Visualizzazioni totali

martedì 19 maggio 2015

La Terra ai contadini – Quali misure per lo sviluppo? Brevi considerazioni di ieri e di oggi



In decenni recenti il tema della riforma agraria era tornato di moda, soprattutto in Brasile e nelle Filippine dove i movimenti contadini portatori di quelle istanze giocarono un ruolo importante nel ritorno a regimi democratici nel 1985. Pian piano il tema però si è un po’ perso, sostituito (volontariamente? Difficile dirlo) da altre tematiche che oggi troviamo al centro dei discorsi delle organizzazioni contadine e indigene: diritto al cibo, alla sovranità alimentare, riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni e lotta per una buona governanza. Fra questi spicca il tema dell’appoggio, recente, di questi movimenti, al tema dell’agricoltura familiare (che noi in Italia chiamiamo la Piccola Proprietà Coltivatrice), diventato simbolo della riscossa contro le multinazionali dell’agribusiness e celebrato con l’Anno Internazionale dedicato a questo tema nel 2014.

Questo slittamento terminologico e concettuale merita di lanciare alcune piste di riflessione, con la speranza che sia possibile parlarne un giorno, al di là dei soliti e ripetuti richiami contro l’accaparramento delle terre. Non che lo slogan Reforma Agraria Ya! Sia scomparso del tutto, ma sembra di assistere a un bagno di acqua gelata sui sogni di un tempo, in nome di un realismo politico che non osa dire il suo nome.

Questo breve post non può esaurire questo tema, ma serve per provocare amici e colleghi impegnati sulla tematica agraria e movimentista.

La domanda espressa che noi tutti ci poniamo, realisti e pragmatici, riguarda cosa sia possibile proporre per il mondo rurale mondiale al giorno d’oggi e che abbia una minima possibilità di fare proseliti in politica.  La domanda implicita riguarda invece qualcosa di più personale: non è che a forza di realismo, rischiamo di trovarci ad appoggiare piattaforme politiche che in altri periodi storici ci avrebbero visto sulle barricate?

Penso innanzitutto se sia ancora fattibile parlare di lotta di classe al giorno d’oggi. Già scriverlo sembra quasi di bestemmiare in chiesa. Pochi mohicani ancora si dilettano sulla rete a discettare di questo tema, mentre la gran parte della sinistra mondiale (senza parla di centro-sinistra o di centro-centro) ha abbracciato una visione che potremmo chiamare “interclassista”. Se siamo d’accordo su questo punto iniziale, allora dobbiamo andare a vedere cosa si intende con questo termine e quando sia stato promosso nell’agone politico per la prima volta (almeno a casa nostra). Trovo quindi su wiki che con il termine interclassismo si intende una qualsiasi concezione politica e sociale che promuova la collaborazione tra le diverse classi sociali e la conciliazione tra i loro differenti interessi, rifiutando il principio della lotta di classe e propugnandone la convivenza armonica. Meglio ricordare subito ai lettori più giovani che non si tratta di un principio né nuovo né recente. Qualcuno lo ha proposto ben prima del nostro attuale Primo ministro. In particolare questo qualcuno si pose il problema, come faremmo noi professionisti del tema, di come di ridurre le differenze di classe all'interno del mondo rurale, soprattutto in quei paesi dove questa frangia costituisca la componente di gran lunga prevalente della società.

L’interclassismo proposto quindi per le campagne abbraccia la collaborazione di classe in contrapposizione all'individualismo del sistema capitalista, a cui oppone l'unità delle classi sociali davanti all'interesse nazionale e quindi conferendo allo Stato il ruolo di mediatore nelle controversie tra esse.

Nel nostro paese, e come in gran parte dei paesi del sud del mondo dove il settore agricolo e rurale è ancora dominante, si sono posti problemi legati alla precarietà e povertà del trattamento del lavoratore agricolo (il bracciante, che mette a disposizione le sue braccia come forza lavoro), il miglioramento produttivo delle terre attraverso, per esempio, le bonifiche e finalmente, il tema scottante dell’espropriazione dei grandi latifondi.

La questione bracciantile è molto presente ancora oggigiorno. In Brasile il sindacato agricolo più grosso nel mondo rurale si chiama CONTAG, Confederazione del lavoratori agricoli (cioè dei braccianti). Ridurre il numero dei braccianti con provvedimenti che permettano di sviluppare le piccole e medie proprietà (l’agricoltura familiare), verrebbe considerato, credo, come un passo progressista, in avanti.

Noi avevamo anche un serio problema di terreni acquitrinosi, i francesi li chiamerebbero i Bas-Fonds, che una volta bonificati potrebbero rendere un gran servizio alla produzione agricola. Da noi vennero così fondati i consorzi di bonifica gestiti e finanziati dallo Stato, attivi sia nella bonifica di aree paludose e malariche che per la gestione del patrimonio silvo-pastorale, il tutto dentro un quadro legislativo chiaro che era stato approvato in precedenza.

In linea di massima, il recupero dei bas-fonds, anche se molto utile, non è mai stata una risposta sufficiente al problema agrario. Ecco perché la questione dell’espropriazione dei latifondi appare sempre come il tema più delicato. Se un governo attaccasse questo problema espropriando i terreni di latifondisti e grandi proprietari, possessori di migliaia di ettari di terra perlopiù lasciata incolta ed improduttiva, coltivata a grano o lasciata a pascolo dando luogo a sole rendite parassitarie, probabilmente saremmo tutti lì ad applaudire.

L’ultima vertente, sulla quale attualmente la nostra coscienza ambientalista avrebbe qualche remora, riguarda i processi di colonizzazione di nuove terre vergini e incolte, e la creazione dei borghi rurali.

Noi avemmo un governo, anzi un regime che fece tutto questo, e che gli valse l’appoggio di una massa consistente della popolazione. Lascio a voi indovinare di chi si sia trattato.

Nessun commento:

Posta un commento