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lunedì 25 settembre 2017

Catalogna e Kurdistan (Iracheno) stessa battaglia


25 settembre 2017

Un autunno cado sta iniziando. Non solo climaticamente ma anche, e soprattutto, politicamente. Oggi si vota nel Kurdistan iracheno, una zona di fatto non più sotto controllo di Bagdad da parecchi anni e che, così facendo, vuol mettere la comunità internazionale di fronte all’evidenza di una indipendenza che si sta costruendo giorno per giorno. 

Ovviamente Bagdad, così come gli stati vicini, non sono affatto contenti, perché vedono il rischio (la certezza) che questo voto dia le ali anche alle minoranze curde in Turchia e in Siria. Insomma, come scrivo da tempo, che faccia saltare tutta la costruzione artificiale del Medio Oriente che noi europei abbiamo cercato di imporre con le armi un secolo fa.

Anche in Catalogna si vorrebbe votare, e anche lì le resistenze del potere centrale sono fortissime. Al di là delle nostre opinioni personali, questi e altri esempi, ci riportano alla domanda chiave, se cioè lo Stato-Nazione come lo abbiamo conosciuto, abbia ancora un ruolo centrale nella geopolitica dei prossimi anni. La mia personalissima impressione è che la risposta sia negativa. La costruzione dello stato-nazione rispondeva a un certo livello di sviluppo delle forze economiche e sociali, per cui la dimensione del mercato doveva aumentare fino a raggiungere stati interi. Così fu, ma oramai da decenni assistiamo a un processo di globalizzazione che salta via completamente le barriere nazionali. Il campionato adesso si gioca su campi molto più grandi, con resistenze crescenti da parte di gruppi di popolo organizzati, ma ancora non sufficienti a contenere il fenomeno.

La spinta economica va in quella direzione, di far saltare il grimaldello nazionale. Le spinte etniche, o di riconoscimento locale, vanno verso lo stesso obiettivo, anche se nascono magari per difendersi dall’idea del supermercato globale. Più si globalizza più sentiamo un bisogno di riconoscerci, di trovare delle chiavi di lettura che ci tengano assieme. I partiti politici non possono più farlo, le squadre sportive sono dei palliativi buone nei momenti di festa e basta. Anche la ricerca dell’identità culinaria di fatto spinge al regionalismo e poi al vocalismo per dimostrare come il mio broccoletto anguillarino sia migliore di quello che si potrebbe fare a 20 chilometri da qui. 


Sono segnali che la terra sta iniziando a tremare. Chiaro che, se la scossa tellurica arriva in una zona già calda di suo come il medio oriente, difficile non essere pessimisti. Ma cosa vorremmo fare? Cercare di fermare la Storia? Mi sembra poco credibile. Erdogan può sgolarsi quanto vorrà, l’ira potrà chiudere le sue frontiere e Bagdad mandare messaggi minacciosi, ma il Kurdistan voterà, e voterà per l’indipendenza. Stessa storia succederà a giorni in Catalogna. Siamo ancora nella fase del tutti contro tutti, che non porterà nulla di buono. Non ci resta che sperare che qualche politico più lungimirante capisca qual è il senso della storia attuale, e cominci a lavorare per governare, fin dove sia possibile, queste tendenze magmatiche, altrimenti il rischio di un vero caos sarà ben maggiore.

giovedì 21 settembre 2017

Final words to FAO-RAP colleagues, Friday 15, September

Dear all, colleagues, consultants, GS staff…. 
After almost 28 years of servicing FAO member countries, I have decided to anticipate my retirement for reasons that some of you do know. The time spent in Bangkok has been short, so we did had limited opportunities to interact and working together. However, it has been enough to get an idea of how far is HQs, particularly in this historical period. The efforts to promote stronger country driven processes, to set-up transversal technical teams for the benefit of the field program, the need to insist more and more on the need to work as a team, all these buzz words have been transformed by the Roman elite in a sort of rhetoric that has been accompanied by the usual top-down approach and lack of empathy vis-a-vis the staff, consultants and all support colleagues. I leave RAP with the hope that here the story might be something different, more human, although the heritage of the past is difficult to be overcome. I have witnessed the difficulties of promoting a philosophy of the “otherness”, caring about the others, giving time, info and resources to genuinely build something different, eventually more time consuming, but more in line with the holistic and complex nature of livelihoods outside our buildings. 
I still recall when one of my Directors in HQs few years criticized me for “losing” time with other technical divisions (in particular the Gender one), instead of concentrating on the specific products of our unit. I always considered with sadness that Director, not able to understand the importance of a team approach for the benefit of the people we serve. However, when considering that careers towards the top management and directors’ positions are based on the old principle of “mors tua vita mea”, I understood his concern. This has always been my problem in FAO: believing in the principles we declared and wrote in our publications instead of accepting the daily practices of my superiors at all levels. 
I leave this Organization with a mix of sadness and happiness. I am happy because some small things have moved up, product of a real teamwork, internal and external. I am happy because I leave behind me several young (and no longer young) fellows, within and outside the Organization) with whom we have grown together, learning from each other, exchanging views, opinions, sometimes being very critical one toward the others, but always respecting this diversity. 
I am sad because I think much more could have been done. Too often, the positive things we have done in some countries, have been “in spite of” the chiefs we had. I am sad because I still see the dominance of the individualistic nature of humans, which is then reflected in the actions we do: small and limited, and this might be okay, but very rarely conceived as part of “one” vision. It is true that when we have been selected for our positions we were not judged on our real team building capacity, but on our individual skills. Now time has arrived to understand that a series of good individual skills do not match for a good team. Having 11 Maradona (or Messi) doesn’t ensure you will win the Champions.
We do not necessarily need more resources, I think we need to use what we have in a different way. Building bridges of collaboration, going against the mainstream of “being the best one”, in order to repeat the miracle Leicester team made 2 years ago in British Premier League. The team (and the Trainer) won, not the individual.
Finally, I am sad because I have seen how little we have moved ahead, as FAO, on the understanding of the importance of Gender. 28 years ago, this was the first internal training I got when joining FAO. Now, my feeling is that we are still back as we were. 
To conclude, I am sad because of the increasing precarization of the jobs offered by the Organization. I grew up with the understanding that we, the staff, we were the real resource of the Organization. Because of our experience, skills but also thanks to the long-term contracts, we could challenge many of the bottlenecks in the development agenda, including those of policy nature, resulting from the asymmetries of power that poor people face daily in their life. Now, with more and more precarious contracts, it is difficult to imagine the Organization standing for the values, principles and rights we affirm to defend. We are going through a period of history when more than ever UN agencies would be needed. But UN agencies that respect and promote diversity, that build on the variety of opinions and where staff would be encouraged to stand-up in front of injustice, in order for us to give voice to those who have no voice and cannot be heard. Difficult to imagine how this might happen when silence has become the rule and when critical voices are kindly invited to leave the floor. Anyway, this is a story that you know eventually even better than me. 
Let me close with a final special thanks to Ms. Arunee, Bongkoch and Dora for their very much appreciated support for the installation and the repatriation.
All the best to all of you, paolo

domenica 10 settembre 2017

Pace e sviluppo in Colombia? Non ne sono sicuro



Papa Francesco sta girando la Colombia per divulgare un messaggio di pace e riconciliazione. Molti occhi sono puntati su questo viaggio, sul ruolo svolto dalla Chiesa nello stimolare la conclusione delle trattative di pace e, possibilmente, una accelerazione per quanto riguarda il rimanente movimento ELN.

Sono in tanti a sperare che questa sia la volta buona. Un Presidente che, contro l’avviso di tutti, si è messo in testa di arrivare a un accordo di pace, una comunità internazionale decisa ad appoggiare seriamente questo paese per farne un “caso” di come sia possibile uscire dalle logiche di conflitti incancreniti, e una Chiesa cattolica che ha una forza locale da non sottovalutare. 

Anche la mia organizzazione smania di protagonismo volendo mostrare una capacità tecnica che aiuti a districare il complicato, e politicamente sensibile, problema legato alla terra, il tema numero uno degli accordi.

Quindi tutto bene? Io mi trovo un po’ lontano in questo periodo, a seguire altri conflitti, asiatici e africani, cercando di far capire alla mia stessa organizzazione come ci si debba organizzare per andare a lavorare al cuore di questi problemi. Le mie informazioni sono quindi relativamente di seconda mano, da amici colombiani che lavorano nel paese, da colleghi d’ufficio nonché da quanto alcuni specialisti - e vecchi amici - scrivono sui giornali locali. Tutto questo per dire che ovviamente potrei sbagliarmi di grosso nelle mie sensazioni, che non sono per nulla positive e che adesso spiegherò qui di seguito.

Fondamentalmente la mia impressione è che i vari attori in gioco abbiano tutti una agenda e un punto d’entrata diverso dagli altri e non sono sicuro di quanto forti siano le compatibilità reciproche. Per ovvie ragioni già spiegate il altri post, e che hanno a vedere col cammino di riflessione portato avanti assieme al mio gruppo di amici e colleghi, penso che papa Francesco sia quello che ci vede meglio di tutti gli altri.

Un conflitto è essenzialmente una storia di rapporti di forza impari che fanno sottomettere i più deboli ai più forti. Succede, non sempre, che i più deboli trovino delle forze, esterne quasi sempre, che, a nome loro, si mettono in mezzo proclamando a mari e monti di voler riparare queste ingiustizie e ridare voce al popolo. Questo hanno fatto agli inizi le varie guerriglie, dimostrando ben presto due cose abbastanza ovvie da un punto di vista storico: primo, l’incapacità di mettersi d’accordo su una piattaforma politica unica che unificasse le varie guerriglie e avesse quindi un peso ragguardevole nelle future negoziazioni. Secondo, ma legato al primo, questa incapacità di resistere all’approfittarsi delle ricchezze naturali che sono lì a portata di mano. Le varie guerriglie colombiane, ma sono abbastanza sicuro che il discorso vada al di là di loro, si sono ben presto trasformate in agenzie a delinquere, con gli stessi metodi di quelli che dicevano di combattere, il tutto difendendosi dietro a grandi cause che sono chiari specchietti per le allodole ma non per persone un minimo informate.

Incapaci di sovvertire il regime, hanno dovuto accettare di mettersi a tavola e negoziare in condizioni di inferiorità. Ma hanno portato a casa un risultato e qualcuno dei capi sicuramente riuscirà anche ad entrare al parlamento per fare grandi discorsi sui valori difesi da loro, mentre nel frattempo il bottino messo via verrà restituito solo in parte. Le FARC e compagnia bella hanno una capacità minima di condizionare la vita politica formale. Hanno fondato un partito pochi giorni fa, che mantiene l’acronimo FARC, ma che nel giro di pochi anni scomparirà dalla scena politica. Chi di voi si ricorda del M-19, a parte i colombiani o chi ci lavora? Erano tanti, coraggiosi, forse parzialmente manipolati ma insomma accettarono di entrare nell’arena politica formale. Molti furono ammazzati dalla destra e dalle sue squadracce, altri sono semplicemente scomparsi nell’irrilevanza della politica. Per le FARC è difficile immaginare un avvenire diverso. Alle prossime elezioni non arriveranno al 10% e poi non resterà loro che lamentarsi del “tradimento” degli accordi di pace etc etc..

Il Presidente Santos ha fatto quanto desiderava. Ha portato a casa la pace e questo gli va dato merito. La costruzione della Colombia del futuro però è cosa diversa. Passa per un gioco politico storicamente dominato da baroni e caste politiche che non sono mai riuscite a far avanzare minimamente la risoluzione di quei problemi che hanno portato alla guerra civile. Oggi ancora una quantità importante di congressisti ha le mani sporche di quei denari provenienti dal narcotraffico, dalle alleanze con le squadracce di paramilitari che restano presenti nel paese. Non si vede all’orizzonte nessun repulisti, nessuna Mani Pulite, processo che almeno permise di cambiare facce, anche se non intaccò le realtà profonde. Quindi una volta che Santos uscirà di scena, e ricordandoci che Santos non è un santo, resterà quel magma di parolai gattopardeschi che, finché ci saranno soldi, saranno lì a cantare i benefici della pace, purché questo non intacchi i loro affari e privilegi.

Le poche forze di sinistra sono, come al solito, ben divise, e il miglior congressista di sinistra, il senatore Robelo, vuol lanciarsi in una candidatura senza speranza che gli farà perdere anche il posto di senatore nonché un bel po’ di voti alla lista di sinistra che non potrà averlo come candidato. Insomma, il futuro panorama politico sarà più spostato a destra dell’attuale, e non saranno i quattro gatti delle FARC a cambiar granché gli equilibri. Saremo stupiti se fra qualche anno li troveremo a votare assieme agli affaristi di destra? Ve lo dico subito, io no!

L’agenda del Presidente quindi è molto di corto termine per lasciare una eredità storica dove lui passerà a essere ricordato come il santo che ha salvato il paese, ma non sarà certo lui a spingere per cambi strutturali e per quella pulizia nelle certificazioni catastali delle proprietà rurali che sarebbe necessaria per ricominciare su basi serie il post-conflitto. Alejandro Reyes ci crede molto all’idea del barrido cadastral, io sono molto scettico.

Al di là del Presidente, l’agenda politica dei congressisti è divisa, come lo sono loro e la maggioranza si preoccupa essenzialmente on i loro affari e con la speranza che l’immagine del paese migliori in modo da attirare più investimenti e quindi più affari.

L’agenda delle nazioni dis-unite riflette questo stesso schema. Si avanza in modo diviso, cercando di guadagnare un posto al sole che permette un domani essere presenti nella foto sorridenti del post-conflitto. Ma si tratta di agende tecniche, che non sfiorano nemmeno il cuore del problema che non è tecnico. Nel paese esistono da decenni capacità tecniche a tutti i livelli, centrale e locale, universitario, ONG e governo, per fare le cose “tecniche”. Quello che manca sta altrove. 

Fin dai tempi del Caguàn arrivammo alla conclusione che quello che si è rotto in Colombia è semplicemente il patto sociale che tiene assieme le popolazioni di un certo territorio e fanno sì che si riconoscano come comunità e quindi Stato. Se non si opera quindi su questo aspetto, non si andrà da nessuna parte. Il Papa queste cose le ha capite e le va ripetendo da anni. Nel caso specifico è andato a ripeterle in questi giorni, sperando di incontrare un auditorio più attento di quelli incontrato finora. Papa Francesco è venuto anche un paio di volte nella nostra sede, proprio per discutere di questi temi e di una possibile alleanza fra FAO e Chiesa Cattolica, in particolare nel caso colombiano. A giudicare da quanto si vede in giro, tante belle parole, ma manca, da parte nostra, la comprensione profonda che al cuore dello sviluppo non ci sono tecniche o tecnologie, ma ci sono uomini e donne che accettano o meno di stare assieme nella stessa società. La Chiesa ha il compito di parlare della centralità della riconciliazione, noi avremmo il compito di trasformare questo desiderio spirituale in approcci concreti, dove sia chiara la centralità dell’essere umano, e dove la parte tecnica arrivi dietro come supporto se e quando necessario. Ma non sta succedendo, per cui ognuno avanza con la sua agenda.

Non serve parlare dei donatori, perché in genere il loro apporto è sempre più spesso un problema, soprattutto da quando tutti quelli che mettono quattro soldi sul tavolo pretendono avere anche una parola nel processo. In questo modo diventano elementi di disturbo, che aumentano la confusione, anche se nel fondo ci sia anche una discreta dose di buona volontà. Certo poi che i donatori se la giocano ognuno per contro proprio: l’agenda degli americani chiaramente non coincide con quella degli europei. I paesi latinoamericani non mettono soldi ma appoggio politico penando a una agenda di integrazione regionale, cosa buona e giusta, ma tutto partecipa all’idea di un gran carnevale dove ognuno va con quello che ha e poi si spera che non piova e che la festa continui.

Solo che la festa dovrebbe riguardare quei milioni di sfollati, alcuni da decenni, che magari, ma forse no, vorrebbero tornare nelle loro terre, nel frattempo magari occupate da altri sfollati di altre regioni. Ma forse non vogliono tornare perché non si fidano, e quindi che si fa? Si lasciano le terre rubate dai narcos, guerriglieri e para nelle mani dei ladri? Insomma il casino è grande sotto il cielo, e finché non si capirà che in questo procedere da armata brancaleone si rischia di andare a cozzare contro il muro, resta poso da sperare. Lo so che in parecchi dei miei amici inorridiscono quando dico queste cose, ma nel caso specifico della Colombia, l’agenda deve essere quella dettata dal buon senso, e messa in uscita dal Papa: bisogna ricostruire quei legami rotti, creare condizioni perché ci si accetti di nuovo nella diversità politica e ideale e quando questa filosofia sarà chiara per tutti allora le azioni prenderanno una forma e un senso diverso.


Spero ovviamente di sbagliarmi del tutto. Scrivo questo post nella mia ultima settimana a Bangkok, dopo aver dato una scossa al mio ufficio regionale, forzandoli ad ammetterebbe la questione dei conflitti legati alle risorse naturali è oramai pervasiva in tutta la regione e che quindi, ci piaccia o meno, dobbiamo cominciare a prepararci, a studiare il come e il perché, per poi proporci di intervenire. Ma, ancora una volta, togliendoci dalla testa l’idea che bastino degli interventi tecnici, portare delle sementi, piccoli attesi o vaccinazioni per gli animali per far ripartire strutturalmente una società post-conflitto. Se le negoziazioni pace sono lunghe anche anni, il post-conflitto, come ci insegna il caso del Mozambico, non è ancora finito dopo 25 anni… questo è l’orizzonte che dobbiamo avere in mente. Un orizzonte che non piace ai donatori perché troppo lontano nel tempo, non piace alle agenzie ONU perché vogliono mostrare in tempi rapidi che servono a qualcosa e piace poco anche ai politici locali… insomma, un bel casino.  

2017 L39: Nicolas Barreau - Parigi è sempre una buona idea



Feltrinelli

Parigi è sempre una buona idea, si sa. Innamorati o no, vale sempre la pena di fare una passeggiata per le vie della Ville LumièreLì, in rue du Dragon, una deliziosa stradina nel cuore di Saint-Germain, ci si può imbattere in un piccolo negozio con una vecchia insegna di legno, un campanello d’argento démodé sulla porta e, dentro, mensole straripanti di carta da lettere e bellissime cartoline illustrate: la papeterie di Rosalie Laurent.
Talentuosa illustratrice, Rosalie è famosa per i biglietti d’auguri personalizzati che realizza a mano. Ed è un’accanita sostenitrice dei rituali: il café crème la mattina, una fetta di tarte au citron nelle giornate storte, un buon bicchiere di vino rosso dopo la chiusura della papeterie. I rituali aiutano a fare ordine nel caos della vita, ed è per questo che ogni anno, per il suo compleanno, Rosalie fa sempre la stessa cosa: sale i 704 gradini della Tour Eiffel fino al secondo piano e, con il cuore in gola, lancia in aria un biglietto su cui ha scritto un desiderio. Ma finora nessuno è mai stato esaudito. Tutto cambia il giorno in cui un anziano signore entra come un ciclone nella papeterie. Si tratta del famoso scrittore per bambini Max Marchais, che le chiede di illustrare il suo nuovo libro. Rosalie accetta felice e ben presto i due diventano amici, La tigre azzurra ottiene premi e riconoscimenti e si aggiudica il posto d’onore in vetrina. Quando, poco tempo dopo, un affascinante professore americano, attratto dal libro, entra in negozio, Rosalie pensa che il destino stia per farle un altro regalo. Ma prima ancora che si possa innamorare, ha un’amara sorpresa. Perché l’uomo è fermamente convinto che la storia della Tigre azzurra sia sua…
Una piccola cartoleria parigina e la sua eccentrica proprietaria. Un professore americano e un misterioso manoscritto. Una storia d’amore delicata e appassionante.
Come la quarta di copertina riassume correttamente, si tratta di una storia d'amore bella, leggera e avvincente. Lettura semplice ma consigliata per svagarsi in attesa di tempi più duri.

giovedì 7 settembre 2017

2017 L38: Sophie Hénaff - Rester groupés

Albin Michel, 2016


Considérés comme des traîtres par leurs collègues du 36 quai des Orfèvres, le moral est au plus bas au sein de la brigade. Seule Anne Capestan tente encore de remotiver ses troupes. Jusqu'à ce qu'elle se retrouve à devoir enquêter sur le meurtre du commissaire Serge Rufus, père de son ex-mari. Dans le même temps, en Provence, un homme trouve son nom fraîchement gravé sur un monuments aux morts.

Un anno fa, 29 agosto, recensivo il primo libro letto di questa autrice, Poulets grillés che finì poi nella sporca dozzina dell'anno. Il seguito rischia di fare la stessa fine. Consigliato, toglie il malumore. 

mercoledì 6 settembre 2017

2017 L37: Maylis de Kerangal - Riparare i viventi

Feltrinelli, 2015

Tre adolescenti di ritorno da una sessione di surf su un furgoncino tappezzato di sticker, tre big wave rider, esausti, stralunati ma felici, vanno incontro a un destino che sarà fatale per uno di loro. Incidente stradale, trauma cranico, coma irreversibile, e Simon Limbres entra nel limbo macabramente preannunciato nel suo cognome. Da quel momento, una macchina inesorabile si mette in moto: bisogna salvare almeno il cuore. La scelta disperata del trapianto, straziante e inevitabile, è rimessa nelle mani dei genitori. Intorno a loro, come in un coro greco, si muovono le vite degli addetti ai lavori che faranno sì che il cuore di Simon continui a battere in un altro corpo. Tra accelerazioni e pause, ventiquattro ore di suspense, popolate dalle voci e le azioni delle persone che ruotano attorno a Simon, genitori, dottori, infermiere, équipe mediche, fidanzata, tutti protagonisti dell'avventura, privatissima e al tempo stesso collettiva, di salvare un cuore, non solo organo, ma sede e simbolo della vita.

Come un pugno allo stomaco. Duro da leggere e ancor più arrivarci in fondo. Rischia di essere il mio libro dell'anno.

martedì 5 settembre 2017

Birmania, altre foto












L'alberghetto si chiama Alamanda Inn. Ve lo consiglio!

Birmania, un piccolo week end a Rangoon (Yangon)

Volevamo farci una idea personale di quanto sta succedendo, così siamo andati a trovare delle amiche e fare un giro in città. Malgrado un caldo ancora peggiore che a Bangkok, ne è valsa la pena.