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lunedì 11 novembre 2019

Triste, solitario y final


Prendo spunto dal titolo di un vecchio romanzo di Osvaldo Soriano per commentare la parabola discendente di Evo Morales, oramai ex-presidente della Bolivia, in fuga da quel potere che ha stretto tra le mani per troppo tempo.

Morales, così come Correa in Ecuador, Lula-Roussef in Brasile, Chavez-Maduro in Venezuela per finire con Ortega in Nicaragua, costituiscono una lunga fila di leader e presidenti che hanno incantato folle plaudenti progressiste nel mondo intero. Attaccati al potere nel senso peggiore del termine, cioè o per interessi strettamente personali o per pura vanità di potere, si sono caratterizzati tutti, nessuno escluso, per aver tradito le promesse grazie alle quali erano stati eletti. Tutti altermondialisti, pronti a difendere i diritti dei popoli indigeni, dei contadini senza terra, in prima fila a criticare la globalizzazione finanziaria e la corruzione che portava con sé, eccoli cadere uno dietro l’altro (mancano ancora i derelitti Maduro e Ortega, ma storicamente sono già morti) esattamente per non aver fatto quello che avevano promesso e per aver abbassato i pantaloni in nome della realpolitik necessaria per mantenersi al potere.

Che ci siano folle plaudenti all’uscita del carcere di Lula si può capire ma non condividere. L’uomo che ha “ucciso” la riforma agraria, che ha dato forza al land-grabbing in stile brasiliano, condito di sopraffazione, corruzione e non rispetto dei diritti locali delle popolazioni; il presidente che non ha fatto nulla di strutturale per cambiare i rapporti di forza politici che hanno creato e che mantengono l’esclusione e la povertà per milioni di brasiliani, ma che si è limitato, come ai tempi di Bettino Craxi, a surfare sugli alti prezzi delle materie prime per distribuire un po’ di elemosina ai derelitti del Nordest, ecco, che la sinistra brasiliana lo stia ancora rincorrendo fa pensare molto sull’incapacità di analizzare i propri errori e la necessità di essere coerenti nelle scelte e non rincorrere eroi di un giorno. 

Correa e Morales non sono riusciti, malgrado gli introiti economici ricevuti in questi tanti anni al potere, a rispettare sul serio quei diritti delle popolazioni indigene che li avevano portati al potere. Correa è uscito di scena, ma sta tramando dietro le quinte, come un Renzi qualsiasi, per abbattere il governo attuale e tornare a comandare lui. Morales ci ha provato a non rispettare la Costituzione e a falsificare i risultati. Adesso è in fuga, e forse finirà in galera.

Nel tiepido Sud, gli anni di governo del centro-sinistra in Cile, con Lagos e Bachelet, sembravano essere gli antidoti al narcisismo di potere di quelli di sopra, impegnati in fare politica sul serio, combattere povertà e disuguaglianze. Le mie osservazioni critiche le avevo già fatte anni addietro ad alcuni cari amici cileni, sulla tiepidi dei loro governi e sul distacco progressivo che emergeva rispetto alle giovani generazioni, ai popoli indigeni e al mondo del lavoro di quelli di sotto (los de abajo). Le reazioni di queste ultime settimane, scatenatesi per una storia di pochi centesimi, trovano la loro origine nelle non scelte fatte dai governi “progressisti” precedenti.

Tutti figli della realpolitik che impone il rispetto del dogma neoliberale, che si trascina dietro una finanza corrosiva fatta per una élite sempre più ridotta, a scapito del resto della popolazione. 


La speranza che in America Latina sorga qualcosa di diverso mi pare abbastanza vana, dato che oramai quelle società, come la nostra, sono state asfaltate da decenni di dittatura televisiva e culturale di tipo individualistico, che premia l’ IO a scapito del NOI. Momenti di febbre come in queste settimane in Cile e Bolivia si ripeteranno, ma non credo proprio che da quei fuochi nasca un mondo diverso e migliore. Ci vorranno anni, e molti per far rinascere una speranza collettiva, che sia laggiù o, ancor peggio, qui da noi.

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