi del nord, America in primis. Interessi del settore privato chiaramente, come sono quelli difesi dentro il Codex Alimentarius. 

Quindi la delusione vera non viene da lì. Viene dal non esser riuscito a far capire a chi ha lavorato con me la necessità storica di fare gruppo, squadra, di costruire assieme. Lottare per difendere i diritti cosiddetti “commons”, ma poi farlo da soli, non saper costruire con chi condivide l’essenziale della stessa agenda di lotta, pur nelle sue differenze di persona, con storie alle spalle diverse, ecco, questa è una ferita che brucia e brucerà.

Loro, i miei “ex-giovani” lo sanno bene, perché gliel’ho ripetuto tante e tante volte, provando a creare degli spazi virtuali di condivisione di documenti, esperienze, uno sfogati nostro dove poter attingere anche dalle delusioni altrui, ma con lo scopo di costruire. Ho provato anche a provocare discussioni, riunioni fuori dal lavoro, ma neanche lì siamo andati lontano. 

Oggi sono in tanti a battersi su questi temi: molti di loro sono cresciuti con me, con altri ci siamo conosciuti e frequentati per brevi ma intensi periodi, tutti hanno l’indirizzo elettronico degli altri ma la maionese non prende. Peccato, più di tanto non posso fare. Se non ci arrivano da soli, amen. Io sto arrivando al capolinea di quello che potevo fare dalla mia posizione dentro questa organizzazione. Quando sarò fuori diventerò un possibile consulente come migliaia di altri già esistenti, nulla più. In tanti mi scriverete che non bisogna arrendersi, ma arrendersi a cosa? Io ho provato a fare due cose nella vita: stimolare una riflessione intellettuale che permettesse di aggiornare in tempo reale i nostri approcci, sulla base di uno scambio continuo con progetti veri di terreno, e dall’altra parte aiutare a tirar su una generazione di giovani diversi, curiosi e vogliosi di battersi a partire da principi non ideologici, ma consci di una realtà fatta di potere molto mal distribuito, di diritti negati e tutto il resto. A tutti loro ho sempre detto, dal primo giorno, che da soli non andremo da nessuna parte: sono arrivato a minacciarne alcuni (quelli passati per l’Angola se lo ricordano bene) di mettere per scritto nei loro termini di riferimento professionali, l’obbligo di scrivere le proprie esperienze, farne articoli o note interne da scambiare non solo con i colleghi ufficiali, ma con la squadra che pian piano veniva su. Non ha funzionato. Amen. La prima parte direi proprio di sì, e oggigiorno abbiamo del materiale molto interessante e abbastanza completo, sempre suscettibile di essere migliorato, ma chi ci conosce ha capito la natura dinamica delle nostre riflessioni. Peccato non avere una massa critica, una squadra che funzioni come tale. 


Un caro saluto a voi tutti, paolo  

giovedì 2 febbraio 2017

Bangkok: Odori e profumi


Camminavo per strada, stavo andando in un ospedale alla ricerca di medicine per le varie rognette di salute. L’esercizio oramai è facile: si tratta di fare slalom tra le innumerevoli venditrici di street-food che dalle 7 di mattina a notte inoltrata continuano a cucinare di tutto e di più. Oltre a loro, a volte incontri qualche raro senzatetto allungato sul marciapiede a dormire (o almeno a fare finta), raramente a chiederti un’elemosina – allora sono donne con bambini a seguito. Malgrado l’inquinamento e le vie orali che sono intasate, soprattutto nei primi tempi, questi odori ti entrano dentro, mescolati, diversi, e provocano qualcosa in te che va dalla voglia di provare allo schifio per le condizioni igienico sanitarie in cui questi cibi sono preparati e poi mangiati lì in mezzo alle macchine e ai tubi di scappamento.

Poi sono entrato un attimo in uno di questi mall dove trovi tutto quello che gli occidentali possono cercare: dalla baguette appena cotta, il formaggio appena arrivato dall’Europa, qualche fiore, fino all’ultimo profumo di Sisley. 

Il tuo naso comincia a respirare altri aromi, e ti vien da pensare alla metafora della vita che questo passaggio dagli odori ai profumi ti indica.

Vien da pensare come cerchiamo tutti di allontanarci, nel corso della nostra vita, dagli odori, maleodoranti, puzzolenti, siano le fogne a cielo aperto di molte città del sud del mondo, o questi venditori di cibi cotti in strada, per non parlare dei panini che ci facevamo fare a Luanda prima di andare sul terreno a lavorare con le comunità: in mezzo a una delle più grandi favela del continente africano, con rivoli di liquido nero che uscivano da muri di mondezza, trovavi delle gentili persone intente  a preparare panini con una omelette cotta a dieci centimetri dal suolo. Lo facevamo perché non avevamo alternative, ma anche perché sapevamo che noi saremmo rimasti pochi giorni, settimane al massimo e poi tornavamo nei nostri conforti, passando dall’odore di monnezza fermentata ai più piacevoli profumi dei giardini di casa nostra.

Fuggire da questo e cercare di raggiungere il nirvana dei profumi. Ma un fuggire che dimentica, spesso, che da lì veniamo. Ed ecco che la dimenticanza, che poi ci riprende ogni volta che andiamo in bagno, ci porta a non volerlo conoscere quel mondo, a starne lontani, perché so’ Brutti, Sporchi e Cattivi.

Il guardarsi indietro lo facciamo sempre meno, come per cercare di mettere una barriera fra il livello dove siamo arrivati, per poi cercare di andare ancora più su, nei profumi e nelle essenze rare, sinonimo che abbiamo fatto fortuna nella nostra vita e che gli odori del piano di sotto non li sentiamo più. 

Non vogliamo sentirli, perché ci ricordano che esiste anche una umanità dentro quegli odori e che fra quei brutti, sporchi e cattivi ci siamo impelagati anche noi. Guardiamo altrove, ma finché non ci ricorderemo che siamo flusso, respiriamo profumi ma poi dobbiamo espellere odori, che tutti e due sono parte di noi, e che quindi dobbiamo imparare di nuovo a voltarci indietro, ecco senza questo ritorno alle radici dell’esistenza, come possiamo pensare di andare avanti? Come? Io proprio non lo so.

mercoledì 1 febbraio 2017

2017 L4: Irène Train - La foret des 29



Michel Lafon, 2011

Inde du nord, 1485. A la lisière du désert, les rajahs rivalisent de palais mirifiques. Pour les ériger, ils ont déboisé les forêts, méprisé les forces de la terre et du ciel. La sécheresse s'installe, le fossé entre les riches et les pauvres devient intolérable, la misère rôde, la vie est en danger. Pourtant un jeune paysan vagabond va refuser la fatalité. Avec quelques hommes et femmes de bon sens, Djambo fonde une communauté, les Bishnoïs, dont la survie tient à 29 principes simples. Leur ligne directrice : le respect de la nature et de tous les êtres humains.

Un po' lungo e falloso, ma l'epopea di Djambo e il suo amore per le risorse naturali e il rispetto del prossimo mi hanno fatto molto riflettere in questo momento storico quando siamo sempre più considerati come un peso dai nostri stessi capi e quando si monetizza la natura per svenderla al miglior offerente.

Un'analisi lucida di un mondo, il nostro, che va verso la propria perdita senza che ai piani alti ci sia realmente coscienza.