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venerdì 3 dicembre 2021

Cile Vive! Viva Cile!


In Italia, quelle poche persone che si interessano a cosa succeda fuori dai nostri confini, molto raramente volgono lo sguardo verso terre lontane, ancora più di quel “fine del mondo” evocato da Papa Francesco quando venne scelto per il soglio pontificio. Parlo del Cile, un paese piccolo piccolo ma che tanto ha illuminato, politicamente, la vita italiana negli ultimi 51 anni, senza peraltro che ci sia stata alcuna reciprocità.

 

Le elezioni presidenziali del 1970 portarono l’avvocato Salvador Allende al palazzo della Moneda, grazie all’Unidad Popular che era riuscita a mettere assieme tutte le frange della sinistra. La disputa di fondo era tra un modello conservatore nella società e (neo)liberale in economia e due varianti progressiste che volevano nazionalizzare, chi più (Allende) e chi meno (la DC di Tomic) vari settori chiave dell’economia. Grazie a un accordo con la DC, il Parlamento, dopo l’elezione in cui nessuno dei candidati aveva ottenuto il 50,1% dei voti, votò per l’elezione di Allende.

 

Fu un terremoto che scosse le fondamenta di molti paesi della regione, dominati perlopiù da dittature militari e da un controllo ferreo da parte dell’amministrazione americana. Che il pericolo socialista (comunista) si infiltrasse attraverso il gioco delle libere elezioni fu una lezione che gli americani impararono bene, impegnandosi a fondo perchè in futuro che cose del genere non potessero succedere altrove (esempio Italia).

 

Da noi, l’esempio cileno fu seguito con entusiasmo dal partito comunista, portando acqua al mulino della visione berlingueriana secondo cui l’obiettivo ultimo di una trasformazione in senso socialista dell’Italia doveva passare da un lato dalle elezioni e secondo da una convergenza politica con la democrazia cristiana. Tutte cose che mettevano in allarme sia gli americani da un lato che i russi dall’altro.

Le pesanti ingerenze esterne, la polarizzazione politica interna, seguita al venir meno del “principio della trattativa, del patteggiamento, delle alleanze tra gruppi sociali e partiti politici che aveva caratterizzato sino a quel momento la storia politica cilena” (Maria Rosaria Stabili. 2015. Cile 1970-1973. Allende, la Unidad Popular, il golpe. Rivista dell’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea, numero 14), portano alla rottura democratica e al golpe dei militari del 1973. La via cilena al socialismo moriva quel giorno, ma le lezioni da tirare da quell’esperienza continuano ad essere attuali ai giorni nostri.

Con difficoltà, ma con determinazione e protagonismo di popolo, la dittatura militare finì nelle urne, col Plebiscito del 1988 e la successiva elezione presidenziale del 1989 che portò una coalizione di centro-sinistra (democrazia cristiana e socialisti) a dirigere il paese per i decenni successivi. I limitati margini di manovra della Concertación, che doveva operare all’interno di un quadro normativo deciso e controllato dai militari, e con un settore economico e finanziario molto preoccupato di perdere i propri privilegi, fecero sì che la democratizzazione del paese andasse a rilento, malgrado la crescita economica e la stabilità politica. 

Nel contesto latinoamericano degli anni 90 e del primo decennio del 2000, il Cile faceva sempre la sua bella figura, soprattutto data la situazione catastrofica dei suoi vicini, Argentina, Brasile e Perù in particolare. Alcune misure fondamentali dell’era militare non furono toccate: la privatizzazione totale del sistema pensionistico, che permetteva grandi profitti ai controllori e basse pensioni per i partecipanti, un sistema scolastico a due velocità, col settore privato che diventava l’unica strada per trovare un impiego degno di questo nome, ma a costi sempre più insostenibili. Dall’altro, i diritti delle donne e dei popoli indigeni non riuscivano ad entrare a far parte in maniera stabile dell’agenda di governo.

Noi in Italia osservavamo con attenzione il metodo e i risultati della Concertación, che avrebbe tanto ispirato l’Ulivo prodiano. La dissoluzione dell’Unione Sovietica e lo scandalo di tangentopoli con lo scioglimento della democrazia cristiana, facilitavano quel cammino di convergenza tra le forze socialiste e cattoliche, in maniera più elaborata e meno traumatica di quanto era successo in Cile agli inizi. Anche da noi però bisognava avanzare con cautela, e il rapimento e omicidio di Aldo Moro, primo fautore di questa possibile “convergenza parallela” tra DC e PCI era stato un segnale ben compreso nel mondo politico nostrano.

La pentola a pressione che bolliva in Cile, anche se pochi volevano vederla, scoppiò nel 2011, con imponenti manifestazioni studentesche contro il governo della destra che, per la prima volta dopo il 1989, era tornato a dirigere il paese, per chiedere una riforma in profondità del sistema educativo nazionale. Le risposte governative, considerate largamente insufficienti, portarono a continuare le proteste sia nel 2012 che nel 2013. La mobilitazione studentesca diventò un elemento chiave per battere la destra nelle elezioni presidenziali del 2014, che videro l’arrivo della prima donna presidente della repubblica, Michelle Bachelet.

Malgrado vari risultati positivi di quel periodo, si era entrati in un periodo di alternanza politica, con una frangia dell’elettorato sempre più scontenta e fluttuante, riportando prima la destra e poi il centro sinistra al palazzo presidenziale, senza però che le due questioni di fondo, alle quali iniziava ad aggiungersi la questione indigena, fossero risolte.

Ed arriviamo quindi al “Estallido” (lo scoppio) del 2019, iniziato a causa dell’aumento del costo della metropolitana e ampliatosi poi ai temi del carovita, la corruzione, i problemi precedenti di pensioni e educazione privata e, finalmente, per una nuova Costituzione che rimpiazzasse quella di Pinochet del 1988. Il presidente della repubblica arrivò a dichiarare (2019) che il “Cile si trova in guerra”, e la risposta militare e poliziesca portò a decine di morti ed arresti. Le manifestazioni aumentarono, fino alla “marcia più grande” che, il 25 ottobre, portò in piazza nella capitale Santiago 1.200.000 persone (su una popolazione totale di 19 milioni della quale poco più di 6 milioni vive nella capitale).

La progressiva perdita di credibilità tanto del Presidente, che dei partiti della Concertación, accusati di non aver capito i cambiamenti profondi del Cile, portarono alla creazione di un Frente Amplio, una coalizione di forze di sinistra, molto caratterizzata dalla presenza giovanile, che si dimostrò essere un elemento centrale delle dinamiche politiche recenti. Il Cile sta cambiando e i segnali esterni furono prima i risultati del Plebiscito del 2020 in favore di una nuova costituzione e poi l’elezione di una “Asemblea Costituyente” nel 2021, per la prima volta paritaria, e guidata da una lider degli indigeni Mapuche, incaricata di preparare il nuovo testo che sarà sottoposto a referendum nell’estate del prossimo anno.

Le elezioni presidenziali attualmente in corso, hanno visto l’eliminazione dei candidati dei partiti tradizionali, per lanciare la sfida tra il candidato della sinistra (Frente Amplio e Partito Comunista) contro un inaspettato candidato della destra estrema, dichiaratamente filo-Pinochet.

Il 19 dicembre ci sarà il secondo turno, e da lì uscirà la figura che guiderà il paese nei prossimi anni. Un paese diviso, come ci stiamo abituando a vedere in molti paesi occidentali in questi ultimi anni, tra forze progressiste, incerte e divise e forze reazionarie che trovano forti appoggi nel mondo economico e finanziario, ma anche un paese meno brillante economicamente e che dovrà affrontare, con due proposte diametralmente opposte, i temi dei diritti dei popoli indigeni (considerati come dei terroristi dal candidato di destra) e dell’immigrazione (fino a pochissimo tempo fa, i rifugiati di Haiti potevano entrare legalmente nel paese senza visto; a loro si sono andati sommando i profughi in arrivo da paesi in crisi gravissima come il Venezuela, che arrivano dalla frontiera nord del paese). Il razzismo, che prima era una questione non dichiarata, ma esistente sia nella versione di classe che di genere e razza, adesso sta diventando parte del discorso pubblico, dato che gli haitiani (e molti altri provenienti dai paesi caraibici) sono di pelle scura e questo si nota in città.

Il candidato della sinistra, e soprattutto dei giovani, sembra aver capito che se criticare i risultati dei governi della Concertación serve per mettere assieme le nuove generazioni, per vincere le elezioni servono i voti di chi per anni ha votato il PS, il PPD e la Democrazia Cristiana. Il rischio che il Cile torni indietro all’epoca di Pinochet è molto forte (il loro candidato ha ottenuto il primo posto dopo il primo turno delle elezioni), per cui adesso il candidato Boric della sinistra sta lavorando di fino per ricucire con quelle forze progressiste un po’ precocemente invecchiate ma sempre presenti nel cuore di tanti cileni e cilene.

Sarà interessante seguire questa dinamica elettorale e politica, per i risvolti che avrà anche nel futuro della nuova costituzione in preparazione, soprattutto sulla questione indigena e territoriale dove, se vincesse il candidato pinochetista, il rischio che una guerra civile scoppi non è da escludere date le sue dichiarazioni pubbliche. Non dimentichiamo infatti che gran parte dei territori indigeni sono stati appropriati illegalmente dallo Stato cileno e dati in concessioni a imprese forestali e minerarie, condannando le popolazioni locali alla fame. I governi della Concertación hanno fatto vari passi in avanti, ma giudicati molto insoddisfacenti dalle rappresentanze politiche dei popoli indigeni, per cui l’aspettativa è forte che un governo a guida Boric vada nella giusta direzione.

Si prepara un periodo molto caldo, e molto interessante da seguire non solo per chi ama e si interessa al Cile, ma anche per tutti noi.

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