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lunedì 27 agosto 2012

Tecumseh, Tenskatawa: i primi leaders indiani a difendere la proprietá comunale delle terre

Visto su ARTE un bel documentario (Terres Indiennes) sulla storia di questi eroi sconosciuti. Trascrivo da Wiki: "Tecumseh, anche trascritto come Tecumtha or Tekamthi[2] (Stella Cadente o Cometa Fiammeggiante, oppure , secondo altri, Puma che balza o Puma in agguato[3]; ca. 1768 – 5 ottobre 1813), appartenente alla tribù degli Shawnee, è considerato come il più grande statista della storia dei nativi americani. Tecumseh si pose a capo di un'ampia confederazione di tribù che si oppose agli Stati Uniti durante quella che fu chiamata la Guerra di Tecumseh e poi durante la guerra anglo-americana del 1812. Egli era cresciuto nel Territorio dell'Ohio nel periodo della guerra di indipendenza americana e di quella detta comunemente di Piccola Tartaruga, nel corso delle quali egli si trovò costantemente esposto ai combattimenti.[4] Suo fratello Tenskwatawa fu un leader religioso che sosteneva il ritorno allo stile di vita ancestrale delle tribù e, attorno alla sua predicazione, si creò un largo seguito ed una vera e propria confederazione, che prese la guida del conflitto con i coloni sulla frontiera. Dopo un primo periodo di frizioni, la confederazione spostò la propria sede verso l'interno del territorio, fissandola, nel 1808, nell'attuale Indiana, sul fiume Tippecanoe, in quella che fu chiamata la Città del Profeta. Tecumseh affrontò quindi il governatore del Territorio dell'Indiana, William Henry Harrison, richiedendo con forza l'annullamento dei recenti trattati di acquisto di territori indiani, e si mise poi in viaggio per le regioni del sud nel tentativo di ottenere l'adesione al movimento anche da parte delle grandi tribù che vi abitavano". La difesa delle terre che venivano sottratte con metodo, pezzo a pezzo, via un processo che abbiamo sotto gli occhi anche oggi, dato che continua con le modalitá moderne del land grabbing. Il primo passo era di mettere pressione sulle popolazioni locali, via i primi insediamenti dei bianchi in terre indiane. Quando nascevano i conflitti, inevitabili, dato il non rispetto dei coloni verso le terre degli altri, arrivavano i militari che, con le buone o le cattive sistemavano tutto, obbligando a firmare un trattato di pace. IL passaggio da regole non scritte a regole scritte diventava cosí il passaggio numero uno per la grande fregatura. I sistemi consuetudinari si sono sempre mostrati ricchi, complessi e sufficientemente chiari per risolvere i problemi fra gli aventi diritto. Il passaggio al diritto positivo (scritto da noi e non da loro), permetteva sempre dei sotterfugi tali per cui ogni volta che si andava a finire davanti a un tribunale, i bianchi vincevano sempre. Tecumseh e suo fratello avevano capito che, divisi, non avrebbero mai potuto vincere contro i nuovi Stati Uniti, per cui si ersero a condottieri in nome delle tribú indiane unite e in nome di una superiore proprietá collettiva. Persero e morirono, ma il loro esempio é ancora ben presente nelle lotte di oggi. La legalizzazione prima (nuove leggi sulle terre, moderne e occidentali), poi la promozione dello "sviluppo" attraverso i nuovi coloni, privati o statali, con lo stesso risultato: in nome di un benessere superiore, gli aventi diritto devono farsi da parte.. e questo finché anche in Africa non arriverá un Tecumseh....

2012 L38: Giovanni La Varra - Case Minime

2012, Editore Robin (collana I libri da scoprire) Milano, 2011. Centinaia, migliaia di appartamenti vuoti nelle case popolari. E una società immobiliare che li deve schedare. Per questo assolda studenti della facoltà di architettura. Sergio e Mattia hanno 22 anni, ancora tanti esami da dare e molto tempo libero. Ekaterina è a Milano solamente per un anno, viene da lontano e prima o poi ripartirà. Ma tutte queste case vuote sono anche una possibilità di autonomia e libertà, un'idea da abitare. In poche parole, un progetto. "Case minime" è una storia che ruota attorno ai monumenti involontari della Milano del Novecento: la Montagnetta di San Siro, il Gallaratese, il Gratosoglio. Monumenti della città e del tempo in cui siamo cresciuti. Letto con piacere questo primo libro di Giovanni. Ho conosciuto poco Milano, ma quelle difficoltá di crescere che Sergio si porta dietro sono parte di un passaggio che ci ha riguardato tutti. La storia in sé sembra un po' per aria, quasi autobiografica; si sente dietro un amore per queste piazze e questa cittá che trasuda spesso, al di lá delle critiche ai cantieri aperti e a una sorta di disinteresse della Politica per pensare la cittá. Penso Giovanni volesse farci capire come tutti prima o dopo passiamo un momento un po' per aria (chissá poi se quel Professor Tosi con le sue scampagnate non volesse essere un riferimento autobiografico al Giovanni professore lui stesso..); poi capita l'occasione di uscirne fuori e a volte uno la prende al volo (in questo caso il treno per Bruxelles) oppure no, come Mattia che resta lí a continuare a cincischiarsi per il futuro. Sarebbe interessante vedere cosa gli succederá a questo Sergio adesso che ha l'occasione di diventare grande, e di pensare con la sua testa cosa vuol far da grande.... alla prossima Giovanni...

venerdì 24 agosto 2012

ESPERANZA... altri due commenti

20 agosto 2012 16:53 Esperanza trasporta in tanti stati d’animo diversi senza nemmeno accorgersene. E’ un avvicendarsi continuo di pensieri. Parla di verità, emozioni, di tutto il male e il bene di cui l’essere umano è capace. La questione delle terre e quella indigena oltre che a essere aspetti che mi affascinano perché relazionati al mio lavoro, riescono a intersecarsi perfettamente con gli altri fatti storici dentro a cui i personaggi si muovono. Eventi di una storia in cui tutti noi siamo profondamente coinvolti. Le pagine sono leggerissime e volano fino al soffio finale, che lascia il cuore spalancato. Terminato questo libri i pensieri rimangono a fluttuare per giorni, cercando di fare resuscitare i personaggi. È come un volere tenerli in vita aldilà delle pagine, immaginare i loro destini deviati da coincidenze eccezionali, eventi, occasioni perdute e il filo della Storia che li intreccia e li mette in campo pronti per combattere altre battaglie della vita. Cari Paolo e Pierre, spero davvero questo libro possa essere diffuso ovunque, io ho già iniziato a farvi pubblicità nel Corno d’Africa dove molti lettori bisognosi di Esperanza aspettano con impazienza copie. Un abbraccio, Carolina === 8 agosto 2012
Carissimi, J'ai mis du temps à vous écrire car j'étudie beaucoup en ce moment, mais j'ai terminé le livre il y a 2 jours. Il est très émouvant, je l'ai trouvé bien écrit et absolument passionnant! Je suis vraiment entrée dans les personnages et leurs histoires. C'est un très bon roman, qui fait réfléchir. Bravo, et je suis sûre que sa réussite sera à la hauteur de son contenu. Maintenant on en espère un autre... Bacioni Mathilde

ESPERANZA; altri commenti ...

Ciao Paolo,
ho letto Esperanza e sono rimasto colpito. Scrivere una storia avvincente e impegnata al primo libro non è per niente facile, ma tu e Pierre ci siete riusciti bene: l'intreccio è complesso ma i tasselli si incastrano tutti perfettamente e attraverlo la lettura, come un puzzle, i personaggi si trovano legati gli uni agli altri. Trattare argomenti del genere poi non è facile perché si può cadere nel banale ed essere scontati, ma qui credo che la tua conoscenza "sul campo" abbia influito notevolmente ed ha arricchito molto la trama. Ho apprezzato molto Esperanza soprattutto perché ho ritrovato molto di te e del tuo modo di vivere e di pensare i rapporti con le persone, la propria famiglia, il retaggio che ci si porta dietro. Hai trasportato nel romanzo la tua convinzione nella Storia come madre di tutti noi e l'hai posta al centro della trama (o almeno così l'ho percepita). Mi sono appassionato quindi ai personaggi e alle loro vicende, mano a mano che questo principio ispiratore veniva fuori. Un romanzo tutto sommato non lungo, che si legge tutto d'un fiato (ci ho messo davvero pochi giorni). La brevità dei capitoli aiuta in questo, e quasi mi è dispiaciuto non aver conosciuto più a fondo i personaggi. Congratulazioni a te e a Pierre, spero che prosegui(ate) il percorso di elaborazione della propria esperienza ed a trasporla in un libro perché avete stoffa! Gabriele

2012 L 37: Frédéric Lemaître - Demain, la faim!

Grasset, 2009 Les émeutes de la faim, qui avaient marqué le début de l'année 2008, "n'ont été que le révélateur d'un problème qui a toutes les chances de s'aggraver", nous rappelle Frédéric Lemaître, éditorialiste au Monde. Car l'agriculture est à bout de souffle et le monde va au devant de graves déséquilibres entre offre et demande, comme le démontre ce petit livre simple, efficace et documenté. Nous sommes désormais confrontés à la rareté de la terre, de l'eau et de l'énergie. L'exploit qui avait consisté, depuis les années 1960, à écarter le spectre de la famine dans un monde toujours plus peuplé - sans pour autant éradiquer la faim - ne pourra pas être réédité demain. A moins de réinventer un autre modèle dont la productivité ne sera plus fondé sur la chimie et l'élimination des plus faibles, mais sur un usage durable de la nature et un partage des ressources. C'est moins un problème d'argent que de mise en place de politiques agricoles et alimentaires au service de tous. mais aussi de révision de nos modes de consommation, souligne l'auteur. Qui espère que la crise actuelle sera une occasion de remettre en question nos pratiques, sans quoi "les apôtres de la décroissance finiront par avoir raison: le monde deviendra invivable". A lire, entre autres, les pages - remarquables - consacrées à l'appropriation de terres dans les pays du Sud par nombre d'Etats et d'entreprises privées, il y a urgence. Libretto di semplice lettura, utile per ricordarsi a quale gioco stiamo giocando e verso quali orizzonti ci si muove. Potrebbe trovarsi nella top dell'anno, per ragioni di memoria storica.

giovedì 23 agosto 2012

Ricetta Charlotte: Porc à l’ananas

Ingrédients pour 4 personnes • 400gr de porc • ½ ananas • 1 botte de coriandre • ½ oignon • 2 gousses d’ail • Sauce soja • Poivre • Huile de tournesol Préparation Faire revenir les gousses d’ail et l’oignon bien émincés. Quand ils sont revenus, enlevez-les. Rajouter dans le poêle le porc, coupé en lamelle, à feu haut pendant 5 minutes. Baisser le feu, rajouter l’ail et l’oignon, la coriandre émincée, le poivre et l’ananas coupé en cube. Cuire 5 minutes a feu doux. Après rajouter de la sauce soja et cuire à feu doux encore quelques minutes.

mercoledì 22 agosto 2012

1.58 versus 2.01

Ammetto che il titolo sia un po' criptico, ma mi serve per ricordare quanto siano cambiati i rapporti fra Italia e Francia. Per ragioni familiari vado in Francia da oltre 30 anni così capita che, pian piano, alcuni indicatori di base ti restino fissati in mente. Primo fra tutti, il prezzo della benzina. Da sempre era ovvio che la benzina costava di più in Francia e questo assioma mi costò un'avventura complicata sotto il tunnel del Monte Bianco. Dovevamo riportare in Italia la moto di mio fratello e, avendo poca grana in tasca, feci (male) i calcoli in modo da far durare la benzina francese, più cara, fino al passaggio del tunnel, in modo poi da rifare il pieno in Italia, che costava molto meno. Altri tempi direte voi, infatti adesso, fresco fresco di ritorno dalla Francia (il fresco è ovviamente ironico), volevo giusto mettere qui, a futura memoria, i prezzi della benzina pagati in Francia e in Italia, rispettivamente. Ovvio che ho preso dei casi estremi: 1.58 al litro lo fa solo la catena di supermercati Intermarché, che ha deciso di vendere a prezzo base la benzina a 95 ottani (che va benissimo sulla mia vettura). I 2.01 invece si registrano oggi per la prima volta in Italia e tutti ne parlano. Io mi chiedo solo da dove venga la differenza, dato che i salari francesi sono in media del 20-25% più alti e così pure il costo della vita. Fosse un rapporto inverso, sarei meno stupito ma, così stando le cose, mi chiedo chi, fra il mio Presidente Moratti e il Premier Monti, abbia più bisogno di soldi. Chi paga, lo sappiamo....

2012 L36: Laurent Binet - HHhH

Edition Grasset Le titre renvoie au surnom de Reinhard Heydrich, chef d'Eichmann et bras droit d'Himmler : Himmlers Hirn heisst Heydrich / le cerveau d'Himmler s'appelle Heydrich. Heydrich qu'on surnommait aussi la « bête blonde », le « bourreau de Prague », « l'homme le plus dangereux du IIIè Reich ». Prix Goncourt du Premier Roman
Libro strano. Una critica del romanzo che sta scrivendo, prendendo la libertà di criticare altri scrittori, uno fra tutti Littel e le sue Bienveillantes. Questo passaggio mi ha lasciato perplesso, ma lasciamo perdere, diritto dello scrittore. La storia nella storia è un modo simpatico e probabilmente unico nel suo genere. L'effetto è un po' bizzarro, piace ai francesi ma non sono sicuro che abbia lo stesso effetto da noi. Traspare un amore fortissimo per Praga che però, secondo me, è raccontata troppo in fretta. A volte ironico e a volte un po' lezioso, ti lascia in bocca l'idea di un esercizio di stile, ben riuscito, ma comunque una specie di esercizio in vista di una futura scrittura. Difficile da giudicare, ma fra questo e le Bienveillantes, resto con Littel. A memoria futura ricordo una citazione di Flaubert: Nous valons plus par nos aspirations que par nos oeuvres. Questa rischiate di ritrovarla nel prossimi libro verso 2014 o giù di lì... Ce ne sarebbe anche un'altra, di Barthes: Surtout, ne cherchez pas à etre exhaustif (su questo computer ho sempre un problema d'accenti..

domenica 19 agosto 2012

La Françafrique

La Charité s/Loire 40° gradi all'ombra, e non è un modo di dire. La "canicule" domina il paesaggio mediatico francese e costringe un po' tutti, giovani e vecchi a trovar rifugio al fresco. Per rifrescarsi a volte serve anche un po' di televisione, soprattutto se, per caso (?) trasmettono dei programmi interessanti. Uno di questi ha riguardato il passato recente (e chissà che non sia ancora declinato al presente, cosa molto probabile) della Françafrique. La Françafrique è stato (è?) una istituzione creata dal Generale De Gaulle per controllare preventivamente la futura indipendenza africana. Messa in piedi fin dal 1958, ha di fatto gestito il processo di decolonizzazione rivestendolo sotto abiti più moderni ed adatti ai tempi, ma non dimenticando mai la missione centrale: fare gli interessi della Francia prima di tutto, soprattutto prima degli interessi dei paesi e delle popolazioni locali. Da quel punto di vista, si trattava di preparare una classe dirigente dipendente dai francesi (e dal partito gollista che dominava), in modo che le risorse naturali (petrolio, gas, rame e tutto il resto) continuassero ad arrivare tranquillamente in Francia e che, dietro questo, fosse possibile montare un sistema di finanze parallele per il partito dirigente e, ovviamente, chi ne stava al comando. Il sistema è rimasto conosciuto fino all'ultimo dal nome del primo responsabile nominato da De Gaulle, quel Foccart che ha fatto e disfatto più Presidenti lui di Regan, Bush I e II messi assieme. Con l'arrivo dei socialisti nel 1981 molti avevano sognato un mondo diverso e una politica diversa. Ma non volevano ricordare che chi li aveva portati al potere era un uomo che era mescolato alla politica, a quel modo di fare politica, da sempre: Mitterand. Il sistema Foccart restò quindi in funzione, solo aumentarono le necessità politiche perchè oltre ai due partiti (e leaders vari) da foraggiare a destra, adesso si aggiungeva anche il Partito Socialista. Come ha confermato il PDG della cassaforte, il responsabile del tesoro di Zio Paperone, Loic Le Floc Pigeont, capo della multinazionale petroliera francese ELF, nominato nel 1989 alla testa del gruppo, venuto a conoscenza del sistema si rivolse a Mitterand per chiedere lumi sul che fare: continuare a pagare tutti i vari partiti e leaders di destra oppure chiudere i rubinetti? La risposta fu: continuare come prima, solamente non dimenticarsi di noi. Nel 1993 i politici di destra, tornati al potere, si incartarono da soli per colpa delle rivalità fra i due leaders principali, Chirac e Balladur, che si preparavano per la corsa all'Eliseo del 1995. Risultato: apertura di una inchiesta che, se non è riuscita a condannare i vari responsabili, riuscì per lo meno a svelare quanto profondo fosse il marcio nel sistema politico francese, destra e sinistra confuse. Le stime dei soldi rubati dalla banda che faceva capo all'ELF, per foraggiare politici di primo piano, gollisti, socialisti e tutto il resto, più i vari capi di Stato africani, ammontarono, per i tre anni dell'inchiesta, 1989-1992 alla somma astronomica di 450-500 milioni di Euro (Eva Joly, giudice istruttore, dixit). La sola vera differenza che si è prodotta negli anni, a parte le morti naturali dei più vecchi, da Foccart al Presidente a vita Omar Bongo, il re delle "tallonettes", le scarpe coi tacchi che piacciono così tanto a politici a noi più vicini, è stato il capovolgimento dei rapporti fra i capi di Stato africani e la Francia. Fino al 1989 le varie ex colonie erano rimaste sotto il controllo reale della madrepatria. che decideva chi doveva governare e chi doveva essere combattuto (ricordiamoci che la Francia ha anche finanziato delle bande di mercenari degne della Banda Bassotti, per tentare un colpo di stato nel Benin, finito in modo ridicolo). Il ruolo delle ex colonie era ovvio: continuare ad approvisionare la Francia in materie prime a buon prezzo in modo che il sistema di vita francese potesse mantenersi a livello dei paesi ricchi e permettere alla sua classe politica di vivere come la vecchia aristocrazia dei secoli precedenti (ricordate la storia dei diamanti di Bokassa offerti al Presidente della Repubblica Giscard?). Tutto questo era permesso dal padre padrone americano perchè era la paga di giuda per il ruolo che la Francia assumeva in Africa di gendarme degli interessi del capitale internazionale contro le spinte comuniste portate dalla Russia. Nel 1989 cade il muro e, soprattutto, finisce la necessità di avere un gendarme africano. A quel punto liberi tutti e da un lato i capi di Stato e dall'altro le altre potenze economiche, cominciano a redisegnare i contorni delle alleanze economiche e politiche del continente. Si apre così l'era attuale dove non esiste più padrone sicuro, tutti giocano contro tutti, e dove l'unico sicuro perdente è sempre lo stesso, quel "popolo" africano in nome del quale si era svolto il processo di liberazione nazionale, decolonizzazione, liberazione etc. etc. Non ce n'è uno di paese che sia riuscito a dare voce a quelle istanze. Brucia molto, ma dovremo un giorno finalmente accettarlo, che quei socialisti che ci avevano fatto tanto sognare quel giorno di maggio del 1981, siano quegli stessi che hanno interrato così presto sogni, valori e principi per i quali battono i nostri cuori. Poi quando si riguarda la televisione di quegli anni mitterandeschi, e vedi passare un giovanbe Fabius (attuale ministro degli Esteri, all'epoca Primo Ministro), un giovane Hollande, una giovane Royal, ti dici che sembra proprio difficile sognare che stavolta sarà diverso. E se non ci riusciamo qui a cambiare qualcosa, cosa vuoi che resti ai nostri amici africani, sotto una tutela molteplice di Presidenti, eserciti, paesi "amici", tutti solo e sempre interessati alle loro risorse, naturali, mai umane? ... buonanotte....

martedì 14 agosto 2012

Altre foto del couscous di Leila

Leila, una foto della prima lavorazione e un'altra della "sauce" sulla quale si mette la semola per sfruttare il vapore.

Ricetta Platinum: Le cous cous de Leila

Ingredienti: Cous cous Semola di Cous cous non precotta (comprare al mercato di piazza Vittorio - o affini) Olio di semi Acqua e burro Salsa: Olio, sale, paprica e pepe Cipolle Carne di pollo e agnello (o pecora). Se si vuol mettere delle merguez, ricordarsi di metterle all'ultimo minuto perchè sono di cottura rapida. Trucchetti: Mettere un po d'olio (di semi) sulla pentola vapore dove si cuocerà il cous cous Modus operandi
Passare dell'olio sulla semola di cous cous in modo che tutti i grani siano imbevuti. Mescolare regolarmente con le mani. Bagnare con acqua a mano a mano c he si mescola. Fare una prima cottura con la pentola "couscoussier". Il liquido di bollitura è un brodo che sarà la futura salsa del couscous. Questo è fatto con la cipolla, carote, rapa e zucchine e ceci (chi vuole mette anche delle patate). Zucchine, ceci e patate si mettono più tardi perchè sono di cottura più veloce. Come carne si mette pollo e agnello (o pecora a seconda dei gusti). Sopra questo brodo di verdure e carne si mette la parte superiore del couscoussier con la semola, per la prima cottura che dura circa quindici minuti. A quel punto si riprende la semola per lavorarla una seconda volta, aggiungendo acqua a misura. Quando tutti i grani sono umidi, si fa la seconda cottura (sempre 15 minuti circa). A questo punto, dopo aver rimescolato, si fa la terza lavorazione col burro. Importante: l'ultima lavorazione è quella decisiva per il gusto finale e va fatta poco prima di mangiare. Si può interrompere la preparazione dopo la seconda lavorazione, lasciar riposare per un giorno (come facciamo noi oggi) e domani riprendere la terza lavorazione con il burro. PS. ça sent drolement bon!!!!

giovedì 9 agosto 2012

2012 L35: Jared Diamond - Collasso

2005 Einaudi (collana Saggi) Nessun dubbio che sará in alto nella classifica di quest'anno La recensione che ne ha fatto L'Indice mi trova completamente d'accordo: Recensione de L'indice Non c'è illusione più tremenda di questa che viviamo noi occidentali benestanti in quella parte minoritaria del mondo che definiamo più avanzata e più sviluppata. Qui, nei nostri rifugi, sembra che le risorse e l'energia del pianeta possano durare molto a lungo, se non per sempre; qui da noi non ci si preoccupa affatto di sprecare energia, acqua, cibo o merci, perché tanto ce ne saranno in abbondanza anche domani. Dalle nostre parti si pensa - quando ci sentiamo proprio munifici - che il nostro livello di vita potrà essere comodamente esportato anche dove altri esseri umani stanno morendo letteralmente di sete o di fame. Che è solo una questione di tempo, di tecnologie innovative, di progresso scientifico e culturale, al limite, di buona volontà, ma che, prima o poi, il tenore di vita medio aumenterà nei paesi in via di sviluppo e che non ci saranno conseguenze per l'ambiente o per le società del pianeta. Questa illusione è frutto di un tragico errore di prospettiva, le cui ragioni sono scandagliate a fondo da Jared Diamond in un libro immancabile che suscita continue domande, ma che ha il pregio di fornire anche alcune risposte. Dopo essere stati investiti dagli ambientalisti scettici - che ci mancavano allo stesso modo degli atei devoti - e dovendo ogni giorno combattere una battaglia estenuante contro i luoghi comuni e l'ignoranza nel campo della storia naturale, Collasso pone una pietra miliare che non potrà essere ignorata. Diamond ci costringe a pensare che il mondo di oggi è il nostro polder e che è minacciato seriamente dalla distruzione degli habitat naturali attraverso la deforestazione, la distruzione delle barriere coralline e l'eliminazione delle zone umide (ma non erano da glorificare le bonifiche?). Che stiamo rapidamente esaurendo le risorse materiali ed energetiche perché ci siamo sempre comportati come se fossero infinite e che non sappiamo gestire bene neanche quelle rinnovabili, a partire da quelle ittiche, per non parlare delle foreste e dell'acqua. Che distruggiamo la biodiversità del pianeta a un ritmo impressionante e che ci giustifichiamo paragonando l'insetto al fondamentale ruolo che invece avrebbe l'essere umano: quante volte si rimprovera di scegliere il panda piuttosto che il bambino, senza comprendere che tutte le specie naturali selvatiche - anche quelle apparentemente inutili (aggettivo di cui mi sfugge il significato) - forniscono servizi impossibili da ottenere per altra via. Che perdiamo suolo utile ignorando che per formarne qualche centimetro ci vogliono secoli o che inquiniamo le acque e rubiamo tutta l'energia che il sole mette a disposizione per la fotosintesi. Che l'inquinamento industriale fa soprattutto male a noi e che la terra continuerà a vivere egregiamente anche dopo che l'ultimo essere umano sarà morto avvelenato. Che provochiamo un cambiamento climatico magari non dissimile da quelli del passato, però a una velocità insopportabile per il pianeta. Che la popolazione umana aumenta senza limiti, ma che soprattutto cresce continuamente il nostro impatto sull'ambiente e che ciò è dovuto essenzialmente all'aumento degli standard di vita nel Terzo Mondo. È un'illusione che nessuno vuole disvelare: questo pianeta non può garantire a tutta la popolazione umana gli stessi livelli di benessere delle nazioni più avanzate, per il semplice fatto che la terra hanno smesso di crearla da un bel po'. Basterebbe che i cinesi raggiungessero gli standard di vita statunitensi per raddoppiare l'impatto ambientale degli umani, ma oggi stesso, non domani. Come a dire che da noi possiamo permetterci due automobili a testa solo perché altri venti individui vanno in bicicletta, che possiamo consumare bistecche solo perché altri muoiono di fame e che - in definitiva - respiriamo bene perché qualcun altro boccheggia. Diamond sostiene che la crescita dell'uomo moderno non è più tollerabile, con buona pace della famosa espressione ossimorica "sviluppo sostenibile": se questo equivale al consumo non ci sarà alcuno sviluppo sostenibile e tutte le bombe a orologeria prima menzionate esploderanno. Ma - si sente dire - le preoccupazioni ambientali sarebbero un lusso, dimenticando che, in realtà, un ambiente danneggiato costa già enormi somme di denaro, molto maggiori di quelle che occorrono per prendersene cura. Oppure che la tecnologia risolverà i nostri problemi, quando da sempre ne produce molti di più di quelli che non risolve: per quale ragione da domani dovrebbe funzionare meglio? È che continuiamo a giudicare il nostro benessere dall'ammontare del conto in banca, tralasciando di rendere conto delle spese, e dimenticando la lezione delle antiche civiltà declinate improvvisamente al loro apogeo. In più si rimproverano gli ambientalisti di fare allarmismo, come se si dovesse abolire il corpo dei vigili del fuoco solo perché quell'anno non si sono verificati incendi o perché alcune chiamate si sono rivelate falsi allarmi. Oppure ai paesi del Terzo Mondo di non fare abbastanza in termini di salvaguardia ambientale, come se i gravi problemi ecologici del pianeta non avessero un nome e un cognome ben precisi. Scrive alla fine Diamond: "Ridurre il nostro stile di vita spontaneamente è inverosimile, ma è nello stesso tempo la soluzione meno irrealistica fra tutte le altre che prevedono la nostra sopravvivenza". Non più sviluppo, ma decrescita sostenibile, insomma, che solo a nominarla qualsiasi economista viene preso da orticaria. Il riesame delle civiltà del passato e dei tanti casi di collasso imprevisto - insieme ai pochi casi di successo - permette a Diamond una prospettiva temporale profonda e ricca, dai Maya al futuro, stendendo il medesimo lunghissimo filo del rapporto malsano di Homo sapiens con il mondo naturale, non trascurando i fattori economici, sociali e psicologici, ma riconducendo al rapporto con il sistema terra l'origine vera dei mali dell'umanità. Qual è in fondo la vera differenza fra gli animali non umani e noi? La domanda non viene posta esplicitamente in Collasso , ma traspare da tutte le righe del libro, tanto che viene il dubbio se la risposta sia stata data per scontata o volutamente sottaciuta. Che nessuna società animale ha mai fatto - in quattro miliardi e mezzo di anni, si sia trattato di batteri o dinosauri - del profitto la propria ragione di esistenza. In natura non esiste capitalismo, e le popolazioni animali che si mettono in contrasto con il pianeta non vengono premiate dall'ambiente e trovano un freno nei vincoli naturali. In natura non c'è altro che selezione naturale e sopravvivenza del più adatto - che ci piaccia o no - e tutti hanno coscienza o istinto del limite delle risorse: non c'è accumulo in natura, se non per la stretta necessità stagionale. L'illusione che noi umani potremmo sfuggire a questa legge è solo la più pericolosa che possiamo coltivare. http://www.ibs.it/code/9788806176389/diamond-jared/collasso-come-societa.html Per i lettori anglofoni segue commento da http://www.socialactionaustralia.org/2008/06/18/jared-diamond-on-australia%E2%80%99s-sustainable-population/ Prof. Diamond has since published Collapse: How Societies Choose to Fail or Survive (Penguin, 2005: 574 pp) which includes a chapter, Mining Australia (38 pp) deserving the most serious consideration by any Australian government, regardless of its party political social theories. In this tour de force, he reviews the reasons for the disintegration of cultures with legacies of abandoned ruins in Norse Greenland, Anasazi Chaco Canyon, Rapa Nui (Easter Island) and other Pacific Islands, in Mayan Yucatan, and elsewhere. These reasons - mainly overpopulation and irrational actions driving local environmental degradation - have also played their part in modern tragedies including the Rwandan genocide and the impoverishment of nations such as Haiti, while neighbour states (eg. Dominican Republic) prosper. The prospects for nations including China, the United States, and others subject to environmentally disastrous values, with failure to recognise or anticipate the consequences of irrational political policies and unsuccessful remedies, are comprehensively brought into focus. He sees Australia, not as a nation facing imminent collapse, but as the first world’s miners’ canary: a developed country facing a rapid decline in living standards as its burgeoning population outstrips its rapidly degrading natural resource base. After consulting widely with government authorities, academics (including Tim Flannery) and grassroots farmers, graziers, and Landcare-type groups, Jared Diamond compares us with other nations, past and present. He details our problems of soil fertility and salinization, land degradation, diminishing freshwater resources, distance costs, over-exploitation of forests and fisheries, importation of inappropriate European agricultural values and methods and alien species, trade and immigration policies. He concludes that the mining of our natural resources - their unsustainable exploitation at rates faster than their renewal rates since European settlement began - gives us the dubious distinction of ”…illustrating in extreme form the exponentially accelerating “horse race” in which the world now finds itself……on the one hand, the development of environmental problems……on the other hand, the development of public environmental concern, and of private and governmental countermeasures. Which horse will win? Many readers……will live long enough to see the outcome.” Specifically, he concludes: ”Contrary to their government and business leaders, 70% of Australians say that they want less rather than more immigration. In the long run it is doubtful that Australia can even support its present population: the best estimate of a population sustainable at the present standard of living is 8 million people, less than half of the present population.” The reasons supporting this alarming prognosis (how long is “the long run”?) are very briefly summarised as follows. Non-sustainability: ”At present rates, Australia’s forests and fisheries will disappear long before its coal and iron reserves, which is ironic……the former are renewable but the latter aren’t.” And: ”While many other countries are mining their environments……among First World countries, (our) population and economy are much smaller and less complex than……the U.S., Europe or Japan……the Australian situation is more easily grasped.” Exceptional ecological fragility: ”…the most fragile of any First World country except perhaps Iceland……many problems that could eventually become crippling in other First World countries and already are so in some Third World countries - such as overgrazing, salinization, soil erosion, introduced species, water shortages, and man-made droughts - have already become severe in Australia.” An informed population: we have ”……a well-educated populace…and relatively honest political and economic institutions by world standards. Australia’s environmental problems cannot be dismissed as……ecological mismanagement by an uneducated, desperately impoverished populace and grossly corrupt government and businesses……” Climate change: clearly exacerbating our ”obvious massive impacts on the Australian environment”. Traditional core values: ”……friendly relations with Britain as a trade partner and model society have shaped Australian environmental and population policies……and some imported cultural values……inappropriate to the Australian landscape (e.g. agricultural practices based on high-yield British soils). We are now ”thinking radically” and acting to modify some of these core values. Australian soils, especially their low nutrient and increasingly high salt levels. We inhabit ”…the most unproductive continent…soils with the lowest average nutrient levels…old, leached over billions of years…only a few small areas have been renewed by volcanic or glacial activity or slow uplift. Agriculture has therefore depended on fertilizers and cultivation of large low-yield areas, with increased machinery and fuel costs, competitive disadvantages vis-à-vis food imports, low agroforestry returns due to slow tree growth, and relatively unproductive coastal and inland fisheries due to low-nutrient runoff. Salinity, i.e. salt mobilization. Increasingly, low soil nutrient fertility is worsened by salt, from three causes: sea-salt blown inland over south-west W.A. wheat belt; repeated past marine inundations of the Murray-Darling basin and evaporation of inland lakes; mobilisation of salt by land clearance and irrigation agriculture. ”Salinization…already affects about 9% of all cleared land in Australia……projected under present trends to rise to about 25%.” And: ”The total area in Australia to which salinization has the potential for spreading is more than 6 times the current extent and includes a 4-fold increase in W.A., 7-fold increase in Queensland, 10-fold increase in Victoria and 60-fold increase in New South Wales.” If true: phew!!! Fresh water as a population-limiting factor: ”Australia is the continent with the least of it.” Most readily accessible water is already utilised - domestic, agriculture and industry. For instance, our largest river, the Murray/Darling, has two thirds or more of its flow drawn off each year (in some years no water is left to enter the ocean), and becomes progressively saltier downstream towards Adelaide, with increased burden of pesticides from cotton farming and irrigation practices. Further high-energy desalination plants now seem inevitable for urban requirements. Historically, “Australian land use has gone through many cycles of land clearance, investment, bankruptcy and abandonment” from early colonial times, due to low soil productivity and a disproportionately large fraction of pastoral and arid lands subject to low-average unpredictable unreliable rainfall. This is due to the ENSO (El Nino Southern Oscillation) climatic factor, resulting in uncertain crop returns, bare soil, and consequent soil erosion and salinization. South Australia’s Goyder Line and parts of Western Australia’s Gascoigne provide two of many examples. The “tyranny of distances”, imposing large extra costs, both within Australia and between our trading partners. These costs also mitigate against medium-sized towns, producing the world’s most urbanised nation (about 60% of us dwell in the 5 major cities). Introduced species: cattle and sheep have been of great economic value, while also damaging fragile ecosystems. Whereas rabbits, foxes, cane toads, carp, feral buffalo, camels, donkeys, horses, goats, blackberry, “Paterson’s curse”, mimosa in Kakadu, and other weed species (about 3000, alone causing economic losses of about $2 billion annually), are expensive disasters. Land clearance (encouraged by tax incentives), overstocking and overgrazing have resulted in dryland salinization, soil erosion and land abandonment. ”Rotting and burning of the bulldozed vegetation (in 2005) contribute to Australia’s annual greenhouse emissions a gas quantity approximately equal to the country’s total motor vehicle emissions.” Marine overfishing: species which have been “mined” to uneconomically low levels include coral trout, eastern gemfish, Exmouth Gulf tiger prawns, school shark, southern bluefin tuna, tiger flathead, and orange roughy. Damage to freshwater fisheries, e.g Murray cod and golden perch, may also be irreversible. Forestry: with only 25% of 1788 forests remaining intact, and still being mined, half our export products are wood chips (as low as $7 per ton) sent mostly to Japan, where the resulting paper sells for $1000 per ton; we import nearly 3 times our forest products exports, one-half as paper and paperboard products. ”One expects to encounter that particular type of trade asymmetry ……when an economically backward non-industrialised unsophisticated Third World colony deals with a First World country……buying their raw materials cheaply, adding value……and exporting expensive manufactured goods to the colony.” Trade: ”In short, over the past half century Australia’s exports have shifted from predominantly agricultural products to minerals, while its trade partners have shifted from Europe to Asia.” We are exposed to unprecedented new national security and economic factors, Population policy: ”The fallacy behind the policy of “filling up Australia”, despite ”compelling environmental reasons” to the contrary, arises from our aspirations for national security and economic power (with only a few millions each, Israel, Sweden, Denmark, Finland and Singapore already outstrip us, implying that quality is more important than quantity?) Some politicians and business leaders still call for 50 millions, regardless of our declining natural resource base! This may rapidly convert us to “a net food importer rather than exporter of food”, in a world already struggling to feed an expanding population of some 6.6 billions. It will also dilute our per capita earnings from mineral exports.

lunedì 6 agosto 2012

Sabbiarossa Edizioni: ESPERANZA prima recensione

In attesa della sua distribuzione e presentazione ufficiale a partire da settembre, alcune copie sono state date ad alcune persone a cui siamo legati, amici o, come in questo caso, fratello (per me) e padre (per Pierre). Inutile dirvi quanto ci tenessi alla sua opinione, dato che su questi temi ci lavora da anni e soprattutto considerando che Bruno non fa sconti, se no gli fosse piaciuto non ce l'avrebbe mica mandato a dire. Gli mando un altro grazie di cuore da questo post. Carissimi Paolo e Pierre, Ho finito ieri di leggere il vostro libro e l’ho trovato appassionante, ben costruito e ben scritto. E’ un libro che fa riflettere e che arricchisce spiritualmente. Le due storie di famiglia, quella tedesca e quella argentina, si intrecciano molto bene. All’inizio ci si chiede qual’è il rapporto fra le due, ma ben presto si è presi dal ritmo della narrazione e, una volta iniziata la lettura, è difficile staccarsene. Come in un buon romanzo giallo, il suspence rimane intero sino alla fine : il falso incidente della zia suora, la scoperta, da parte della protagonista, di essere figlia di desaparecidos. Il tema del silenzio, del non voler sapere, del voler chiudere gli occhi su una realtà drammatica, è particolarmente forte e ben trattato. Secondo me, è un aspetto fondamentale della società tedesca e di quella argentina. Il libro mostra la forza di questa volontà, collettiva e individuale, di non sapere, ma anche la fragilità di questo muro del silenzio, destinato prima o poi a incrinarsi e a crollare. Altro tema centrale è quello della trasmissione del trauma di generazione in generazione, e questo non soltanto per i discendenti delle vittime, ma anche per quelli degli assassini. La storia di Antonia/Flor e di Mathias è una specie di Bildungsroman, un romanzo di formazione, dove i protagonisti maturano attraverso le successive esperienze, alla ricerca della verità sul passato (della famiglia e della società nel suo insieme) e su se stessi. Ho apprezzato anche il finale. Non c’è happy end, perché la tragedia è troppo grande e i protagonisti ne sono stati in gran parte distrutti, ma c’è appunto un filo di speranza. L’accostamento Bolivia-Argentina è ben riuscito, e permette di affrontare – non in maniera didattica, ma attraverso le esperienze dirette dei protagonisti – i principali problemi di queste due società, a cominciare da quello della terra, dello spossessamento dei contadini e, particolarmente forte nel caso boliviano, il razzismo e il disprezzo dei bianchi nei confronti della popolazione indigena. Coincidenza : a La Paz sono stato alloggiato per una settimana in una pensione della calle Hermanos Manchego, a due passi dalla sede dell’ONG Terra. L’unico punto forse inesatto – dico forse perché è da verificare – del libro riguarda il suicidio di Erminia, che si getta sotto il rapido Buenos Aires – Rosario. Questo permette di evocare un altro aspetto della realtà argentina, lo smantellamento della rete ferroviaria durante il decennio di Menem, e le conseguenze sociali ed economiche disastrose di questa decisione. Mi chiedo però se quel treno rapido esisteva ancora al momento in cui Erminia si suicida, nel 2001 o 2002, quando Menem non era più al potere : la privatizzazione/smantellamento della rete ferroviaria data del 1991-92, e mi sembra poco probabile che un collegamento rapido Buenos Aires/Rosario abbia sopravvissuto per una decina d’anni. Da verificare dunque. In conclusione, il libro è davvero una realizzazione importante. Bravi! Sarebbe bene continuare su questa strada. Affettuosamente Bruno

mercoledì 1 agosto 2012

Venezuela: the promise of land for the people

http://mondediplo.com/2003/10/07venezuela Very interesting article by Maurice Lemoine, Journalist at Le Monde Diplomatique and strong supporter of Chavez's revolution. The article, recently reprinted, has been written in 2003. I ha
ve been visiting some of these settlements few years ago, and the situation seems as disappointing as it is depicted in this article.
Venezuela’s opposition particularly loathes the crucial agricultural reforms of President Hugo Chávez, which have begun to return parts of enormous, barely used land-holdings to poor landless peasants and to encourage them to grow their own food and build working communities. by Maurice Lemoine THE latifundio (large estate) spread out across a vast plain like a sea dotted with bushy islands, begins 10 minutes’ drive from San Carlos, which is the capital of Cojedes state. It is only a few kilometres from the little square where General Ezequiel Zamora (1) was killed in January 1860. Behind countless lines of barbed wire lie the 20,000 hectares of hatos (cattle-farms) belonging to the Boulton family, one of the richest in the country. Then come the 14,000 hectares of Hato El Charcote, property of Flora Companía Anónima. A few dozen young bulls graze this land, lost in its immensity. Beyond that the Branger family’s estate covers a massive 120,000 hectares of El Pao municipality. And beyond that other terratenientes (landowners) estates, domains of 80,000 hectares here, 30,000 hectares there, often with as few as three or four hectares actually being used. "I’m a landless peasant. I’ve got land, but it’s in the graveyard," says Jesús Vasquez. For years, any campesino (2) who trespassed on these uncultivated tracts would be caught and imprisoned, or chased out with bullets. The peóns (farm labourers) worked for the miserable daily rate of 3,000 bolos (3). On tiny fractions of an acre, campesinos grow anaemic maize and live off the Holy Spirit. Anyone who cannot afford to buy or rent an allotment rots, confined to the four walls of some horrible slum on the edge of a town. But those who are very hungry will not wait for ever. On 14 October 2000, Jesús Vásquez, along with 25 men and one woman, occupied part of Hato El Charcote. Its owner turned out to be the British Crown, via Flora Companía Anónima. "The government asked them to present the deeds, but they never did. It’s effectively state land," explains Vásquez. The enquiry by the National Land Institute (Instituto Nacional de Tierras, INTI), created on 8 January 2002 to enact President Hugo Chávez’s land reforms, confirmed this. Since then some 800 families, organised into 24 cooperatives, have been granted a part of the property, and have begun to work 7,000 hectares. Fields of maize, papaya, beans, yucca and other vegetables now surround palm-roofed ranchos and a wooden school that the campesinos have built. They also built the bridges needed to access the area, and now drive across them in tractors and trucks bought with government credits. "Last year we harvested two tonnes of maize. This year we reckon we’ll get up to six tonnes and much more later on," says a jubilant Vásquez. "People are growing things and have got enough to eat. It’s a magnificent development." With the complicity of previous governments, the terratenientes unjustly appropriated millions of hectares, with the result that Venezuela now imports 70% of its food (4). The owners of Polar beer (the largest industry after petrol) import all their hops from the United States. Tinned sweetcorn is imported. This situation benefits big importers and disadvantages the poorer sections of the economy, especially smallholders: it has left hundreds of thousands of campesinos behind. On 13 November 2001, as part of a package of 49 laws passed by presidential decree, Chávez announced a Land Law to redress Venezuela’s chronic social injustice and to guarantee food supplies by boosting domestic production. Though the law aims to end the latifundio system, it affects only unused land, which it either taxes or expropriates. It forbids any individual to own more than 5,000 hectares and plans to repossess many acres of illegally occupied state land, redistributing all of it to the campesinos, principally, but not exclusively, through the formation of cooperatives. On 8 December 2001 about 20,000 campesinos (4) piled into buses or on to the backs of open trucks and left their derelict pueblos and tangled allotments behind them. The next day they marched through Caracas to celebrate what had happened. "We moved of our accord, not like before, when you’d have to offer campesinos money or food to get them to move," insists Claudio Ditulio of Curito Mapurital (Barinas state), where the INTI has just handed 31,700 hectares to 500 families. "We went there with few resources, but with great hopes." The great cry for land has finally been heard. It will surely cause many more demonstrations of support for the Bolivarian Revolution (5). "I’ve marched further for this president than I’ve ever run after a woman," says one of Ditulio’s companions from under his felt hat in the intense heat. Pushing through radical reforms, the Bolivarian Revolution is at last getting down to work. It is also beginning a battle with the opposition. There were immediate reactions from groups such as the Táchira State Cattleraisers Association (Asociacón de Ganaderos del Estado Táchira, Agosata) and the Táchira section of Venezuela’s powerful employers’ organisation, the Fedecámaras. "The law is interventionist. It imposes state control and ignores the right to property, which is a fundamental human right," it said. "Taxation of uncultivated lands is unconstitutional. This law is based on communist ideas, as collectivist policies usually are, rather than a political philosophy. What is emerging is a totalitarian attitude" (6). For José Luis Betancourt, leader of the National Federation of Cattle raisers (Federación Nacional de Ganaderos), the law "will bring many establishments to ruin". Pedro Carmona, the boss of bosses supported by Carlos Ortega, head of the highly corrupt Venezuelan Workers’ Confederation (Confederación de Trabajadores de Venezuela,) used the same arguments in calling the first general strike on 10 December 2001, a prelude to the 11 April 2002 coup attempt. "The arbitrary nature of these laws demands forceful and unequivocal arguments and acts of resistance," he said (7). Yet on that 10 December, defying the strike, Chávez went ahead and officially signed the land reforms into law in front of a sea of flags and red berets in Barinas, saying: "Landowners, prepare your papers; you are going to have to prove your rights to these estates!" Representatives of the landowners tore up the law in a public demonstration broadcast live by the media. "Our terratenientes aren’t even capitalists. Capitalists make use of their land," says Ricaurte Leonete, appointed chairman of the INTI at the beginning of August 2003. "In Europe capitalism got rid of this kind of parasitic behaviour a long time ago." But the opposition accuses the Chávez government of "Castrocommunism". There is the sound of battle across Venezuela. In Yaracuy State, it is as loud as thunder. Here campesinos call their neighbours camaradas and recite poetry. The collective struggle against "the thousand-headed terrophagus" (land-eating monster) has gone on for decades. Led by Braulio Alvárez, the charismatic leader of the Ezequiel Zamora National Agrarian Board (Coordinadora Agraria Nacional Ezequiel Zamora), the Urachiche and Camunare Rojo land committees requested and received, on 4 May 2002, 665 hectares of fallow land from the Bolmer and Azleca families. Both are closely tied to the family of the state’s opposition governor, Eduardo Lapi. According to the INTI, this land belonged to the former National Agrarian Institute (IAN). On 12 July, acting on orders from the governor, the pantaneros, the regional police’s hard men, violently attacked 850 people who had moved there quite legally, pushing them back to Camunare Rojo with tear gas and gunfire: 20 people were wounded and eight hospitalised. "People are playing at anarchy in Yaracuy, and I won’t allow it," said Lapi, while the president of the state’s legislative council, Victor Pérez, denounced the Camunare Rojo campesinos and their strategy of terror. In the Santa Lucía section of the Santa Catalina estate (which "belonged" to the Central Matilde sugar consortium), 600 people received 540 hectares on 3 May 2003. They also got 170m bolivars ($106,300) and a Chinese tractor, and have already managed to sow 170 hectares. "Armed men attacked us on 20 July; they burnt a truck and a car, beat two people up, and poured petrol over them," says Zapata, one of the cooperative’s leaders. The expressions on the gaunt faces around him seem weary. A tribunal from nearby Barquisimeto has now set up a degree of protection through National Guard patrols. But "we can still see the pantaneros from Lapi posted over there," claims Zapata, pointing at old lodgings." They shoot into the sky, they threaten us and try to provoke us into responding, to justify more violent repression." It’s one thing when the enemy is an opposition governor - as in the states of Yaracuy, Apure and Carabobo - or a politician from the ancien régime. But in January 2002, in El Robal (Cojedes State), it was Jhonny Yanez Rangel who let the dogs out. He had been elected as a member of the Movement for the Fifth Republic (MVR, the presi dent’s party). "He kicked out the campesinos and destroyed their ranchos and their equipment. Everything was lost," says Vásquez, still enraged at what happened. How could a revolutionary governor act against the revolution? He might be one of the opportunists who joined the Chávez camp when his election victory began to look inevitable. On 12 April 2002 Yanez Rangel rallied to the anti-Chávez government without fuss, shamelessly switching back two days later when Chávez regained power (8). The situation in Cojedes state is made worse by the initial total ineffectiveness of the regional INTI. "There were sinister forces getting in the way - the landowners and economic powers -everything was delayed," recalls José Pimentel, who is responsible for recruiting for the buses whenever there is a trip to Caracas to support the president. "At our request Adán Chávez [the president’s brother, head of the INTI at the time] ran an audit and realised that the local leaders had achieved nothing in nine months." Gustavo Guttierez was appointed leader of a replacement team in July 2003, and is working seven days a week to correct the mistakes and reform the institution. To be fair to the INTI, the organisation was created from scratch very quickly after it took over from the ineffective and corrupt IAN. "These were newly-appointed officials," explains current chairman Ricaurte Leonel. "They had to get to grips with the new law and how to apply it." In a country where archives and land registers are often incomplete, and pseudo-landlords attempt to block access, the early days were uneasy. In September 2002, when Chávez found out that the new body had not even redistributed 1,000 hectares, said Leonel, "he flipped, and said ’I want 1.5m hectares redistributed by 30 August 2003, or you’re all fired, from the chairman [then his brother Adán] to the lowest-ranking official’." Since then, redistribution has progressed quickly. By August 2003, 1,340,000 hectares had been handed over to 62,800 families. The objective remains 2m hectares per 500,000 campesinos (9). There are still a few blackspots, though, especially in Apure state, a dangerous region along the Colombian border. "We’re suffering here, compañero," laments a campesino. The agrarian revolution hasn’t reached us." The figures speak for themselves: Flora Companía Anónima (property of the British crown, as in Cojedes) holds 350,000 hectares, Hato La Victoria, 100,000, Hato El Cedral, 150,000, La Caña Vilena, 30,000, and Matebanco, 25,000. In these plains (10) vast expanses of abundant tall grass are drained by rivers that snake in meanders under forest canopies, and in the monotony of the flood plains, the campesino movement has always been harshly repressed, and accused of providing guerrilleros. One period stands out in memories: TO-1, the first Theatre of Operations, under General Enrique Medina Gómez. This section of the Venezuelan army was supposedly aimed at countering infiltration by Colombian gangs. On 23 January 1997 Medina Gómez freed seven Colombian paramilitaries who had been held, with their weapons, since 22 December. These men were receiving some 2-3m bolivars from the cattle-raisers along the border in exchange for security. The general’s explanation was that they were carrying out an intelligence mission and had legitimate authoris ation from TO-1. Later distanced from Chávez and (imprudently) appointed military attaché at the Venezuelan embassy in Washington, Medina Gómez was a key player in the 11 April 2002 coup. In 1998 repre sentatives from the town of Guasdualito had accused members of the intelligence service Disip (Dirección de Servicios de Inteligencia y Prevención) of collaborating with the paramilitaries operating along the border. In Guasdualito today Santo Durán, technical director of the local INTI branch, indicates his office’s 1970s furniture, and the one computer he shares with two other people. Folders and files are piled up in front of him as he complains about the lack of resources. "We’re only just scraping through," he admits. This situation is common. INTI delegations everywhere appear to be ill-equipped. But when asked about this, Durán tries to be reassuring. Despite disagreements and the resistance of certain big landowners, he says things have generally been sorted out amicably. Warnings are coming from those with most to gain, the campesinos. "There are 70 occupations here that INTI has done nothing for. Not one carta agraria (the document that allows campesinos to occupy the land) has yet been issued in Alto Apure," (11) says Domingo Santana of the Simón Bolivar Revolutionary Front. Anger is breaking out in the poor ranchos in a 200-metre wide strip alongside the muddy waters of the Apure. "We can’t go any further back," explains a woman, fending off insects that buzz around her plate. "It’s private property." In this stormy landscape, where mud can get waist-deep, local INTI bureaucrats face a hurricane. "Those guys are not committed to the revolutionary process and are just exploiting the land law to get their hands on a good salary," says Santana. Noting that Durán used to be the administrator of a property, Hato La Miel, they aim to take over, the campesinos are making serious plans to take the INTI establishments by force. But they welcome Caracas’s appointment of Ricaurte Leonel ("a good friend from whom we expect great things") as head of the institution. He has always been attached to the campesino movement, and knows Alto Apure well. The Bolivarian Revolution aims to be, and is, democratic. It has never carried out executions or witch-hunts. This is its great strength, and also its weakness. On 6 February 2003 Chávez visited the Jacoa cooperative’s land in Barinas, an estate long neglected by its two owners. A magnificent new road had been built to open up the area. As well as the cartas agrarias, the 500 occupants received three tractors and 690m bolivars ($430,000) in credits. Seven months later the project, intended as a showcase for Chávez’s policies, was a partial failure. "Our comandante thinks everything’s working great! They hide the real figures from him; no one tells him the truth. There haven’t been 500 hectares opened up for farming here, only 15." The Ministry of Infrastructure (Minfra) should have deforested 400 hectares by now. It hasn’t. Despite repeated demands, officials from the Rural Development Institute, responsible for drainage and irrigation, haven’t appeared. Those from the environ ment ministry have been conspicuously absent too. "The state institutions won’t see me," complains Richard Vivas, a leader of the cooper ative, "only the INTI supports me". Gladys, who works for the INTI in Caracas, confirms these problems. The government aims to hand out not only land, but also machinery and credits. It wants the population to have access to an infrastructure of housing, schools and health centres. To achieve this, the INTI has to work with the relevant ministries and councils - highly bureaucratic structures, many of whose staff are members of the old political parties and have been festering there for as much as 15-20 years. "They do everything they can to scupper this kind of development," she says. "Like the ministers, we have to work conspiratorially, by infiltrating these establishments and seeking out allies. So the results are often slow." It is a huge waste of time and energy. For the first time, from inside their barro (12) dwellings - worlds of leather saddles, blades, bags, storm lamps, skins, boots and piles of clothes - the campesinos are emerging organised and aware of the law. They read it. They know they have rights. They react to the delays and difficulties in a highly politicised manner. "Don’t succumb to provocation" is the advice heard at a meeting on Hato El Miedo, Barinas. "We must fight with our heads. Our weapon is the law." On the Jacoa domain there are preparations to give the slovenly institutions a shock. One of the leaders outlines the strategy: "We’ll have to enter by force. But, listen carefully, with a banner saying: ’We are revolutionaries, we are with the president; the problem is with this particular official’." Otherwise, the press will get hold of it and use it for the opposition’s benefit." The opposition is always poised for attack. On 20 November 2002, thanks to its control of the Supreme Court of Justice, it successfully annulled articles 89 and 90 of the Land Law. Article 89 permitted the INTI to allow pre-emptive occupation of land during the court proceedings aimed at proving the supposed landlords’ illegitimacy. Estates can now only be occupied after adjudi cation by a slow, opaque legal system that is often in collusion with the opposition. Article 90, meanwhile, ruled out indemnity payments to "landlords" who had built works, houses or buildings on illegally occupied state land. "Imagine," says an indignant Ricaurte Leonel in his office overlooking the Parque Central in Caracas, "someone steals my car. The thief replaces the tyres and the engine, and then when I claim my car back, I’m expected to reimburse him for the tyres and the engine." Until the National Assembly rewrites the articles in question, presidential decree 2292, of 4 February 2003, combined with INTI resolution 177, has created the cartas agrarias. Without constituting property deeds, these allow for the occupation of disputed land and the granting of credits for its exploitation. However, resistance to this rural revolution has also manifested itself in more violent ways. The regional INTI co-ordinator, Richard Vivas, leaving Guanare (capital of Portuguesa state) at the wheel of his dark-windowed car for Zoropo, received a phone call, telling him of a problem between a group of campesinos and three campo volantes (guards) (13). On the scene, amid woodland and bush, the atmosphere was confused and charged. "They won’t let us pass," protested a woman, pointing at the three men with their guns tightly gripped. "They threaten us, they burn our ranchos, they destroy our harvests," adds her companion, enraged. Vivas calms his people down. Before the campo volantes’ worried eyes, he gets out his mobile phone: "I"m going to ask Disip to search and identify these people." Arriving back in Guanare he admits: "I’ve received a lot of death threats. I take them seriously. This opposition kills." Twelve people have been murdered in Portuguesa state, including Jacinto Mendoza, executed in front of the INTI offices. He was helping organise a land committee demanding property deeds for 50 families to occupy fallow land belonging to the state. When the intermediary who recruited the sicarios (contract killers) was arrested, he said he had received 8m bolivars ($5,000) from Omar Contreras Barboza, ex-minister of agriculture under Carlos Andrés Pérez, the former president who was ousted on corruption charges. Barboza claims to own the land. There has so far been no reaction from the judiciary. There are extermination groups, organised gangs in the landowners’ pay, especially in the states of Zulia, Barinas, Táchira and Apure. And there are media troublemakers. On 24 March, in a report published by the daily El Universal, Roberto Giusti accused Jorge Nieves, a campesino and community leader, of being one of the Apure region comandantes of a supposed Bolivarian Liberation Front (FBL), said to be the armed wing of the Bolivarian Revolution, and in league with the Colombian guerrillas (14). A month later, in a region teeming with Colombian paramilitaries, he was shot down in the centre of Guasdualito. Fedenaga claims that the armed forces assist invasions of productive land, and that the cartas agrarias are handed out to guerrilla groups. The opposition accuses Chávez of dictatorship. In reality, the victims come from among the supporters of a democratically-elected president: in this conflict forgotten by the media, 74 campesinos have been killed in two years, and more than 120 since 1999. Despite these crimes, despite the blood shed under these enormous skies, the enthusiasm and unwavering support for "our comandante, President Hugo Chávez" is incredible. Everywhere, your hear the greeting "Epa chámo, como está la lucha?" (Hi, friend, how’s the struggle?) . Everywhere, people are talking about maize, sorghum, vegetables, fruits, cattle, fish-farming and land cultivation, new schools and new houses. Of course, no one has forgotten that the first thing the short-lived dictatorship of 11 April 2002 did was to annul the Land Law. People are following closely the political crisis in Caracas, where the opposition is trying every means to oust Chávez from power before he can carry out his reforms. By allusion or even openly, people are warning, just in case. "If they take all this away from us, there will be civil war."

Estate, tempo di sogni, letture e ricordi

http://www.thomassankara.net/spip.php?article285&lang=fr Nel caldo afoso di quest'estate, mi ritrovo a leggere questo discorso di Thomas Sankara, che fu Presidente del Burkina Faso nel periodo 1983-1987. Questo discorso (disponibile in versione completa sul sito qui sotto, in francese, italiano e spagnolo) venne pronunciato all'Assemblea delle Nazioni Unite il 4 ottobre 1984. Belle parole, molte emozioni, poi uno pensa che comunque sono parole di politici, che lanciano frasi ad effetto, promesse che poi non mantengono... chissá, forse sarebbe andata cosí anche con lui... pochi giorni dopo venne assassinato, e la rivoluzione burkinabé finí quel giorno.
È al tempo stesso necessario e urgente che i nostri esperti e chi lavora con la penna imparino che non esiste uno scrivere neutro. In questi tempi burrascosi non possiamo lasciare ai nemici di ieri e di oggi alcun monopolio sul pensiero, sull’immaginazione e sulla creatività. Prima che sia troppo tardi - ed è già tardi - questa élite, questi uomini dell’Africa, del Terzo mondo, devono tornare a casa davvero, cioè tornare alla loro società e alla miseria che abbiamo ereditato, per comprendere non solo che la lotta per un’ideologia al servizio dei bisogni delle masse diseredate non è vana, ma che possono diventare credibili a livello internazionale solo divenendo autenticamente creativi, ritraendo un’immagine veritiera dei propri popoli. Un’immagine che gli permetta di realizzare dei cambiamenti profondi delle condizioni politiche e sociali e che strappi i nostri paesi dal dominio e dallo sfruttamento stranieri che lasciano i nostri stati nella bancarotta come unica prospettiva. […] Abbiamo scelto di rischiare nuove vie per giungere ad una maggiore felicità. Abbiamo scelto di applicare nuove tecniche e stiamo cercando forme organizzative più adatte alla nostra civiltà, respingendo duramente e definitivamente ogni forma di diktat esterno, al fine di creare le condizioni per una dignità pari al nostro valore. Respingere l’idea di una mera sopravvivenza e alleviare le pressioni insostenibili; liberare le campagne dalla paralisi e dalla regressione feudale; democratizzare la nostra società, aprire le nostre anime ad un universo di responsabilità collettiva, per osare inventare l’avvenire. Smontare l’apparato amministrativo per ricostruire una nuova immagine di dipendente statale; fondere il nostro esercito con il popolo attraverso il lavoro produttivo avendo ben presente che senza un’educazione politica patriottica, un militare non è nient’altro che un potenziale criminale. Questo è il nostro programma politico […] Parlo qui in nome di tutti coloro che cercano invano una tribuna davvero mondiale dove far sentire la propria voce ed essere presi in considerazione realmente. Molti mi hanno preceduto su questo palco e altri seguiranno. Però solo alcuni prenderanno le decisioni. Eppure, qui ufficialmente siamo tutti uguali. Bene, mi faccio portavoce di tutti coloro che invano cercano un’arena dalla quale essere ascoltati. Sì, vorrei parlare in nome di tutti gli “abbandonati del mondo”, perché sono un uomo e niente di quello che è umano mi è estraneo. […] Questo inganno non è più possibile. Il nuovo ordine economico mondiale per cui stiamo lottando e continueremo a lottare può essere raggiunto solo se saremo capaci di fare a pezzi il vecchio ordine che ci ignora; se occuperemo il posto che ci spetta nell’organizzazione politica internazionale e se, data la nostra importanza nel mondo, otterremo il diritto di essere parte delle discussioni e delle decisioni che riguardano i meccanismi regolatori del commercio, dell’economia e del sistema monetario su scala mondiale. Il nuovo ordine economico internazionale non può che affiancarsi a tutti gli altri diritti dei popoli, - diritto all’indipendenza, all’autodeterminazione nelle forme e strutture di governo - come il diritto allo sviluppo. Come tutti gli altri diritti dei popoli può essere conquistato solo nella lotta e attraverso la lotta dei popoli. Non sarà mai il risultato di un atto di generosità di qualche grande potenza. ====== Il est nécessaire, il est urgent que nos cadres et nos travailleurs de la plume apprennent qu’il n’y a pas d’écriture innocente. En ces temps de tempêtes, nous ne pouvons laisser à nos seuls ennemis d’hier et d’aujourd’hui, le monopole de la pensée, de l’imagination et de la créativité. Il faut, avant qu’il ne soit trop tard, car il est déjà trop tard, que ces élites, ces hommes de l’Afrique, du Tiers Monde, reviennent à eux-mêmes, c’est-à-dire à leur société, à la misère dont nous avons hérité pour comprendre non seulement que la bataille pour une pensée au service des masses déshéritées n’est pas vaine, mais qu’ils peuvent devenir crédibles sur le plan international, qu’en inventant réellement, c’est-à-dire, en donnant de leurs peuples une image fidèle. Une image qui leur permette de réaliser des changements profonds de la situation sociale et politique, susceptibles de nous arracher à la domination et à l’exploitation étrangères qui livrent nos Etats à la seule perspective de la faillite. Nous avons choisi de rechercher des formes d’organisation mieux adaptées à notre civilisation, rejetant de manière abrupte et définitive toutes sortes de diktats extérieurs, pour créer ainsi les conditions d’une dignité à la hauteur de nos ambitions. Refuser l’état de survie, desserrer les pressions, libérer nos campagnes d’un immobilisme moyenâgeux ou d’une régression, démocratiser notre société, ouvrir les esprits sur un univers de responsabilité collective pour oser inventer l’avenir. Briser et reconstruire l’administration à travers une autre image du fonctionnaire, plonger notre armée dans le peuple par le travail productif et lui rappeler incessamment que sans formation patriotique, un militaire n’est qu’un criminel en puissance. Tel est notre programme politique. Je m’élève ici au nom des tous ceux qui cherchent vainement dans quel forum de ce monde ils pourront faire entendre leur voix et la faire prendre en considération réellement. Sur cette tribune beaucoup m’ont précédé, d’autres viendront après moi. Mais seuls quelques uns feront la décision. Pourtant nous sommes officiellement présentés comme égaux. Eh bien, je me fais le porte voix de tous ceux qui cherchent vainement dans quel forum de ce monde, ils peuvent se faire entendre. Oui je veux donc parler au nom de tous les "laissés pour compte" parce que "je suis homme et rien de ce qui est humain ne m’est étranger". Il n’y a plus de duperie possible. Le Nouvel Ordre Economique Mondial pour lequel nous luttons et continuerons à lutter, ne peut se réaliser que : - si nous parvenons à ruiner l’ancien ordre qui nous ignore, - si nous imposons la place qui nous revient dans l’organisation politique du monde, - si, prenant conscience de notre importance dans le monde, nous obtenons un droit de regard et de décision sur les mécanismes qui régissent le commerce, l’économie et la monnaie à l’échelle planétaire. Le Nouvel Ordre Economique international s’inscrit tout simplement, à côté de tous les autres droits des peuples, droit à l’indépendance, au libre choix des formes et de structures de gouvernement, comme le droit au développement. Et comme tous les droits des peuples, il s’arrache dans la lutte et par la lutte des peuples. Il ne sera jamais le résultat d’un acte de la générosité d’une puissance quelconque. Es necesario, es urgente que nuestro personal y nuestros trabajadores de la pluma se enteren que no hay escritura inocente. En estos tiempos de tempestades, no podemos dejar a nuestros enemigos de ayer y de hoy, el monopolio del pensamiento, de la imaginación y de la creatividad. Hace falta, antes de que sea demasiado tarde (porque ya es demasiado tarde) que estas élites, estos hombres de África, del Tercero Mundo, les vuelvan la cara a su sociedad, a la miseria que heredamos, para comprender no sólo que la batalla para un pensamiento al servicio de las masas desheredadas no es vana, sino que pueden volverse creíbles en el plano internacional. Realmente inventando, es decir, dando una imagen fiel de su pueblo. Una imagen que les permita realizar cambios profundos de la posición social y política, susceptibles de sacarnos de la dominación y de la explotación extranjeras que entregan nuestros Estados a la sola perspectiva de la quiebra. […] Preferimos buscar formas de organización mejor adaptadas a nuestra civilización, rechazando de manera abrupta y definitiva toda suerte de imposiciones externas, para crear condiciones dignas, a la altura de nuestras ambiciones. Acabar con la supervivencia, aflojar las presiones, liberar nuestros campos de un inmovilismo medieval, democratizar nuestra sociedad, despertar los espíritus sobre un universo de responsabilidad colectiva, para atreverse a inventar el futuro. Reconstruir la administración cambiando la imagen del funcionario, sumergir nuestro ejército en el pueblo y recordarle sin cesar que sin formación patriótica, un militar es sólo un criminal en potencia. Ése es nuestro programa político. […] Me elevo aquí en nombre de todo los que buscan vanamente dejar oír su voz y que realmente hacerlo signifique que los tengan en cuenta. Sobre esta tribuna muchos me precedieron, otros vendrán después de mí. Pero sólo algunos pocos tomarán decisiones. Sin embargo, oficialmente somos iguales. Pues bien, yo me erijo como la voz de todos los que buscan vanamente su lugar en este foro para que se les oiga. […] No hay más engaño posible. El nuevo orden económico mundial por el cual luchamos y continuaremos luchando, puede realizarse sólo: • Si llegamos a arruinar al antiguo orden que nos ignora, • Si imponemos el sitio que nos corresponde en la organización política del mundo, • Si, dándose cuenta de nuestra importancia en el mundo, obtenemos un derecho de mirada y de decisión sobre los mecanismos que rigen el comercio, la economía y la moneda a la escala planetaria. El nuevo orden económico internacional se inscribe simplemente, al lado de todos los demás derechos de los pueblos, como el derecho a la independencia, a la elección libre de las formas y de las estructuras de gobierno, como el derecho al desarrollo. Y como todos los derechos de los pueblos jamás será el resultado de un acto de la generosidad de una potencia cualquiera.