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mercoledì 29 maggio 2013

2013 L17: Madame Ba - Erik Orsenna






Ponte alle Grazie  (collana Romanzi)
 L'amore per il Continente Nero e per i suoi popoli torna ad essere protagonista nella narrativa di Orsenna. La logica dell'europeo che guarda all'Africa è, in questo caso, ribaltata e a parlare in prima persona è la protagonista. Madame Ba è una donna dall'eloquio travolgente che per ottenere il visto d'ingresso in Francia, si rivolge direttamente al Presidente della Repubblica. Senza fronzoli né autocompiacimenti, il romanzo racconta l'Africa di oggi, la sua violenza, i suoi sogni infranti, la corruzione che la affligge. Ma anche la sua inesauribile ricchezza, la solidarietà che lega gli individui in una trama formidabile. 

Leggere Orsenna è sempre un gran piacere. Raccomandatissimo. Sarà in classifica.



martedì 28 maggio 2013

2013 L16: Due non è il doppio di uno - Elettra Groppo

Editore: Emi's World
Anno: 2010


"Perché in fondo cos'è l'amicizia, se non un amore senza sesso?". Quella di Paolo e Alexis è l'amicizia delle confessioni, dell'abbraccio consolatore, della telefonata nel cuore della notte e dell'appuntamento fisso al bar. Un rapporto che ha dietro di sé anni di conoscenza e condivisione, di fiducia e di corrispondenza emotiva.
Le loro vite sembrano correre sullo stesso piano quando si tratta di dare alla loro esistenza da single il significato di una scelta necessaria perché "completare un'anima è qualcosa di estremamente complicato", almeno quanto rimanere fedeli alla stessa persona per tutta la vita.

Poi capita per caso, un giorno, che quelle stesse vite prendano una direzione diversa incappando nella persona giusta, nell'incontro che rimette in discussione tutte le loro convinzioni, anche quelle che non avrebbero mai pensato di dover rimettere sul piatto della bilancia.
Paolo incontra Marika e la sua vicinanza diventa essenziale quanto l'abbraccio caldo del risveglio mattutino o la certezza dell'altro dietro alla porta di casa al rientro.
Alexis scopre l'attrazione per Kim che, con la sua dolcezza ed il coraggio di gesti sinceri, la porta a conoscere un mondo di amore che non immaginava potesse esistere con un'altra donna.
Incontri che destabilizzano e che obbligano i due amici a reinventarsi compagni di vita, a indagare i lati più profondi della loro sessualità e a buttarsi nella vita da nuove altezze, con la temerarietà dei propri sentimenti, senza tirarsi indietro di fronte alla felicità possibile del cambiamento.
Elettra Groppo, con un saggio romanzato, entra nel cuore della bisessualità attraverso il racconto appassionato e accattivante di due amici alle prese con le trasformazioni che la vita inaspettatamente riserva loro.
L'autrice ci dice – attraverso le riflessioni dei suoi personaggi - che siamo noi stessi, con la molteplicità e la complessità della nostra natura, a lasciarci senza parole, a scoprirci impauriti di fronte a sentimenti, pensieri e pulsioni che non immaginavamo di poter avere.
La vita diventa sorprendente il giorno che iniziamo a guardarci dentro senza timore, inoltrandoci oltre il muro delle convinzioni e dei preconcetti dietro al quale ci siamo illusi di aver costruito una tranquilla sopravvivenza.
La vita richiede qualcosa di più per essere felice: pretende la libertà di essere ed il coraggio di viverlo e dimostrarlo. Solo così "potrai dire che sei stato felice davvero, di aver vissuto avendo quello che volevi".


Da leggere. Soprattutto alla luce delle recenti e crescenti polemiche in FRancia e in Italia. 

lunedì 27 maggio 2013

L’evidenza del Monopoli



Come dicevo in precedenti post, essere a casa in malattia permette di aver tempo per pensare. E una delle cose a cui penso è il progressivo accaparramento delle risorse naturali, terra in primis.

Mi è tornata in mente l’eterna disputa fra i neoliberali, sostenitori della centralità del mercato, e i loro oppositori, fra i quali mi iscrivo. E l’immagine del Monopoli mi è venuta da sola. Più o meno tutti abbiamo un’idea di come si gioca. Si distribuiscono in quantità uguali dei soldi e poi delle proprietà che, essendo di valore diverso, fin dall’inizio creano una certa asimmetria, ma non enorme, fra i giocatori. Possiamo assimilare questo a un mercato abbastanza perfetto, dove non ci sono giocatori senza nessuna proprietà e senza un soldo, ma dove più o meno si parte a carte uguali e, soprattutto, regole uguali. E’ autorizzata la negoziazione, anzi stimolata e ognuno persegue così i propri obbiettivi.

Poi si parte gettando i dadi, e mano a mano che si va avanti, la dinamica del gioco porta a che qualcuno si ritrovi proprietario di Parco della Vittoria e simili, i più cari ed altri restano a Vicolo Corto e Vicolo Stretto, le scartine che non valgono granchè. Tutto democratico, nessuna corruzione e regole trasparenti. Nessun intervento dello Stato, nessuna politica fiscale etc. etc. e pian piano il mercato dimostra che uno prende tutto e vince e gli altri restano per strada. Il mercato quindi non tende a equalizzare ma anzi a differenziare le posizioni, accelerando mano a mano che si va avanti, fino alla completa spoliazione di chi ha meno.

E’ come un fiume che dalla sorgente inevitabilmente scende al mare. La sorgente sono i poveri, che portano acqua al mare magnum dei ricchi. Il fiume non può andare controcorrente, questa è la sua natura. Per cui se non mettiamo in atto un sistema in grado di bilanciare questa situazione, la spoliazione continuerà, ancora e ancora.

La storia recente dell’accaparramento delle terre, o land grabbing come tutti lo chiamano, dimostra quanto scarsa sia la dimensione storico-processuale da parte di quanti se ne interessano. Non ho l’ambizione di aver letto tutti gli articoli o libri scritti sull’argomento, ma mi son fatto un’idea al proposito. In una società sempre più presa dall’immediatismo, quello che si cerca di sapere è quanti ettari siano stati presi, quali clausole contrattuali e da parte di chi. Interessi legittimi, ma che non aiutano a capire il sistema nel quale questo fenomeno si inserisce, da dove venga e dove rischia di andare a finire.

Fin dal 1968 si erano poste le basi, culturali, per andare a fregare le risorse naturali in quei paesi, e continenti, dove erano presenti in forze. Hardin, con il suo famoso e discusso articolo sulla tragedia dei beni comuni è riuscito nell’impresa di ripetere il falso storico dei protocolli dei Saggi di Sion, usati per giustificare l’odio contro gli ebrei e poi il nazismo.

La tragedia dei commons voleva mettere in chiaro per i nostri benpensanti, di tutti i colori, che sti poveri africani, se lasciati per conto suo, con quei sistemi tradizionali di usare le risorse naturali, avrebbero portato alla rovina del continente. Era falso, ma l’idea passò. E ancora oggi ci dobbiamo difendere contro queste tesi che vengono contonuamente ripetute da chi non ha mai fatto del terreno o non ha mai voluto capire l’intrinseca superiorità, in quelle condizioni, dei sistemi consuetudinari rispetto alla individualizzazione delle proprietà.

La domanda che uno si fa riguarda sempre il perché delle cose. Hardin voleva solo scrivere un articolo o aveva altre idee per la testa, forse nemmeno coscienti per lui stesso? E come mai questo articolo, che avrebbe dovuto essere cestinato fin dall’inizio, ha avuto così tanto successo? Beh, la storia è abbastanza semplice: faceva parte di un mainstream politico ideologico tendente a delegittimare fin dal nascere i sistemi di accesso, uso e gestione delle risorse naturali dei nascenti paesi in via di decolonizzazione, per confermare la superiorità storica dei nostri sistemi politico-legislativo-instituzionali.

Il tarlo che questi negretti non sapessero gestire le loro risorse andava installato di pari passo con l’idea di una cooperazione benevola dal nord al sud dove lo scopo principale era invece di assicurare il controllo di quelle risorse in solide mani straniere.

A questo fece seguito la tempesta dei programmi d’aggiustamento strutturali negli anni ottanta che riducevano le prestazioni dello Stato nei settori chiave di salute, educazione e servizi agli agricoltori, in modo da liberare il terreno da eventuali intrusi locali. A questo si accompagnava il rispolverare delle teorie di Ricardo sui vantaggi comparati per cui i sistemi agricoli africani dovevano modificarsi per adattarsi al mercato globale: specializzarsi in produzioni da export, caffè, cacao… e lasciar perdere i prodotti di autoconsumo. Come una droga: funziona la prima volta, ti da un’euforia che ti invita a riprenderla e poi ti rendi conto di essere diventato schiavo. Alla Costa d’Avorio, uno dei tanti (oltre 25 in Africa) paesi messi sotto il controlo dei PAS, era stata “ordinato” di rafforzare le proprie produzioni di caffè e cacao (dato che nel vicino Ghana la situazione politica era molto instabile, contrariamente alla Costa d’Avorio) e lasciar perdere la produzione di riso per autoconsumo, che tanto c’era il riso tailandese sul mercato a un prezzo che avrebbe permesso a tutti di mangiare a sazietà. In soli tre anni la Costa d’Avorio è diventata mangiatrice di riso tailandese, e non appena il prezzo del caffè e del cacao sogni scesi, l’altra faccia della medaglia si è mostrata: debiti crescenti per comprare il riso e placare il malumore urbano, aumento del lavoro nelle piantagioni per aumentare la produttività perché, nel frattempo, altri paesi nel sudest asiatico diventavano competitivi per il caffè (Vietnam, a quell’epoca), seguendo le ricette di indovinate chi? Gli stessi che avevano consigliato la Costa d’Avorio.
Il paese si è rovinato, è iniziata una guerra civile di cui forse cominceremo ad occuparci alle radici, cioè il problema fondiario (che non esisteva prima dell’intervento degli esperti internazionali). Va anche ricordato la scarsissima propensione, allora come oggi, ad occuparsi della casta di corrotti che erano stati installati alla guida dei nuovi paesi del sud, foraggiati dagli interessi del nord perché continuasse la stessa politica di spoliazione.

Il problema non è la Costa d’Avorio o il Ghana. Il punto è di capire a cosa servivano, nel medio lungo periodo questi aggiustamenti. Lo stiamo vedendo da parecchi anni. Ma andiamo per ordine.
Fine anni 80 arriva il terzo pilastro: la teorizzazione in buona forma della mercantilizzazione delle terre. In altre parole: con una mano si riducevano drasticamente, o eliminavano, istituzioni pubbliche, politiche e programmi in favore delle agricolture del sud, e con l’altra si teorizzava il mercato come miglior allocatore di beni economici (il significato della terra era stato ben perimetrizzato dentro le salde mura dell’economia).

A forza di spingere, via università, ONG, organismi internazionali, la questione dei mercati della terra si stava imponendo. Esistevano centri e persone che lavoravano su altre visioni, ma i rapporti di forza erano quelli che erano. In quegli anni anche due grossi paesi come le Filippine e il Brasile erano tornati nel girone dei democratici, rovesciando le dittature che li avevano governati per anni. In tutti e due i casi la questione agraria si impose da subito, grazie a movimenti contadini appoggiati da ampli strati (alla base) della Chiesa cattolica. Questo pose il problema delle riforme strutturali delle campagne, al centro del dibattito: da un lato questi movimenti nascenti, MST, Via Campesina etc. e dall’altro i fautori della via mercato. Venne anche teorizzata una riforma agraria attraverso i meccanismi di mercato. Delle prove vennero fatte in molti paesi, Colombia, Brasile, SudAfrica, Filippine etc.. Malgrado i continui aggiustamenti di tiro (e di nome), non ce n’è uno solo che abbia funzionato. Ma di questo non se ne parla, si è continuato a criticare il modello centrato sullo Stato e le sue istituzioni. Modello fallito, che non ha saputo autoregolarsi etc. etc. Tutto vero, per carità, ma dall’altra parte non sono riusciti a far meglio.

Grazie alle lotte contadine fu possibile non soccombere completamente sotto il dio mercato, malgrado che la riconcentrazione delle terre avesse ripreso nella stessa direzione di sempre. Per questo, a un certo punto, provammo a rimettere al centro del dibattito la questione strutturale della riforma agraria, con un’analisi critica del ruolo dello Stato, i suoi fallimenti, ma anche ripetendo alto e forte che bisognava tornare a investire sulle istituzioni statali, dall’educazione rurale alla volgarizzazione agricola, al credito etc. Ma non era solo questo: per noi bisognava anche democratizzare queste istituzioni, favorirne un’evoluzione più partecipata, aperta al dialogo e alla collaborazione, partendo dall’assunto del riconoscimento dei diritti territoriali storici delle comunità locali ed indigene. Fu chiaro chi venne e chi non venne a Porto Alegre nel 2006. E fu chiaro anche chi bloccò ogni tentativo di portare avanti i principi della dichiarazione finale.

Oggi assistiamo quindi, sul terreno del Monopoli mondiale, al dispiegarsi completo delle batterie dell’accaparramento:
-          Istituzioni statali deboli o, semplicemente, assenti a livello locale; e simultaneo non riconoscimento dei ruoli di gestionari delle risorse da parte delle comunità locali
-          Classi politiche facilmente corruttibili, mai seriamente messe in causa da chi, all’inizio, aveva facilitato la loro ascesa. Quindi ricattabili o, almeno, facili prede da parte degli interessi del nord
-          Quadri politico-legislativi insufficienti e quasi inesistenza di servizi e istituzioni giuridiche nel sud, corollario di quell’aggiustamento strutturale di cui si parlava prima
-          Pressioni crescenti da parte del Nord, che fomenta conflitti, si prende territori, obbliga milioni di persone ad andarsene dai loro luoghi tradizionali e
-          Continua invenzione di giustificazioni (ammantate da generiche posizioni a favore dello sviluppo, sostenibile..) per non solo continuare ma anzi accellerare lo spolio delle risorse.

Sarà perché le risorse si riducono, cosa che sappiamo da oltre un decennio, che la popolazione aumenta e che, in certi settori popolazionali, nuovi bisogni portano a cercare nuovi beni (non più solo le terre, ma anche le terre rare, prodotti fondamentali per l’industria telefonica). Quindi non si cerca più solo il petorlio, il gas, i diamanti e pietre preziose, il legname, il carbone, ma anche l’aria che producono le foreste del sud, sempre evitando scrupolosamente che i veri attori, comunità locali, possano far parte di queste negoziazioni.

Le asimmetrie sono aumentate, di informazione, di potere; le comunità locali sono assediate da una molteplicità di programmi di sviluppo che non hanno mai chiesto, senza peraltro ottenere mai una risposta alle domande basiche di riconoscimento dei loro diritti. I falchi sono tanti, ed anche divisi fra loro, ma anche i movimenti contadini non hanno più l’impeto di dieci anni fa.

La situazione sembra senza sbocco, ma quel che mi preoccupa è che nemmeno dal basso si ritorna a pensare a ripartire dalle fondamenta. Oggi abbiamo paesi che, per scelte deliberate dei loro governi, hanno provocato dinamiche di desertificazione enormi nei loro paesi. Rivertire questo processo richiederà decenni, se mai ne saranno capaci. Le buone terre (e acque) vengono prese dalle città in espansione, dai campi di golf, dai residence turistici etc. etc… quindi sempre meno terra buona, pianeggiante e fertile, quella terra dove potrebbero dare dei buoni frutti le nuove varietà, che oramai sono arrivate ai limiti genetici. Per cui per mandare avanti la baracca bisogna mantenere alte dosi di fertilizzanti, altrimenti la terra si sterilizza del tutto, prodotti chimici, diserbanti, defoglianti, nipotini del Napalm etc. Ma questa non potrà essere la soluzione proprio perché inevitabilmente le terre buone si riducono, e queste varietà costano troppo per metterle su terre degradate o in declivio o non perfette. Su queste altre terre, che si potrebbero recuperare, andrebbero molto bene le varietà locali, uscite da selezioni contadine di centinaia (o migliaia) d’anni. Ma una lotta senza quartiere è stata intrapresa contro la diversità genetica. Delle 8000 specie esistenti in natura, alla fine ci troviamo con tre di loro a coprire il 60% del mercato globale.

Per rimettersi a recuperare le terre ci vorrebbero prima di tutto Stati sovrani e istituzioni capaci di lavorare: ma il 95% della ricerca in agricoltura è nelle mani dei privati, le stesse compagnie che producono i semi, i prodotti chimici e alla fine arrivano a controllare i mercati, cioè cosa ci finisce nel piatto.

Avremmo anche bisogno di una rivoluzione culturale, che parta da chi la fa l’agricoltura, dalle diversità di produttori e produttrici, rivalorizzando il loro ruolo storico di mantenutori di paesaggi, di diversità e di sapori e colori che poi cerchiamo quando andiamo a comprare gli alimenti.

Il grabbing attuale andrà avanti, perché l’inerzia di un movimento lanciato trent’anni fa non si potrà fermare nel giro di 5-10 anni. Il rischio che incorrono questi Trust che si stanno accaparrando le risorse sono le rivolte locali che, col prezzo delle armi in discesa, potrebbero diventare delle rivolte armate. Ma anche a questo ci hanno pensato, spostando progressivamente la governance mondiale fuori dagli Stati, che vengono però lasciati soli davanti alle loro cittadinanze, così da riempire il ruolo di responsabili diretti,  e facendo da scudo per il magma economico-finanziario che ci sta dietro. Questo meccanismo lo abbiamo visto all’opera in questi ultimi anni, con la crisi nella quale siamo immersi: la colpa è dello Stato e del suo governo, e i benefici sono sempre privatizzati per le banche ed altri centri di potere.

In questo modo, l’orizzonte probabile sarà fatto di conflitti contro lo Stato, ribellioni più o meno popolari, ma senza intaccare il meccanismo che ha generato questo fenomeno.

Possiamo fare qualcosa? Credo, anzi voglio sperare di sì, ma questo implica una riflessione seria e profonda su una politica di alleanze fra i movimenti contadini, privilegiando le parti che uniscono rispetto a quelle che dividono, alleanze che devono andare oltre, cioè integrare i pochi centri di ricerca pubblica, quelle ONG che sul serio si battono contro questi fenomeni, e cercare di appoggiare chi, nei centri di potere, governativi, intergovernativi e organismi internazionali, cerca ancora di portare avanti queste lotte.

La difficolà è di saper leggere cosa sta succedendo, evitare di perdersi per strada sui vari trabocchetti che vengono continuamente preparati e fare squadra. I rapporti di forza non sono favorevoli, ma se in più continuiamo a giocare separati, l’unica cosa sicura sarà che avremo perso senza nemmeno lottare.  

venerdì 24 maggio 2013

Niente di nuovo sul fronte occidentale



Rieccoci qui, a raccontare un’altra ospedalizzazione. Forse ha proprio ragione il mio collega Jean Marc quando dice che, dopo i quanrant’anni, è solo manutenzione (del nostro corpo). La mia infezione era proprio grossa, per cui non è stato possibile fare l’operazione tutta in una volta. Ieri ne hanno fatto metà, togliere l’ascesso e rimuovere l’infezione, il resto fra un paio di mesi. Insomma, dovrò tornare dentro anche quest’estate.  Per il momento restano solo i dolori posteriori e una montagna di medicine da prendere.

Il vantaggio di quando sei obbligato a letto è quello di poter leggere, pensare e scrivere, se ne hai la forza.  Leggo  dell’orrore di Londra, dei due “terroristi” fai da te che hanno deciso, così come i due ceceni a Boston, di portare la loro sfida individuale nel cuore di quello che loro vedono come il nemico: l’Occidente.  Arrivano tardi, perché oramai è sempre più evidente, per noi che ci viviamo dentro, come le tradizionali istituzioni delle democrazie occidentali non siano più in grado di guidare il cammino di queste società e che siano sempre più suddite di poteri immateriali e transnazionali che non devono rispondere a nessun elettore perché non sono il prodotto di nessuna forma elettiva. Che siano il frutto derivato del capitalismo che conosciamo, non ci sono dubbi, così come è chiaro che il loro potere è infinitamente più forte degli Stati nazionali o supranazionali. Per fare semplice, gli sceneggiatori della fortunata serie di pupazzi francesi Les Guignols de l’Info, li raggruppavano tutti dentro il concetto di World Company: interessi economico-finanziari ben definiti, potere di corruttela e decisione (chiamiamolo lobbying se vogliamo) su qualsiasi altro potere democratico: si ponevano e si pongono al di la del bene e del male.

Comandano loro e nessuno sembra in grado di fermarli. Un tumore che pian piano contagia tutti gli angoli del pianeta e dal quale sembra impossibile venirne fuori. Le reazioni individuali di questi terroristi non cambiano l’essenza della partita, che non sarà certo vinta con questi mezzi, che illustrano bene la disperazione di chi non ha altro da dire.

Una quindicina di anni fa aveeo scritto qualcosa che torna d’attualità, mi sembra: all’epoca era una riflessione sul concetto si urbanità e periruralità. Lavoravo, con altri colleghi sul tema dell’agricoltura urbana e dal mio lato mi sforzavo di pensare meglio gli elementi strutturanti del concetto intermedio fra rurale ed urbano, il peri-. Le definizioni storiche dei geografi (che identificavano il periurbano o periruale come una fascia a una certa equidistanza dalla zona centrale, il polo urbano) non erano sufficienti, ma era difficile trovarne di migliori. Proposi allora di pensare all’insieme di desideri, percezioni e sogni che fanno, nell’immaginario individuale, la differenza tra un urbano e un rurale, soprattutto nel sud del mondo. Pensavo alle luci, alla vicinanza con cinema, ristoranti, discoteche, ma anche con l’insieme di sogni materiali che erano più vicini in un centro urbano. L’idea era che là fin dove i sogni urbani arrivavano a determinare la strutturazione della campagna, quello restava sempre perirurale, anche se magari si trovava a centinaia di chilometri dall’urbano.   
Questo partiva dal considerare un polo attrattivo, l’insieme dei sogni urbani, ed un polo attratto, le zone più povere di capacità di valorazione propria, che vivevano all’ombra di quel primo polo. Esistevano poi altri poli non attratti, cioè dove un insieme diverso di valori, percezioni e sogni ne facevcano un qualcosa di indipendente, anche se situato vicino a un polo attrattivo.

Con degli esempi forse si capirà meglio: le comunità religiose tipo gli Amish o le molte altre esistenti nel sud del mondo, anche se situate vicino o dentro contesti urbani occidentali, vivono un mondo diverso, con i loro riti, sogni, valori etc. Questi sono esempi dei poli diversi. Un paesetto come Samaipata, in Bolivia, situato a un centinaio di chilometri dalla capitale economica, Santa Cruz, potrebbe essere, anzi era, un polo separato ed indipendente, ma poco a poco quello che fa urbanità è arrivato anche lì: i soldi, la droga, la prostituzione e i sogni delle luci della città, i bei vestiti, le belle macchine, tutte cose che la gioventù dorata di Santa Cruz porta ogni fine settimana a Santa Cruz, per distrarsi e respirare un’aria migliore. Loro esportano e i locali, soprattutto i giovani,importano, nel loro modo di vedere la loro vita, di definirsi per il futuro e così innescare inevitabili processi migratori destinati ad ingrossare le fila del sottosviluppo e della povertà urbana. Samaipata è un esempio di questa nuova periruralità e Santa Cruz il polo attrattivo.

Constatando questi effetti, li traducevo nel campo della pianificazione territoriale come un bisogno di considerare queste percezioni, internalizzare le esternalità diremmo oggi, in modo da capire quali fossero le forze determinanti l’uso attuale e futuro del territorio e così pianficare lo sviluppo del paese e delle sue zone circostanti. Le capacità, da parte dei governanti locali, di resistere a queste forze erano chiaramente diventate nulle: nessuna valorizzazione della cultura locale, delle loro tradizioni, per cui oramai erano destinati a diventare solo una dependance della capitale, almeno fino al giorno che lo avessero capito e ricominciato a creare, o ricreare, le basi per una valorizzazione propria del loro spazio vitale.

Altre forze politiche cercavano strade diverse: così leggevo io l’avanzare dell’islamismo estremo. Quasi un tentativo di bloccare la storia. Questo perché era facile associare questo insieme di “valori” (messi tra parentesi…), sogni e beni materiali con l’idea che ci siamo fatti tutti dell’Occidente. Chi controlla quei beni, sogni e percezioni, alla fine controlla la società, attuale e, soprattutto, futura. Per cui, a un certo punto, vedendo come questo pacchetto di valori, sogni e percezioni, portava con sé una individualizzazione della società, la rottura di antichi patti societali intergenerazionali, la ricerca del tutto e subito, era da aspettarsi che a un certo punto qualcuno dicesse: Non gioco più a questo gioco! Tirarsene fuori voleva dire chiudere le frontiere per impedire il contagio e mettere in atto campagne di propaganda verso altri sogni. Quanti paesi abbiamo conosciuto che hanno provato, e provano ancora, a seguire questa strada? L’Iran di Khomeini è stato forse il primo, ma anche la Cambogia dei Khmer rossi, il tentativo del GIA in Algeria. Chiudere i cancelli, un sogno impossibile perché si gioca in campionati diversi: una potenza di fuoco occidentale che non ha uguali, in termini di esperienza e di varietà e ricambio continuo, nonché un controllo dei mezzi di comunicazione posti al servizio di questa nuova religione, il Dio mercato, con le Transnazionali come i suoi Apostoli. Opporsi a tutto ciò con una risposta religiosa non porta molto lontano, e difatti vediamo le nuove generazioni iraniane che crescono con le stesse voglie (indotte?) di tutte le generazioni occidentali. La chiusura ideologica, tipo Corea del Nord, è servita ancora meno, anzi ha peggiorato le condizioni di vita delle popolazioni locali, mentre la nomenclatura, a partire dal leader supremo, è preda della stessa febbre consumistica di gran parte di noi occidentali.

Ma il rifiuto nazionale, che non ha funzionato, viene oramai declinato in forme individuali, nel migliore stile neoliberale. D’altronde, se la società non esiste, ma esiste solo la gente, come diceva la non rimpianta Tatcher, perché stupirsi che così come ci sono giovani che fanno la fila di notte per accaparrarsi i nuovi modelli di telefonino, ci siano altri giovani che facciano esattamene l’opposto, portare l’orrore dentro le nostre società? Non potremo fermarli facilmente, perché abbiamo svuotato le scuole, abbiamo tolto valore alla famiglia, ai sindacati e a tutto quello che tiene assieme i vari gruppi societali. Abbiamo voluto o, anzi, qualcuno ha voluto per noi, che spingessimo sull’accelleratore dell’individuo, per sentirci liberi… adesso abbiamo quelli che liberi non sono: alcuni comprano beni ed altri distruggono. Voi mi direte, ma tra comprare un telefonino e distruggere una vita umana .. non è la stessa cosa. Giusto, sono d’accordo con voi, ma andatelo a dire a quelli che li producono in Bangladesh o altrove, riducendo la vita umana a meno che niente. Chiedetelo ai Benetton o alle altre industrie che hanno delocalizzato le loro produzioni, distruggendo lavoro da noi e creando una schiavitù nel sud, chiedetelo a loro quale sia la differenza….

La logica mi porta a pensare che massacri o scene efferate come quelle di Londra siano destinate a ripetersi.. e questo finchè non riusciremo a trovare come ricostruire le società ex novo, su valori fondanti la convivenza comune e non la sopraffazione; un sogno futuro dove noi umani non ci vedremo più come superiori alla natura, ma come parte dello stesso tutto. Dove il Nord la smetterà di considerarsi superiore al Sud e dove i vari Sud capiranno che la strada per venirne fuori non è quella di scimmiottare gli stessi tracciati che abbiamo seguito noi: distruggendo la natura, schivizzando chi sta peggio di noi, non rispettando i diritti delle popolazioni locali… tutti elementi che caratterizzano i famosi Brics.. gli allievi prediletti che vogliono raggiungere lo stesso club degli eletti del Nord con gli stessi difetti che solo potranno accellerare la nostra perdita globale.

Pensare a un futuro diverso è necessario, perché negli squilibri attuali, sempre più crescenti, noi costruiamo la fossa che ci seppellirà tutti.
  
PS. Il titolo di questo post è stato preso da un bellissimo libro di Erich Maria Remarque che vi consiglio di leggere 

mercoledì 22 maggio 2013

Don Gallo è morto




Sempre ricorderò la maniera come un mio giovane collega ed amico mi ha presentato ai partecipanti all’incontro sul Land Grabbing organizzato dall’Università di Milano: Paolo sta alla FAO come Don Gallo alla Chiesa Cattolica.

Era la prima volta che qualcuno faceva questo parallelo, e devo ammettere che mi ha fatto molto piacere. Un prete della base, come quel Don Gastone, prete operaio che sposò mia sorella nel 74, il mio primo contatto con un prete coerente fra principi e vita vissuta. Don Gallo era così, combattere dentro l’istituzione per cambiarla e riportarla ai principi che ispirarono i vangeli all’inizio. Ma la gerarchia non lo ha mai perdonato. E lui se n’è fregato ed è andato avanti nelle sue battaglie.

Oggi è arrivato al capolinea, ma il suo messaggio resta, così come l’esempio di una vita intera. Adelante compnaheros, tocca a noi continuare…

Rabbia, Libertà, Fantasia: Dedicato ai miei consulenti e amici



Oggi che il sangue comincia a scorrere, in attesa del chirurgo che, spero, mi rimetterà a posto, non posso non pensare a quella missione dove tutto sembra sia iniziato: un’anemia perniciosa per fortuna diagnosticata in tempo, dopo che i valori ematici erano scesi a livelli da richiedere due trasfusioni urgenti (a proposito, sarà che col sangue di un’altra persona ereditiamo anche il carattere di questa?) e una infezione posteriore, infetta e fistolata che domani cercheranno di curare.

Penso a voi, dagli angolani Francisco e Txaran, ai mozambicani, Marianna, Alberto, a Syprose nel Darfur e Carolina in Somalia, a David che si prepara ad andare nella regione dei Grandi Laghi, a tutto il team nel Narinho, in Colombia, nonché agli amici in Argentina e Uruguay : tutti quelli che posso legittimamente considerare parte del nostro Team. Quelli che hanno cercano, e cercano di portare avanti, nel concreto, una riflessione, un punto di vista diverso, più umile, per quanto riguarda i complessi problemi di accesso, uso e gestione delle terre.

Penso a voi, ma anche a chi non è più con noi, Marcos, Fritz ed altri che, più recentemente ci hanno lasciato, Michelle, Kaori… e ai più vecchi con cui lavoriamo da quasi vent’anni…

Ci siamo scelti un mestiere nobile, difficile da portare avanti perché tocchiamo temi che fanno paura. La terra è potere e cercare di cambiare le grandi asimmetrie esistenti non è e non sarà mai una cosa facile. Provarci, dentro una Organizzazione che è anche lei il frutto di quelle asimmetrie è ancora più difficile. Per questo, pensando a voi, penso anche a tutti quelli che hanno scelto il cammino facile, il non sporcarsi le mani mai, esser sempre intimoriti quando si parla di diritti dei più deboli, quelli per cui stare dalla parte del potere vuol dire andare avanti e far carriera. Quelli che non ho mai incontrato nè io nè voi, sul terreno. Quelli che non si rovinano la salute come stiamo facendo…

La credibilità che ci andiamo costruendo grazie agli sforzi che facciamo ogni giorno, non ha prezzo. Non cambieremo il mondo ma almeno ci proviamo. Nulla di rivoluzionario, ma il solo fatto di ricordare i diritti della gente oppressa, donne e uomini, indigeni e senza terra, sembra essere considerato troppo di sinistra. Strano destino il mio e il vostro. Molti di voi nemmeno votano a sinistra, ma difendono gli stessi valori e principi e per questo siete e sarete tacciati di essere poco mainstream. Prendetelo come un complimento, anche se ci sono e ci saranno molti momenti difficili.

Ricordatevi che se siamo arrivati fin qui, se i primi passi li abbiamo compiuti, questo è stato solo grazie a un lavoro di squadra: non arriveremo mai lontano se ci lasciamo prendere dai sogni individuali di carriera. Siamo diversi in questo e altri punti rispetto ai colleghi preoccupati delle loro carriere. Noi ci preoccupiamo di poterci guardare nello specchio, la mattina quando ci alziamo, e siamo contenti quando possiamo dire ai nostri figli: io ci ho provato.

Quindi adesso che approfitto di un momento di pausa, non voluta, vi ricordo quello che vi ho sempre detto: cedete una parte del vostro tempo, oltrechè ai vostri compagni/compagne, anche ai vostri colleghi in giro a lottare negli altri paesi. Scambiarsi esperienze è fondamentale, fare squadra, altrimenti ci fermiamo e non solo non andremo avanti, ma torneremo indietro.

Il nostro motto, scherzoso, resta sempre quello: Rabbia, Libertà e Fantasia.