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mercoledì 28 dicembre 2016

Vi chiedo scusa




Cari amici e amiche, ragazzi e ragazze con cui ci siamo incontrati in questi lunghi anni, discutendo dei temi dello sviluppo, dei nostri e vostri sogni, dell’importanza di avere dei valori e di lottare per difenderli. Come cantava Leo Ferrè, morire per delle idee, ma di morte lenta: questo per ricordarci come il cammino che avevo scelto e che volevate scegliere sarebbe stato un cammino lungo, irto di difficoltà, dove era importante dosare le energie ed altrettanto importante ricaricare le proprie batterie. 

Io quel cammino pensavo averlo trovato, e dopo oltre trenta anni, di aver percorso una parte importante della mia strada. Aver contribuito a far emergere il concetto di agricoltura familiare in Brasile, e farlo diventare poi un programma faro del primo periodo Lula, aver contribuito a scrivere una politica ed una legge sulla terra che finalmente riconosceva i diritti delle popolazioni locali mozambicane, e successivamente aver partecipato alla lotta per riconoscere i diritti specifici delle donne, un continuum che ci ha reso presenti per oltre venti anni in quel paese, esportando quelle esperienze in tanti altri paesi. Come non ricordare il primo titolo emesso dal Governo dell’Angola in nome di una comunità Bushman? Anche su questo eravamo ben presenti: anni e anni di sensibilizzazione, di empatia con la gente e le loro organizzazioni. E le Filippine, il Sudan e tutto il resto? La proposta che costruimmo in Colombia per affrontare il post-conflitto, una proposta che ancora oggi resta di scottante attualità? 

Tanti lavori iniziati, e tanti ragazzi e ragazze con i quali siamo cresciuti in questi lunghi anni. Avevamo una ispirazione comune, cioè che i valori promossi dalle Nazioni Unite fossero realmente dei valori universali, che di fatto davano un senso, una direzione al nostro lavoro.

Momenti difficili ne abbiamo passati, ma siamo sempre riusciti ad andare oltre. Fino a quest’ultimo intoppo che, per me, ha significato la rottura di un patto di credibilità e di fiducia reciproca. Quando si rompe un vetro, non si possono più riattaccare i pezzi. Resterà uno specchio rotto. Questo sono io adesso. La fiducia è andata, la credibilità anche, resta solo l’impegno professionale, mercenario direi, per continuare dei lavori in corso. Ma non sarà più come prima. Con che faccia possiamo noi andare a dire agli sfollati, ai rifugiati di mille crisi, di guardare avanti con fiducia, di credere nell’avvenire e soprattutto credere nei valori universali incarnati dalle nazioni unite? Non si può più fare, non sarebbe onesto. Togliamo di mezzo tutta la retorica dei “diritti”. Non ci sono diritti, ma solo rapporti di forza. Chi è più forte impone il suo volere, punto e a capo.

Ragazzi, ragazze, non credeteci quando vi parleranno di diritti, perché chi lo farà saranno quelli stessi che non li rispettano. Ricordatevelo, è solo una questione di rapporti di forza. Trovare il mezzo per ribaltare queste situazioni, guardare in faccia la realtà come è, e non come ce la sogniamo o come vorrebbero farcela sognare. Il mondo è brutto, molto di più di quanto pensiamo finché restiamo chiusi a casa nostra. Ho lottato, non dico invano, ma fino ad incontrare il limite della mia ingenuità. E lì mi fermo.Q

martedì 13 dicembre 2016

La sporca dozzina del 2016



come previsto, é stta un'annata difficile per la selezione finale, erano parecchi i libri candidati. Tengo questa dozzina con, in piú, una menzione speciale alla fine.

Alfredo Noriega - Mourir, la belle affaire
Lionel Olivier - Le crime était signé
Lydie Salvayre - Pas pleurer
Antonio Pennacchi - Canale Mussolini
Julien Suaudeau - Dawa
Sophie Hénaff - Poulets Grillés
Samira Bellil - Dans l'enfer des tournantes
Olivier Norek: Territories
Cédric Bannel - Baad
Romain Puertolas - L'extraordinaire voyage du fakir qui était resté coincé dans une armoire ikea
Antonio Fusco - La pietà dell'acqua
Jonas Jonasson - L'analphabète qui savait compter


Menzione speciale per la cara Giulia e il suo primo, e molto bello, romanzo: 
Giulia Caminito - La Grande A

martedì 6 dicembre 2016

Torri d’avorio e autismo: riflessioni al di là del referendum


Da alcuni anni oramai chi ha occhi per osservare, orecchie per ascoltare e bocche per parlare, vede in giro per il mondo una tendenza sempre piú netta alla separazione di vari gruppi che stanno sopra e quelli del piano di sotto. Non si tratta tanto (o solo) della famigerata “casta”, ovviamente la situazione é molto piú complicata. Alla “casta”, ai “poteri forti” eccetera possiamo aggiungerci un mondo intellettuale sempre piú autoreferenziale, piccolo borghese, dissociato da quel mondo reale che pretende capire e spiegare. Ma abbiamo anche una parte della classe media che, nello sfacelo progressivo ed accellerato di quella che fu l’asse portante delle democrazie occidentali, esprime un sentimento di paura, una incapacitá di leggere i fenomeni in corso  e si rifugia al cospetto di chi sta sopra nella speranza (vana?, mah) di potersi assicurare un futuro.

Quelli di sotto sono invece una accozzaglia, giusto per usare un termine caro al nostro (quasi) ex-Presidente del Consiglio di persone con interessi diversi. Nel caso europeo troviamo sempre più giovani neodiplomati alla ricerca di un lavoro che non trovano, accomunati alle fasce di povertà storica, economica e culturale, ma anche a quella fascia crescente di classe media che si sente scivolare verso il basso dela piramide sociale e si sente tradita da “queli di sopra”, la classe politica che, in cambio di un benessere accettabile ma soprattutto stabile, chiedeva la delega perenne per guidare i paesi.

Questo peró non succede solo qui da noi. La globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia, distruggendo molti piú posti di lavoro di quanti sia riuscita a crearne, precarizzando e impoverendo fasce enormi della popolazione mondiale, contribuendo in larga misura alla degradazione ecologica, ma anche sociale e culturale, sta producendo fenomeni simili anche nel sud del mondo.

L’aspetto più vistoso é la normalizzazione del pensiero che diventa “mainstream”, cioè pensiero unico: morte le ideologie di sinistra, ne è sopravissuta una, di destra, quella del libero mercato. Racconti di favole secondo i quali grazie all’economia di mercato, libera da lacci e lacciuoli, si finirebbe con lo stare tutti meglio. Una ideologia che non accetta la diversità e che tende a semplificare tutto quello che non riesce a capire e a integrare nei suoi modelli econometrici. Ecco il perchè della lotta sfrenata contro i “commons”, i beni comuni, visti come un intralcio al dispiegarsi delle forze del mercato portatrici di libertà. Nel sud del mondo questo vuol dire una lotta continua, per interposta persona spesos e volentieri, contro i riconoscimenti dei diritti delle comunità contadine, dei popoli indigeni, dei pastori nomadi etc. etc.

Le elite culturali dei paesi del sud vengono pian piano formattate al pensiero unico e diventano loro stesse i nemici dei loro popoli. Lo stesso processo di separazione che le nostre elite culturali hanno intrapreso parecchi decenni fa.

Si tratta di una lotta lunga, alla quale qualcuno si contrappone, per fortuna, ma alla resa dei conti cominciamo a renderci conto che, una volta al potere, anche le rappresentanze autoproclamate di queste istanze sociali dimenticate (i “forgotten” de noantri) calano le brache per allinearsi ai diktat economico-finanziari dettati dal nord del mondo. Basta guardare i casi recenti latinoamericani, tipo Lula: arrivato al potere spinto da masse operaie e contadini senza terra piú una classe media stanca dei soliti partiti e politici corrotti, il lascito storico lasciato dal presidente è una pletora di scandali che hanno colpito ed affondato gran parte dei quadri superiori del partito, in aggiunta a quelli che lo vedono coinvolto, lui e il figlio Lulinho, una sottomissione al capitale finanziario nazionale e internazionale (http://docplayer.com.br/13944203-A-politica-economica-do-governo-lula-reformismo-e-submissao-ao-capital-financeiro.html), un piegarsi alla diffusione massiccia degli OGM in agricoltura e la paura di attaccarsi al problema strutturale della povertà rurale, con una riforma agraria abortita durante la sua presidenza, e adesso che la bonanza degli alti prezzi delle commodities é passata, la povertà e la fame ritornano. Questi esempi, senza parlare di Chavez, sono alcuni dei tanti che hanno sabotato il sogno di generazioni, del sud e del nord. Una “politica che è solo far carriera, il perbenismo interessato, la dignità fatta di vuoto, l’ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto...” scriveva tanti decenni fa il nostro Francesco da Pavana. Generazioni di politici si sono susseguiti, tutti oramai frutto dello stesso format, che guarda sempre verso l’alto, che accetta aprioristicamente tutte le ricette tese a “snellire” lo stato, cioè a ridurlo in brandelli, per far spazio al mercato, ai TTIP e via dicendo.. e che sempre più si dimenticano di quelli del piano di sotto.
L’idea di fondo resta sempre la stessa dagli inizi della colonizzazione: noi abbiamo ragione, perchè siamo “sviluppati”, e voi tutti avete torto. Ed ecco perchè nascono le idee di “esportare la (nostra) democrazia” a colpi di cannone, di reprimere qualsiasi tentativo locale di uscire dal seminato nordista (vedi il povero Sankara in Burkina), tutto giustificabile in nome del superiore interesse non più (o non solo) della nazione, ma del “progresso”, quel progresso che la protagonista del mio ultimo libro, Julia Mwito, sente come un pericolo inafferrabile dal quale stare lontani.

Continuiamo a smantellare il contratto sociale che ci tiene assieme. Poi un giorno capita che si scopra che quelli del piano di sotto ci sono ancora, non sono morti. Diventano i “sans dents” del presidente socialista francese (http://lelab.europe1.fr/le-sms-sur-les-sans-dents-de-francois-hollande-revele-par-valerie-trierweiler-article-le-plus-lu-de-la-semaine-2874629) che si possono sfottere, salvo quando poi mettono a fuoco le periferie (e diventano quindi i nemici della nazione http://r-sistons.over-blog.com/article-banlieues-la-france-en-guerre-contre-elle-meme-l-ennemi-interieur-58352413.html). Oppure semplicemente decidono di andare a votare, e allora tutti si sorprendono, ma anche lí quelli del piano di sopra non capiscono. In America Bernie Sanders ha portato un vento di speranza tra di loro, finalmente un politico a cui credere e con cui costruire, ed ecco che il suo stesso partito l’affonda.  In Inghilterra Corbyn porta (finalmente) aria nuova al Labour, e subito Blair-il-bugiardo lo attacca https://alganews.wordpress.com/2016/06/27/nel-partito-labour-blair-attacca-corbyn-per-ilbrexit/, appoggiato da gran parte della stampa “progressista”, tipo La Repubblica (http://www.repubblica.it/esteri/2016/09/25/news/anthony_giddens_il_labour_ora_e_una_setta_con_corbyn_leader_rischia_di_scomparire_-148498169/).

Dopodichè la gente vota al contrario di quanto suggerito dalla Repubblica e da Scalfari, e tutti si sorprendono. In molti sono lí a cercare di metterci sopra il cappello. Ma non funzionerà, perchè il campanello d’allarme non era (solo) contro un modo di far politica in Italia che ha stancato, Renzi o non Renzi, il problema non si limita a lui, alla sua boria e presunzione. La questione va ben al di là. Da decenni le classi politiche e soprattutto gli ambiziosi leader di destra, centro e sinistra che cercano di arrivare ai piani alti, non hanno piú nulla da dire a quelli di sotto. Non fanno sognare nessuno, nel nord come nel sud del mondo. Quasi nessuno li vuole ascoltare, anche se i pochi esempi di politici rimasti nel cuore della gente sono proprio quelli che non hanno mai perso le loro radici al piano di sotto. Uno fra tutti: Pepe Mujica, ex-presidente dell’Uruguay, che ha dimostrato che si può far politcia in modo diverso, senza perdere di vista chi sta peggio, con onestà, preparazione e empatia, visibilissima in tutti i suoi atti pubblici e privati.

Quindi non sto qui a discutere su quanto sia bello che abbia vinto il NO o abbia perso il SI. Voglio solo ricordare che questi segnali si stanno accumulando, lentamente ma inesorabilmente, su tutto il pianeta. Gli estremisti islamici stanno cercando di metterci il loro cappello sopra a questa rabbia che cova nelle cantine, ma al di là di qualche caso limitato, sembra difficile immaginare che sia una religione a poter far da collante a tutto ció. Più probabile che spinga ulteriormente a dividersi, ad odiarsi, ma di questo non abbiamo bisogno.

Quello che ci serve è un cammino diverso, umile ed ambizioso nello stesso tempo. Un viaggio verso gli altri che in tanti possiamo cominciare a fare, dal nostro piccolo quotidiano, il nostro paese (https://www.youtube.com/watch?v=biekjXni8kI )  su su fino ai piani della politica. Si tratta di ripensare il vivere assieme come lo stanno già facendo in tanti: https://www.theguardian.com/sustainable-business/blog/buen-vivir-philosophy-south-america-eduardo-gudynas.

Riparare le ferite inflitte al nostro patto sociale, ripensare l’economia e la finanza al servizio dell’uomo e non viceversa, rompere il tabú del pensiero unico e cominciare a valorizzare la diversità, non solo la biodiversità, ma la nostra. Non aver paura a dire che questo modello economico impostoci dagli gnomi di Wall Street e dalle grandi organizzazioni finanziarie internazionali distrugge lavoro, natura e rapporti sociali, costirngendoci tutti a diventare dei nomadi, alla disperata ricerca di un lavoro che non c’é più. Invece di costruire muri a casa nostra, e nello stesso tempo veder partire i nostri figli all’estero, esattamente quello che fanno le famiglie del sud del mondo, lottiamo per cambiare le cose alle origini. Fra quanti cantano per la vittoria e quelli che si lamentano per la sconfitta, andate a vedere se qualcuno sia stato capace di allargare l’orizzonte dell’analisi al di là del proprio orticello, se ci sia qualcuno capace di dire alto e forte che non possiamo piú continuare cosí, e che bisogna andare a cambiare di modello economico e di società se vogliamo continaure a restare su questo pianeta.

Vasto programma direte in tanti al leggere queste parole. Lo so, ne sono cosciente. Ma vi prego di credere che dopo oltre trentanni di girovagare, leggere, ascoltare e discutere, nonchè vederle in prima persona, arrivo a queste conclusioni con il cuore pesante. L’invito é quindi di fare uno sforzo ulteriore. Non è piú sufficente abbassarsi e cercare di capire le ragioni degli esclusi, dei forgotten, i sans dents. Sappiamo da doive viene la rabbia, il sentimento di esclusione. La risposta non può più essere: non ci sono soldi. I soldi per le armi ci sono, quindi è una balla. I soldi per tornare a sognare si poossono trovare, basta cambiare le priorità, ma questo va fatto collettivamente, pensando e costruendo il futuro che vogliamo, per finirla con quelli che il futuro ce lo continuano a rubare.









mercoledì 30 novembre 2016

L’infinito addio di Fidel


La processione della settimana santa continua, e finirà solo nel prosismo week-end quando le spoglie del Lider Maximo saranno inumate nella sua città.

Ho aspettato un po’ prima di scrivere qualcosa, essendo i sentimenti un po’ misti. Come tutti (o quasi) credo che si debba dargli atto della liberazione di Cuba da una situazione di sottosviluppo culturale e economico dove l’aveva confinata lo zio Sam. Detto questo, va anche ricordato che non era da solo in questa avventura, iniziata col primo tentativo di sbarco del 1953, ma grazie alla sua parlantina, la cultura gesuitica e a una ego smisurata, riuscì ben presto a imporsi come il gran capoccione. Quella era un’epoca in cui si privilegiavano gli eroi solitari, ma non era un obbligo. Fu una scelta, di uomini in carne ed ossa. Ed ecco che quando apparve sulla scena un possibile prim’attore come il Che, Fidel fece di tutto per allontanarlo in modo da evitare la sua ombra.

Fidel fece peró un’altra cosa, poco conosciuta dal gran pubblico, ancorchè tutto fu fatto alla luce del sole. Ricordando che era figlio di un produttore agricolo con una relativa (grande) estensione di terra, senza essere un vero e proprio latifondista, quando si trattò di promuovere la nazionalizzazione delle terre in mano alle imprese americane, la versione di riforma agraria che venne proposta era alquanto blanda, fissando un limite di oltre 400 Ha al di sopra dei quali si diventava soggetti all’esproprio. Con questa legge si eliminavano i grandi latifondi improduttivi, ma si lasciava chiaramente una parte importante all’iniziativa privata, cosa che era abbastanza in linea con le idee fondamentali di Fidel. Come si trova scirtto sul sito marxismo.net,  questa legge “Non intaccava in maniera rilevante il potere delle multinazionali, che potevano mantenere il possesso dei terreni oltre il limite stabilito, a discrezione del governo. A un’analisi approfondita non differiva da altre leggi di riforma applicate in altri paesi dell’America Latina” (http://www.marxismo.net/opuscoli/cuba.htm)

La reazione isterica degli Stati Uniti di Eisenhower, che rifiutarono in blocco questa legge, provocó una accellerata svolta in direzione di un socialismo in salsa sovietica, con una nuova legge di riforma agraria che avrebbe cancellato di fatto la proprietà privata. Che Fidel avesse realmente in mente quel modello resta materia ancora aperta tra gli storici. Quel che è sicuro è che non avendo lui stesso domestichezza con il tema agrario, dovette seguire le direttive ideologiche che portarono rapidamente al potere una casta di burocrati che si impegnarono a copiare pedissequamente un modello che non aveva nessuna possibilità di funzionare, non rappresentando nè gli interessi degli operai nè quello dei contadini.

Da quel momento la storia divenne quella conosciuta, di un leader attaccato al potere, mantenuto in quel posto dalla ignoranza (e l’odio) americana, facendone un burattino di decisioni che venivano regolarmente prese altrove.

La grancassa mediatica locale, il controllo assoluto dei media e l’impossibilità per una qualsiasi forma di opposizione democratica di organizzarsi e di essere accettata in quanto parte fondamentale nella dialettica politica, permisero al regime castrista di affermarsdi, controllare tutti i gangli vitali e approfittarne per mettere le mani sul formaggio, con un nepotismo tipico di quello che consideriamo il terzo mondo (che oramai abbiamo in casa anche noi).

Fosse morto subito dopo la presa del potere, l’indomani della prima legge di riforma agraria, oggi saremmo qui a celebrare un eroe al pari (e forse più) del Che. Ma lasciare all’apice della propria fortuna non ha mai contraddistinto gli uomini di potere. Il voler mantenersi negli anni, a tutti i costi, grazie all’appoggio datogli dagli Stati Uniti che ne hanno fatto il “male” assoluto, permettendo così di sfruttare a fini di appoggio interno tutto quanto veniva sparato dai media americani, fa sì che oggi guardiamo con distacco e un certo fastidio la dipartita di uno degli uomini che avrebbero potuto rappresentare molto per le speranze degli oppressi e che invece, al pari di tanti che l’hanno seguito, ultimo Chavez o il prossimo, Mugabe, ha contribuito moltissimo ad allontanare le masse giovanili da ideali e valori socialisti.

Non piango per la tua morte Fidel, perchè credo che i molti demeriti successivi, abbiamo largamente oscurato gli aspetti positivi all’inizio della tua avventura. RIP Fidel, ma speriamo di non aver più bisogno di falsi eroi e falsi miti, perchè la lotta collettiva per migliorare questo mondo e le condizioni di vita di milioni e milioni di poveracci si possa fare senza dover ricorrere a figure come la tua.



2016 L52: Jonas Jonasson - L'analphabète qui savait compter

LES PRESSES DE LA CITE (2013) 

"Statistiquement la probabilité qu'une analphabète née dans les années 1960 à Soweto grandisse et se retrouve un jour enfermée dans un camion de pommes de terre en compagnie du roi de Suède et de son Premier ministre est d'une sur quarante-cinq milliards six cent soixante-six millions deux cent douze mille huit cent dix.
Selon les calculs de ladite analphabète."

Tout semblait vouer Nombeko Mayeki, petite fille noire née dans le plus grand ghetto d'Afrique du Sud, à mener une existence de dur labeur et à mourir jeune dans l'indifférence générale. Tout sauf le destin. Et sa prodigieuse faculté à manier les nombres. Ainsi, Nombeko, l'analphabète qui sait compter, se retrouve propulsée loin de son pays et de la misère, dans les hautes sphères de la politique internationale.
Lors de son incroyable périple à travers le monde, notre héroïne rencontre des personnages hauts en couleur, parmi lesquels deux frères physiquement identiques et pourtant très différents, une jeune fille en colère et un potier paranoïaque. Elle se met à dos les services secrets les plus redoutés au monde et se retrouve enfermée dans un camion de pommes de terre. À ce moment-là, l'humanité entière est menacée de destruction.

Bello. Da leggere e da ridere, stesso senso dell'umorismo del precedente. Sarà ovviamente nella top.
E con questo chiudo l'anno dato che adesso devo occuparmi del trasloco indesiderato.

martedì 29 novembre 2016

2016 L51: Antonio Fusco - La pietà dell'acqua


Giunti, 2015

È un ferragosto rovente e sulle colline toscane ai confini di Valdenza viene trovato il corpo di un uomo, ucciso con una revolverata alla nuca, sotto quello che in paese tutti chiamano “il castagno dell’impiccato”. Non un omicidio qualunque, ma una vera e propria esecuzione, come risulta subito evidente all’occhio esperto del commissario Casabona, costretto a rientrare in tutta fretta dalle ferie, dopo un’accesa discussione con la moglie. Casabona non fa in tempo a dare inizio alle indagini, però, che il caso gli viene sottratto dalla direzione antimafia. Strano, molto strano. Come l’atmosfera di quei luoghi: dopo lo svuotamento della diga costruita nel dopoguerra, dalle acque del lago è riemerso il vecchio borgo fantasma di Torre Ghibellina, con le sue casupole di pietra, l’antico campanile e il piccolo cimitero. E fra le centinaia di turisti accorsi per l’evento, Casabona si imbatte in Monique, un’affascinante e indomita giornalista francese. O almeno, questo è ciò che dice di essere. Perché in realtà la donna sta indagando su un misterioso dossier che denuncia una strage nazista avvenuta proprio nel paesino sommerso.
Un dossier scottante, passato di mano in mano come una sentenza di morte, portandosi dietro un’inspiegabile catena di omicidi. E tra una fuga a Parigi e un precipitoso rientro sui colli, Casabona sarà chiamato a scoprire che cosa nascondono da decenni le acque torbide del lago di Bali. Qual è il prezzo della verità? E può la giustizia aiutare a dimenticare?


Bello!! Assolutamente consigliato, sarà nella Top.




2016 L50: Saskia Noort - Petits meurtres entre voisins


Folio policier 2009

Karen et Michel ne regrettent pas d'avoir quitté la capitale pour le petit village où ils viennent s'installer. En plus d'un rythme de vie apaisé, ils ont trouvé un cercle social des plus grisants : un groupe d'urbains convertis aux bienfaits de la campagne qui partagent comme eux le goût de la bonne chère, des boissons et de l'argent. Ensemble ils fondent un club et passent leur vie les uns chez les autres.
Subrepticement, pourtant, l'équilibre vacille. Un violent incendie éclate en pleine nuit chez un des couples, tuant le mari. Autour de cette mort brutale, les jalousies et les rancœurs commencent à affleurer : adultère, soupçons de malversations. Et lorsque, quelques jours plus tard, un autre membre se défenestre depuis une chambre d'hôtel, le doute s'installe pour de bon. Puis la peur. Puis l'angoisse : un assassin se cache-t-il parmi eux?...

Poco interessante... da lasciar perdere..

lunedì 14 novembre 2016

2016 L49: Mathias Enard: Remonter l'Orénoque

Actes Sud, 2016

Dans les corps qu'ils ouvrent, les patients qu'ils soignent, et jusque dans leur amitié, deux chirurgiens cherchent, comme à tâtons, une vérité qui justifierait leur propre existence. Youri opère sous les yeux de Joana, la jeune infirmière qu'Ignacio convoite ; au cœur d'un été caniculaire et d'un hôpital en pleine déliquescence, l'un se perd dans la passion comme l'autre dans l'alcool et la folie. Ils pousseront Joana à les fuir, à entreprendre un long voyage au Venezuela : remonter le grand fleuve Orénoque sera pour elle l'occasion de démêler, depuis le ventre tiède d'un cargo, l'écheveau de leurs vies. Au fil de ce voyage vers l'Amazonie, le deuxième roman de Mathias Enard nous emporte au centre d'un triangle amoureux dont les sommets seraient la naissance, le corps et le désir, tous trois si ténus qu'ils ne sont peut-être que des reflets sur les eaux boueuses d'une rivière mythique.

Proprio non mi é piaciuto. E' stata una sofferenza arrivare alla fine, ma non ve lo consiglio proprio.

giovedì 10 novembre 2016

La trahison des clercs - il tradimento dei chierici


I “forgotten” hanno votato, massicciamente per Trump. Come hanno evidenziato molti giornalisti, Clinton ha perso perché per la prima volta da decenni la Rust Belt ha votato per il candidato repubblicano. Alcuni sono lí a ripetere come un mantra: come sia stato possibile, dato che, grazie a Obama, la disoccupazione è scesa al 5%. Ci voleva poco per pensare che ci fosse “anguille sous roche” come dicono i francesi, cioè che ci fosse qualcosa che non andava. Ieri sera ci si è messo il prof. Thomas Porcher di Parigi a spiegare che quel valore, 5%, nasconde una realtà molto più amara, fatta di un numero crescente a ritmi vertiginosi di pasti distribuiti dalle mense dei poveri, a testimonianza di due cose: la prima è che i salari non sono saliti, per cui adesso esiste una povertà diffusa di gente che lavora e vive di carità alimentare, dorme in macchina etc. La seconda che una fetta dei disoccupati, quelli di lungo periodo, non cercano nemmeno più, talmente scoraggiati dalle evidenze che vedono attorno a sè, per cui cala la disoccupazione e aumenta la povertà.  Che sia stata più forte la seconda lo si è capito ieri, quando questa fascia di classe media impoverita, ex classe operaia ha votato per colui che ha saputo presentarsi come l’uomo del cambiamento.

Il punto centrale è proprio questo qui: la casta al potere, repubblicana o democratica che fosse, da decenni predicava la stessa politica economica, il famoso Consenso di Washington, fatto di appoggio totale alla globalizzazione, apertura dei mercati finanziari, chiusura delle migrazioni umane, sviluppo tecnologico tendente a rafforzare l’individualizzazione dell’essere di fronte a quella che decenni fa si chiamava la massa.

Questa era la “populace”, i “forgotten” che da anni non andavano più a votare, quelli a cui nessuno si interessava più perchè non c’era nulla da offrire, non una speranza, nulla.  Lenin aveva insegnato che per fare la rivoluzione a u certo punto bisognava raccoglierlo questo malcontento e costruire su quello la presa del potere. Trump ha cos1i applicato l’ABC del buon leninista.

Non importa discettare su cosa abbia proposto e cosa poi farà. Quella è un’altra discussione. Come sappiamo tra promesse e realizzazioni ne passa di acqua sotto i ponti. Il punto sul quale non mi sembra si sia fermato nessuno è proprio la causa che ha portato poi questi “forgotten” ad essere così scontenti. Per me la causa è abbastanza chiara perchè la vedo all’opera ogni giorno nei tanti paesi dove opero. Un modello economico escludente, concentratore di ricchezze che sta pian piano spazzado via le conquiste sociali, economiche e culturali che decenni di lotte avevano ottenuto, e questo con il beneplacito quasi assoluto delle forze dette progressiste.

Che i partiti di destra siano a favore di quel modello mi sembra tautologico. Sono forze politiche nate per fare quel tipo di lobbying, quindi non sto qui a giudicarle. Giudico invece quelle forze che erano nate in opposizione a questo modello e che, col tempo, si sono fatte prendere in un abbraccio mortale. Ce l’ho con quel mondo intellettuale che ha dimenticato di fare il suo lavoro e ha trovato molto più semplice e soddisfacente starsene in poltrona, ribattendo le solite ovvietà prodotte dal circolo Barnum della comunicazione fittizia e manipolata. Le centinaia di giornali e media ameircani schierati compatti a favore della Clinton hanno sputtanato mondialmente tutta la categoria. Frotte di analisti a spiegarci perchè lui non poteva vincere, ed eccolo lì. Ha vinto lui, il suo discorso che ha toccato le corde sensibili dei “forgotten”. Da politico ha ovviamente aggiunto tutta una serie di altre frasi, concetti, idee una più complicata e rabbiosa dell’altra... Ma se ha vinto ha vinto per quei voti. I “progressisti” non fanno più sognare, per cui, dico io, impariamo la lezione e torniamo a studiare, a cancellare questi partiti e far ripartire qualcosa di diverso dal basso.  Ceteris paribus la Francia voterà a destra, e forse così a destra da far passare la Le Pen, ma non perchè sia fascista, solo perchè da anni sono gli unici ad andare a razzolare in mezzo ai forgotten francesi. Le proposte di Trump non valgono niente e porteranno alla rovina? Lo spero proprio per alcune di loro, ma quando penso al gran programma di lavori pubblici non sono poi cosí negativo. E nemmeno quando dice di esser contro la globalizzazione... Ma comunque non voglio fare la disanima punto per punto, la questione per me è il segnale mandato a tutti noi “di sinistra”. O ci diamo da fare oppure per recuperare quel gap perso da decenni, e ci vorrà tempo ed energie, e, ripeto, di certo non questi politici attuali, oppure accettiamo l’evidenza che saranno altri a raccogliere quei voti. Si chaima democrazia, che ci piaccia o meno.




mercoledì 9 novembre 2016

Elezioni USA: una volta tanto ha perso Wall Street


 Posso capire i sentimenti constrastanti che stanno agitanto l’universo mondo in queste ore, ma nel contempo penso sarebbe opportuno cominciare a ragionare a mente fredda, da una prospettiva europea e in funzione anche dei nostri interessi di cittadini europei.

Fatte salve tutte le derive buffonesche del personaggio, ci sono alcuni elementi da sottolineare in queste elezioni:
1.       
     Una volta ancora gli istituti di sondaggio e i vari opinion-makers dell’insieme dei media si sono sbagliati alla grande. Non è bastato il tonfo del Brexit per capire che non ci si puó fidare delle inchieste dei sondaggisti ma, peggio ancora, chi ne esce con le ossa rotta sono quei media che per lavoro dovrebbero occuparsi di studiare il proprio paese, quegli esperti sempre pronti ad andare in televisione ma mai interessati ad essere lí dove il popolo vero si trova. Traiamone quindi le conclusioni e cominciamo infine a pensare con la nostra testa invece di farci infinocchiare da numeri e numeretti buttai lí come specchietti per le allodole.

2.       Ha perso Wall Street, che già si preparava a un trasloco in grande stile a Washington, portandosi nei bagagli la loro venditrice ufficiale in gonnella. Non mi faccio illusioni che questo schiaffo basti a far rinsavire i finanzieri, ma almeno lasciami godere questo piccolo momento di gioia.
3.      
      Ha vinto il popolo americano della classe bassa e media. Trump ha dimostrato una verità molto evidente anche in Europa ma che abbiamo molte difficoltá ad ammettere (e vedremo cosa succederà in Francia fra poco): questo modello di turbocapitalismo sta distruggendo lavoro (e la natura) a un ritmo forsennato. I ricchi diventano sempre meno numerosi e sempre più ricchi, mentre la classe media si impoverisce, il lavoro sparisce e chi stava giù nella scala sociale si ritrova nel sottosuolo. Una volta c’erano delle forze di sinistra a dire queste cose e a promettere cambiamenti. In America è brillata la stella di Sanders, un politico onesto, coerente, preparato e di sinistra che aveva dato fiato al sentimento di ribellione da sinistra. Il suo partito l’ha fatto fuori, pensando che in quel modo eliminava il problema. Trump ha fatto campagna presso quella gente, lisciando il pelo degli istinti più bassi se vogliamo, ma sicuramente è riuscito ad apparire come l’unico che si interessa a loro. Non ci piace Trump? Perfetto. Non ci piace Marine Le Pen? Va bene. Ma cosa andrebbe fatto per cambiare questo andazzo? I Democratici americani hanno scelto di allinearsi su Wall Street, e giustamente pagano lo scotto di una candidata impresentabile come Hillary. In Francia i comunisti sono scomparsi, cosí come gli ecologisti e i socialisti fanno politiche più a destra dei vecchi partiti conservatori al potere qualche decennio fa. Non parlo dell’Italia per non cadere sempre nel Renzi sí o Renzi no. Il punto resta che se cotinuiamo ad abbandonare il popolo vero, il giorno che andranno a votare lo faranno per chi non li ha dimenticati, poco importa che le promesse siano ridicole o mostruose. Quando mai si é visto che un politico mantenga le proprie promesse? Ricordiamoci Andreotti e la mitica frase secondo cui le promesse in politica si possono anche non mantenere, ma bisogna saperle fare. La questione centrale per chi ancora pensa di essere di sinistra, è l’accettazione pura e semplice di un modello economico che ci porta al baratro. A partire dal momento che cominciamo a dire che altre possibilità non esistono, e quindi non le vogliamo nè cercare nè studiare, la conseguenza logica è che i poveri, i senza lavoro, non vogliamo più vederli perchè non abbiamo nulla da offrire loro. Ed ecco il letto preparato per i futuri populismi o avventurieri come Donald. La sua elezione dovrebbe insegnarcelo, ma non sono sicuro che in tanti lo capiranno.
4.     
            Un’occasione per diventare europei? Grazie a Trump, gli europei dovranno scegliere cosa fare con le armate americane di stanza a casa nostra. Lui dice, banale banale, che se voglaimo la protezione americana dobbiamo pagare. Otitmo, finalmente qualcuno che mette un prezzo a questo. L’unico modo per cercare di convincere i 28 governi che abbiamo bisogno di una difesa europea degna di questo nome, e non più terziarizzata agli americani, era questo: che un Donald qualunque venisse a dire: cacciate i soldi. Forse finalmente cominceremo a pensare a un’Europa unita anche da quella parte.
5.     
           Finalmente, ha perso Obama: dico per fortuna. Avrà fatto tante cose buone (ma a parte gli orti di Michelle non me ne vengono in mente... ) ma Guantanamo non l’ha chiusa, le guerre in medio oriente sono peggio di prima, e soprattutto, guardandolo con gli occhi europei e non della banca centrale di Francoforte, Obama ha aiutato ad esportare la crisi del 2008 verso casa nostra. Loro ne sono venuti un po’ fuori, ma con condizioni lavorative sempre peggiori, per cui si é ridotto il tasso di disoccupazione ma é aumentata la povertà... ma noi da quel casino non ne siamo venuti fuori. Ovvio che abbiamo molte colpe noi, ma un alleato come quello lí io sarei contento stesse un po’ a casa sua.

Detto questo, é ovvio che hanno perso anche le donne, o almeno quelle che speravano, non si sa su quali basi, che Hillary avrebbe fatto qualcosa per loro. Il principio delle promesse non mantenute si applica anche a lei. Già avevamo avuto un Clinton alla casa Bianca per cui possiamo dire di conoscere l’abisso fra le promesse progressiste e quelel poche mantenute. Per cui, da oggi si cambia. Spero che dalle nostre parti si capisca il lavoro profondo di rifondazione che i partiti e movimenti devono fare, altrimenti arriverà anche da noi la stessa tromba d’aria...

martedì 8 novembre 2016

2016 L48: Giulia Caminito La Grande A


Giunti, 2016

Giada è una bambina considerata da tutti perennemente manchevole, troppo minuta, ''una raganella'', che vive malvolentieri a casa degli zii in provincia di Milano. Da che sua madre se n'è andata per trafficare con camion, alcolici e bar nelle colonie italiane in terra d'Africa, Giada non pensa ad altro che a raggiungerla in quella che lei chiama ''La Grande A'', una terra che immagina piena di meraviglie e di promesse.
Ma una volta giunta ad Assab, una cittadina avvolta nell'arsura e nell'aria salmastra, la vita sembra ruotare solo intorno al piccolo bar che Adi gestisce fino a notte fonda, dove Giada fa molte nuove conoscenze: da Hamed, il garzone che non sa scrivere, a Orlando, il compagno della madre animato dalla retorica fascista vecchio stampo; dalla gazzella Checco, che vive in casa come un animale domestico, a Giacomo Colgada, un giovane italiano farfallone che sembra la copia di un attore del cinema. Ed è proprio con lui che inizia la vera storia di Giada: il matrimonio imposto da Adi, le insidie di suocera e nuora, la fortuna economica, il boom del Circolo Juventus di Addis Abeba, gli incredibili viaggi con la jeep nel deserto, i dolorosi chiaroscuri di Giacomo che obbligano Giada al continuo raffronto con una donna dura e intraprendente come sua madre.
Liberamente ispirato alla biografia di famiglia, ''La Grande A'' è il primo romanzo di Giulia Caminito che racconta un pezzo dimenticato di storia italiana con una scrittura inventiva e spiazzante.
Bravissima Giulia! Complimenti. Da leggere. Sará nella Top.

lunedì 24 ottobre 2016

2016 L47: Newton Thornburg - La renversée


Gallimard, 1969

«"Ce grand immeuble, sur l'autre rive du fleuve, expliqua Cross, c'est la banque du Commerce. Et maintenant, tout en bas, vous voyez cette petite porte d'acier inox ? C'est par là que passe le fric destiné à la banque..." "Alors, s'exclama Raven en ricanant, c'est là qu'on va braquer le fourgon blindé ? Au beau milieu de la ville ?" "Autre chose, reprit Cross, imperturbable. On n'emportera pas le magot avec nous. On le balancera aussi sec... à la flotte !"»

vabbé... letto e messo via... niente di speciale...

mercoledì 19 ottobre 2016

2016 L46: Pierre Magnan - Le commissaire dans la truffière


Gallimard, 1978

Qui aurait dit à Laviolette, venu à Banon, Basses-Alpes, pour y déguster une omelette aux truffes, qu'il y trouverait des cadavres ? Qu'il se casserait le nez sur un tombeau protestant depuis longtemps désaffecté et qu'il serait obligé de partager ses lauriers avec une truie nommée Roseline ?
Comme d'habitude, la solution ne lui apparaîtra que par hasard, au terme d'une série d'échecs tous plus lourds de conséquences les uns que les autres. 

Bello, un francese un po' aulico ma divertente.. consigliato anche questo.. candidato alla Top

martedì 18 ottobre 2016

Brasile - Bolsa Familia (Fome Zero): Era tutto oro quello che luccicava?

Leggo un articolo sulla versione elettronica del giornale di Rio O GLOBO: http://g1.globo.com/bom-dia-brasil/noticia/2016/06/mais-de-500-mil-funcionarios-publicos-receberam-bolsa-familia-diz-mpf.html

Dopo il cambio di governo avvenuto qualche mese fa, é iniziata una verifica dettagliata degli iscritti al famoso programma di lotta alla fame. I primi accertamenti indicano la cifra astronomica di cinquecentomila funzionari pubblici che risultano iscritti al programma per cui ricevono dei sussidi come fossero dei poveracci del NordEst.

Capisco che il Brasile é il paese "mais grande du mundo..." ma mi sembrano cifre da far impallidire anche i nostri compaesani (penso in particolare all'insuperabile Remo Gaspari - vi invito a leggere l'articolo che segue: http://ricerca.gelocal.it/ilcentro/archivio/ilcentro/2013/09/03/AQ_12_11.html - che alle poste era riuscito a far assumere tutta Pescara e paesi limitrofi, ma mai si era inepricato a questi livelli. Qua stiamo confrontando il pur rispettabile Monte Bianco con l'Everest.

Spero proprio che qualcuno dei miei amici brasiliani mi spieghi come questo sia stato possibile. Si tratta di cifre, se non erro, relative al solo periodo 2013-2014. Il problema delle liste "aggiustate" d'altronde é nato assieme al Fome Zero: ricordo le discussioni con il mio amico Padre Martinho su come le buone intenzioni di Brasilia finissero troppo spesso nelle tasche degli amici degli amici a livello locale.  Si pensava peró di averne posto rimedio, ma adesso invece viene fuori che quello era solo lo stadio zero del missile Bolsa Familia/Fame Zero e che il bello era tutto da scoprire.

Vedremo nei prossimi mesi cos'altro salterá fuori. L'unica cosa sicura, su cui possiamo mettere la mano al fuoco, é che i fondi per il programma saranno ridotti, data la crisi economica in cui Dilma ha lasciato il paese, e che il numero di poveri e affamati riprenderà a salire.

La mia personale impressione é la stessa di tanti altri commentatori: non aver voluto cambiare le ragioni strutturali del problema della fame e della povertà rurale (che, come scriveva 70 anni fa Josué de Castro, sono riconducibili in buona parte a una struttura agraria altamente diseguale), cioé non aver fatto una riforma agraria seria, come tuttavia era stata promessa dall'allora candidato Lula, ha lasciato il problema della povertà e fame in balia di misure congiunturali (ancorchè "politiche pubbliche") dipendenti dai prezzi internazionali delle commodities. Finchè c'erano soldi da spartire, tutto é andato bene, ma adesso che non c'é trippa pe' gatti, é logico attendersi quello che i francesi chiamano un "retour de bâton prévisible et mérité".



venerdì 14 ottobre 2016

2016 L45: Romain Puertolas - L'extraordinaire voyage du fakir qui était resté coincé dans une armoire ikea

Le Dilettante 2013

Un voyage low-cost... dans une armoire Ikea! Une aventure humaine incroyable aux quatre coins de l'Europe et dans la Libye post-Kadhafiste. Une histoire d'amour plus pétillante que le Coca-Cola, un éclat de rire à chaque page mais aussi le reflet d'une terrible réalité, le combat que mènent chaque jour les clandestins, ultimes aventuriers de notre siècle, sur le chemin des pays libres.

Il était une fois Ajatashatru Lavash Patel (à prononcer, selon les aptitudes linguales, "j'arrache ta charrue" ou "achète un chat roux"), un hindou de gris vêtu, aux oreilles forées d'anneaux et considérablement moustachu. 

Profession: fakir assez escroc, grand gobeur de clous en sucre et lampeur de lames postiches. Ledit hindou débarque un jour à Roissy, direction La Mecque du kit, le Lourdes du mode d'emploi : Ikea, et ce aux fins d'y renouveler sa planche de salut et son gagne-pain en dur: un lit à clous. 

Taxi arnaqué, porte franchie et commande passée d'un modèle deux cents pointes à visser soi-même, trouvant la succursale à son goût, il s'y installe, s'y lie aux chalands, notamment à une délicieuse Marie Rivière qui lui offre son premier choc cardiaque, et s'y fait enfermer de nuit, nidifiant dans une armoire... expédiée tout de go au Royaume-Uni en camion.

Digne véhicule qu'il partage avec une escouade de Soudanais clandestins. Appréhendés en terre d'Albion, nos héros sont mis en garde à vue.

Réexpédié en Espagne comme ses compères, Ajatashatru Lavash Patel y percute, en plein aéroport de Barcelone, le taxi floué à qui il échappe à la faveur d'un troisième empaquetage en malle-cabine qui le fait soudain romain... et romancier (l'attente en soute étant longue et poussant à l'écriture). 

Protégé de l'actrice Sophie Morceaux, il joue une nouvelle fois la fille de l'air, empruntant une montgolfière pour se retrouver dans le golfe d'Aden puis, cargo aidant, à Tripoli. 

Une odyssée improbable qui s'achèvera festivement en France où Ajatashatru Lavash Patel passera la bague au doigt de Marie dans un climat d'euphorie cosmopolite. 

Sur le mode rebondissant des périples verniens et des tours de passe-passe houdinesques, voici donc, pour la première fois dans votre ville, 

L'extraordinaire voyage du fakir qui était resté coincé dans une armoire Ikea, un spectacle en Eurovision qui a du battant, du piquant et dont le clou vous ravira. Non, mais.

Molto "rigolo"... da ridere e da leggere assolutamente... ovvio che sarà nella Top

giovedì 13 ottobre 2016

2016 L44: Cédric Bannel - Baad



Robert Laffont 2016

BARBARIE 
Des jolies petites filles, vêtues de tenues d’apparat, apprêtées pour des noces de sang. 

ABOMINATION 
Deux femmes, deux mères. À Kaboul, Nahid se bat pour empêcher le mariage de sa fille, dix ans, avec un riche Occidental. À Paris, les enfants de Nicole, ex-agent des services secrets, ont été enlevés. Pour les récupérer, elle doit retrouver un chimiste en fuite, inventeur d’une nouvelle drogue de synthèse. 

AFFRONTEMENT
Il se croit protégé par ses réseaux et sa fortune, par l’impunité qui règne en Afghanistan. Mais il reste encore dans ce pays des policiers déterminés à rendre la justice, comme l’incorruptible chef de la brigade criminelle, le qomaandaan Kandar. 

DÉFLAGRATION 
Nicole et Nahid aiguisent leurs armes. Pour triompher, elles mentiront, tortureront et tueront. Car une mère aimante est une lionne qui peut se faire bourreau.

Bello.. non c'é altro da dire. Candidatissimo alla Top dell'anno.

lunedì 10 ottobre 2016

Haiti: per finirla con la retorica della sofferenza

L’uragano Matthew è passato da quelle parti e subito i morti si sono contati a centinaia. A Cuba non ne ha fatto nemmeno uno e negli Stati Uniti, a forza di cercare, ne hanno trovati una decina, così da giustificare lo spiegamento di forze per far sfollare qualche milione di persone.

Non mi interessa Matthew, dato che non sarà certo l’ultimo; il mio sguardo va verso i giornali e telegiornali che, o per ignoranza o per altro, hanno fatto circolare l’informazione su Haiti, ricordando, al massimo, che il paese è ancora per terra dopo il terremoto del 2010. Non ne ho trovato uno, o una, che facesse uno sforzo per cercare di capire come mai questo paese sia messo così male.

Quando va proprio bene, troviamo qualche reportage che ci illustra la deforestazione quasi totale e la degradazione dei suoli agricoli e poi il fatto che gran parte della gente viva in capacchie di legno e bandoni e fango. Già questo é un primo passetto in avanti nell'informazione. Invito quindi a farne qualcuno in più, così la prossima volta che un cugino di Matthew passi da quelle parti e faccia qualche altro centinaio o più di morti, almeno la smettiamo di piangere per quello e cominciamo a dirigere la rabbia verso altri lidi.

Il giorno dopo il terremoto del 2010, una radio francese intervistava un membro del gruppo “architetti senza frontiere” (mai sentito prima, ma va bene lo stesso), in partenza per la capitale. Il suo giudizio era quanto mai sferzante e, dal mio punto di vista, di una correttezza esemplare. Diceva, in soldoni, che sarebbe stato un grossissimo problema ristrutturare e ricostruire le case (il riferimento era, all’epoca, ai tanti morti nella capitale) dato che nessuno aveva un pezzo di carta, un titolo o roba simile, che ne certificasse la proprietà.

La stessa situazione si applica da decenni e decenni (non voglio andar indietro di secoli, ma ritroveremmo la stessa situazione) anche nelle campagne agricole. Il tutto aggravato dalla solita concentrazione di terra in mano a poche famiglie e, da ultimo, un sistema legale e giuridico quanto mai farraginoso, fatto apposta per complicare qualsiasi operazione di accatastamento.

Nessuno si sente proprietario a casa sua o nella sua terra (proprietario non nel senso come lo intendiamo noi, ma almeno sicuro di avere una legittimità forte e riconosciuta, che a volte passa anche per un pezzetto di carta con una X messa sopra). La mancanza di sicurezza fondiaria, ce lo insegnano i liberisti della banca mondiale, porta ad avere una relazione predatoria rispetto al bene in oggetto: non si investe per migliorarlo o proteggerlo, come fanno i contadini nel resto del mondo, ma si prende quel che si può nel minor tempo possibile. Il concetto di futuro, di domani, diventa sempre più aleatorio, per cui intanto tiriamo a campare oggi e poi si vedrà.

Haiti era un’isola molto più prosperosa della Repubblica Dominicana, tanto che i francesi fecero di tutto per barattarla con gli spagnoli, facendo cambio: io mi prendo Haiti, le sue foreste, le sue sorgenti, e vi do questa metà Dominicana che interessava molto poco. Oggi se guardate su un google earth qualsiasi, Haiti lo riconoscete perchè non vedrete una macchia di verde neanche dipingendola. Deforestazione, degradazione delle terre e coltivazione su qualsiasi pendente fanno sì che alle prime gocce di ioggia viene giù tutto, figuratevi quando arriva un uragano.

La comunità internazionale ha fatto di tutto per non vedere sul serio questo problema. Abbiamo proposto dei palliativi, tipo il piantare alberelli (un collega forestale mi diceva che con gli alberelli che noi abbiamo fatto piantare avremmo fatto un’autostrada da Port Au Prince fino a Roma). Non ce ne sono più di alberi perchè una volta messi lì, sulle terre di qualcun altro, appena arrivava la fine del progetto finiva tutto, anche i salari per quei quattro poveracci che lavoravano col sistema del food for work. Tanto poi, la comunità internazionale, intenerita dalle immagini che periodicamente arrivavano da questa Africa piazzata in mezzo ai Caraibi, mandava sempre altri soldi per cui non mancava mai una organizzazione, grande o piccol, pronta a proporre un altro progetto... di riforestazione....

Il terremoto, come fu chiaro a qualcuno di noi, rappresentava un’occasione storica per affrontare i veri problemi alla radice. Lo scrissi in messaggi interni ai miei colleghi, corsi sul posto per aiuti di emergenza. Lo scrissi e lo dissi ai miei capi, lo andai a ripetere sul posto, ma nulla è mai stato fatto. Toccare la questione dei diritti sulla terra, in campagna e in città, vuol dire affrontare il potere economico e politico, cosa che le Nazioni Unite e i vari donanti internazionali, Francia in testa, non hanno mai voluto fare.

Era quello il momento quando esisteva una legittimità per intervenire, i poteri forti erano meno forti, c’erano soldi e si poteva quindi iniziare.

Non è stato fatto. Al giorno d’oggi, non mi pare che nemmeno il palazzo presidenziale (costruito su terre che non si sa a chi appartenessero) sia stato ricostruito anzi, a gennaio di due anni fa il presidente dell'epoca ha dichiarato che la sua ricostruzione non rappresentava una prioritá per il paese. I poveracci delle città e delle campagne non avranno mai una certezza sulle loro terre per cui continueranno a disboscare ogni albero che troveranno, perchè di energia ne hanno bisogno per cucinare e per vivere.

Haiti traeva ricchezza anche dall’allevamento dei suini, che quasi tutti i contadini avevano a casa. Andate a cercare l’anno: una minaccia di peste suina toccò gli Stati Uniti che, per proteggersi, passarono su Haiti peggio dell’uragano Matthew, uccidendo tutti, ma proprio tutti, i maiali che esistevano nel paese )a parte quelli politici ovviamente). Da allora non c’è più stato modo di far ripartire quella capitalizzazione agricola minima su cui costruire un domani migliore.

Quindi al prossimo uragano, pensateci due volte e caso mai incazzatevi con chi ha paura di fare quello che sarebbe il suo scopo ultimo: ridurre la povertà e la fame.​

PS. I colleghi responsabili delle azioni di terreno ai quali avevo cercato di spiegare questi problemi, senza successo, sono stati, nel frattempo, tutti promossi. Vabbé, magari non c'entra niente.

mercoledì 5 ottobre 2016

2016 L43: Olivier Norek: Territories



Pocket 2015

Depuis la dernière enquête du capitaine Victor Coste, le calme semble être revenu au SDPJ 93. Son équipe, de plus en plus soudée, n'aura cependant pas le temps d'en profiter. L'exécution sommaire, en une semaine, des trois jeunes caïds locaux de la drogue va tous les entraîner dans une guerre aussi violente qu'incompréhensible. Des pains de cocaïne planqués chez des retraités, un ado de 13 ans chef de bande psychopathe, des milices occultes recrutées dans des clubs de boxe financés par la municipalité, un adjoint au maire torturé, retrouvé mort dans son appartement, la fille d'un élu qui se fait tirer dessus à la sortie de l'école... Coste va avoir affaire à une armée de voyous sans pitié : tous hors la loi, tous coupables, sans doute, de fomenter une véritable révolution. Mais qui sont les responsables de ce carnage qui, bientôt, mettra la ville à feu et à sang ? Avec son deuxième polar admirablement maîtrisé, Olivier Norek nous plonge dans une série de drames – forcément humains – où seul l'humour des " flics " permet de reprendre son souffle. Un imbroglio de stratégies criminelles, loin d'être aussi fictives que l'on croit, dans un monde opaque où les assassins eux-mêmes sont manipulés. 

Per tutti quelli interessati alle discussioni globali sulla governance, questo tuffo nel quotidiano delle perifierie parigine, viste dall'angolo di una amministrazione in bilico fra corruzione e sopravvivenza é quanto mai salutare. 
Sará sicuramente nella Top

2016 L42: Franck Thilliez - Pandemia


Pocket 2016

"L'homme, tel que nous le connaissons, est le pire virus de la planète. Il se reproduit, détruit, étouffe ses propres réserves, sans aucun respect, sans stratégie de survie. Sans Nous, cette planète court à la catastrophe. Il faut des hommes purs, sélectionnés parmi les meilleurs, et il faut éliminer le reste. Les microbes sont la solution."
Après Angor, une nouvelle aventure pour Franck Sharko et Lucie Henebelle. Et l'enjeu est de taille : la préservation de l'espèce humain

Libro da divorare... molto ma molto apprezzato.. Thilliez prepara benissimo i suoi libri per cui troviamo sempre cose nuove da imparare...

Candidato alla Top 2016

martedì 4 ottobre 2016

Colombia: y ahora qué?


Bueno, creo sea inútil repetir cuanto tristes estamos con estos resultados del plebiscito. El punto es de ver si hay algo que se pueda hacer y/o los riesgos de no hacer nada. Así les invito a jugar a:
SI YO FUERA…

Los datos han revelado que un porcentaje muy alto de colombianos (62-63%) se han abstenido, lo que, junto con el hecho de la (curta) victoria del NO son los puntos clave a analizar. Mismo que hubiese vito el SI con esta misma situación, quedaría pendiente la fragilidad de esta construcción.
Desde mi punto de vista, las discusiones y un eventual acuerdo político interno a la clase política tendrán que salir del Congreso colombiano. Esto lo pone al centro de la figura de abajo. La razón principal siendo la fragilidad del presidente Santos en estos días, así como de su gobierno de Unidad Nacional, la necesidad obvia de encontrar un camino de diálogo con la oposición, manteniendo el rumbo de lo negociado para no re-abrir completamente la caja de Pandora y volver al punto cero (que podría ser el interés de Uribe en realidad). Al no lograr avanzar en este diálogo, el riesgo es que todo quede en el limbo actual, con riesgos que las acciones de guerra vuelven a empezar de nuevo (no olvidemos que estamos en una situación de tiempo suspendido también con el ELN que declaró un alto para el plebiscito, y ahora tendrá que decidir si volver la guerra o que hacer). La tentación de ir empezando la corrida para las próximas elecciones presidenciales de 2018 existe, y esto es más un peligro interno a la coalición de Santos que de la oposición que ya tiene su candidato. Por eso que este diálogo, si se deja solo en la mano del Presidente, su gobierno y la oposición (con un posible, pero limitado, papel de las FARC) podría no ir muy lejos. Para darle fuerza es necesario que una serie de otros actores salgan de su estado catatónico y empiecen a actuar de manera concertada.

Hablo primero de la ONU (tanto el Secretariado General así como las agencias técnicas), (de notar que Ban Ki-moon ya mandó su enviado especial a la Habana esta noche), de la OEA (y en particular del socio de mayoría, EEUU) y de la UNASUR. A ellas en su conjunto les toca, a mi juicio, de manifestarse en tiempos rápidos para decirle alto y claro que no puede haber marcha atrás. Este lobbying debe ejercerse tanto a nivel del dialogo político como dentro del Congreso.
La comunidad de donantes, a partir del reino de Noruega, pero no solo, pienso a la Unión Europea, España etc. debería confirmar su disponibilidad financiera para apoyar ciertas iniciativas iniciales que tendrán que arrancar rápidamente. Otras fuentes financieras, tipo el Banco mundial, el fondo GEF, el nuevo fondo de cambio climático (GCF), deberán también enviar señales de disponibilidad. Mientras las primeras son más rápidas, y pueden ser usadas para lo que propongo abajo, las segundas tienen tiempos más largo para su formulación y negociación, sin embargo son bastante más gruesas en cantidad.

Hay un actor clave, tanto en lo referente al acompañamiento de las negociaciones como por su capacidad de hacer una presión suave a distintos niveles, que, pienso yo, debería manifestarse tanto a nivel oficial, público, que informal. Hablo obviamente del Vaticano y de lo que puede decir tanto el Papa como, a nivel más local, las parroquias y las varias comunidades religiosas. Aun cuando la situación sea muy tensa, unas palabras de paz y de apoyo por parte del mundo católico a todo nivel, podría convencer algún parlamentario a cambiar de idea y meterse en pro del acuerdo (el actual o lo que el presidente Santos podría modificar ligeramente con el consenso de las Farc – el famoso plan B del cual hablan ciertos diarios).

Un papel obvio le queda también a la sociedad civil colombiana, por lo menos aquella que está en favor de los acuerdos, sean ONG, grupos locales, academias y otros.
Un trabajo de buen aliento de todos estos actores con mira a una discusión (con acuerdo) parlamentar, debería poder permitir que un acuerdo con pocas modificaciones – para salvar la cara – le permita tanto al gobierno como a una parte de la oposición de salirse de una situación potencialmente muy peligrosa.

Estos sin embargo necesitaría casi en paralelo de empezar una colaboración concreta por parte de las agencias técnicas de las naciones unidas, con el gobierno (central y en las departamentos), además de otros partners locales, para ir empezando a trabajar algunos de los aspectos claves de los problemas tocados por el acuerdo, aquellos que puedan empezar sin esperar una nueva versión.
Pienso en particular a los Programas de Desarrollo con Enfoque Territorial (PDET) (punto 1.2 del acuerdo.

Fuera de los varios aspectos técnicos y políticos), lo que está detrás de todo es una falta gigante de credibilidad y confianza mutua entre los varios actores. Modificar una ley o una política es algo que se puede hacer en pocos meses de trabajo técnico. Otra cosa empezar a trabajar, en ciertas zonas piloto, a identificar, para recrear confianza a través de mecanismos de dialogo incluyente hacia la preparación de planes de ordenamiento más inclusivos y donde el tema del acceso a la tierra no sea el único problema, sino que se toquen también otras condiciones de creación de empleo rural, educación, vivienda... O sea sentar bases para ir demostrando concretamente que tipo de futuro se quiere construir. Ya una vez habíamos visto que zonas así existen, solo hay que hablar con las personas que conocen el campo y allí nosotros tenemos una ventaja interesante. Los criterios de priorización (punto 1.2.2) son suficientemente vagos para poder proponer una serie de lugares donde ya hemos tenido trabajo de campo y contactos establecidos. Obviamente habría que arrancar en lugares donde el voto por el SI haya sido mayoritario, para tener una posibilidad mayor que los actores locales tengan gana de jugar a la reconstrucción social. Poco a poco se podría abrir también en zonas del NO, sin embargo primero sería necesario haber testado y puesto en marcha un mecanismo adaptado de dialogo, negociación y concertación.

El punto 1.2.3. dice claramente que “en cada zona priorizada es necesario elaborar de manera participativa un plan de acción para la transformación regional, que incluya todos los niveles del ordenamiento territorial”. Es una escritura yo diría casi obvia hoy en día: quien no quiere hacer algo participativo e incluyente? Traducirlo en la práctica es algo distinto, pero lo cierto es que este trabajo no depende solo de los acuerdos de paz, sino es una necesidad “normal” de cualquier institución encargada del ordenamiento territorial. Por eso que sugiero de arrancar de este tema, meno político pero seguramente también más largo.

De hecho lo que se trata es de trabajar para recrear confianza no solo entorno al contenido de los acuerdos de paz, sino entorno al concepto mismo de las instituciones que deben de gobernar el país. Por eso que no se trataría solo de trabajar el tema territorial desde un punto de vista económico-ecológico, sino ver la necesidad de ir reconstruyendo una cohesión social que permita a la gente de volver a sentirse parte de una comunidad llamada Colombia. El tema de la educación es por lo tanto fundamental, que se trate o no del acuerdo de paz, así como restablecer un sistema sanitario público.
Tenemos algo para ofrecer? Yo creo que si, y mucho. Los PDET deben aplicar un “enfoque territorial de las comunidades rurales que tenga en cuenta las características socio-históricas, culturales, ambientales y productivas de los territorios y sus habitantes, así como sus necesidades diferenciadas en razón del género, edad, pertenencia étnica, orientación sexual e identidad de género diversa, y condición de discapacidad, y la vocación de los suelos, para poder desplegar los recursos de inversión pública de manera suficiente y en armonía con los valores tangibles e intangibles de la nación.”
Más aún: “Un diagnóstico objetivo, elaborado con la participación de las comunidades —hombres y mujeres—, en el que se consideren bajo el enfoque territorial señalado las necesidades en el territorio y las acciones que coordinen los diferentes elementos, y tenga metas claras y precisas que posibiliten la transformación estructural de las condiciones de vida y de producción. »

Los que conocen nuestros trabajos territoriales, en zonas de conflicto y/o post-conflicto usando el Desarrollo Territorial Participativo y Negociado (DTPN), el Improving Gender Equality in Territorial Issues (IGETI) y, más recientemente, el Green Negotiated Territorial Development (GreeNTD) ya tienen la respuesta.

Abordajes incluyentes, que ponen el tema de recrear confianza, cohesión social al centro de la cuestión territorial y que pretenden ser verdaderamente de abajo hacia arriba, tal cual termina el párrafo 1.2.3. “El Plan Nacional de Desarrollo acogerá las prioridades y metas de los PDET.”

Es así como ya lo planteaba quince años atrás: trabajar local para que a nivel nacional se sienta el aliento de una nueva Colombia que va reconstruyendo su tejido social. No se trata de olvidar nada, la memoria es fundamental, sin embargo hay también que encauzar la memoria dentro de una esperanza de futuro mejor. Y esto no es tarea solo de los colombian@s, yo creo que nos toca a todos, y en particular a los que estamos trabajando dentro de una organización de naciones unidas. Ahora más que nunca debemos acelerar.

El gráfico abajo sintetiza la propuesta.