In decenni recenti il tema della riforma agraria era tornato di moda,
soprattutto in Brasile e nelle Filippine dove i movimenti contadini portatori
di quelle istanze giocarono un ruolo importante nel ritorno a regimi
democratici nel 1985. Pian piano il tema però si è un po’ perso, sostituito
(volontariamente? Difficile dirlo) da altre tematiche che oggi troviamo al
centro dei discorsi delle organizzazioni contadine e indigene: diritto al cibo,
alla sovranità alimentare, riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni e
lotta per una buona governanza. Fra questi spicca il tema dell’appoggio,
recente, di questi movimenti, al tema dell’agricoltura familiare (che noi in
Italia chiamiamo la Piccola Proprietà Coltivatrice), diventato simbolo della
riscossa contro le multinazionali dell’agribusiness e celebrato con l’Anno
Internazionale dedicato a questo tema nel 2014.
Questo slittamento terminologico e concettuale merita di lanciare alcune
piste di riflessione, con la speranza che sia possibile parlarne un giorno, al
di là dei soliti e ripetuti richiami contro l’accaparramento delle terre. Non
che lo slogan Reforma Agraria Ya! Sia scomparso del tutto, ma sembra di
assistere a un bagno di acqua gelata sui sogni di un tempo, in nome di un
realismo politico che non osa dire il suo nome.
Questo breve post non può esaurire questo tema, ma serve per provocare
amici e colleghi impegnati sulla tematica agraria e movimentista.
La domanda espressa che noi tutti ci poniamo, realisti e pragmatici,
riguarda cosa sia possibile proporre per il mondo rurale mondiale al giorno d’oggi
e che abbia una minima possibilità di fare proseliti in politica. La domanda implicita riguarda invece qualcosa
di più personale: non è che a forza di realismo, rischiamo di trovarci ad
appoggiare piattaforme politiche che in altri periodi storici ci avrebbero
visto sulle barricate?
Penso innanzitutto se sia ancora fattibile parlare di lotta di classe al
giorno d’oggi. Già scriverlo sembra quasi di bestemmiare in chiesa. Pochi
mohicani ancora si dilettano sulla rete a discettare di questo tema, mentre la
gran parte della sinistra mondiale (senza parla di centro-sinistra o di
centro-centro) ha abbracciato una visione che potremmo chiamare “interclassista”.
Se siamo d’accordo su questo punto iniziale, allora dobbiamo andare a vedere
cosa si intende con questo termine e quando sia stato promosso nell’agone
politico per la prima volta (almeno a casa nostra). Trovo quindi su wiki che con
il termine interclassismo si intende una qualsiasi concezione politica e
sociale che promuova la collaborazione tra le diverse classi sociali e la
conciliazione tra i loro differenti interessi, rifiutando il principio della lotta
di classe e propugnandone la convivenza armonica. Meglio ricordare subito ai
lettori più giovani che non si tratta di un principio né nuovo né recente.
Qualcuno lo ha proposto ben prima del nostro attuale Primo ministro. In particolare
questo qualcuno si pose il problema, come faremmo noi professionisti del tema,
di come di ridurre le differenze di classe all'interno del mondo rurale, soprattutto
in quei paesi dove questa frangia costituisca la componente di gran lunga
prevalente della società.
L’interclassismo proposto quindi per le campagne abbraccia
la collaborazione di classe in contrapposizione all'individualismo del sistema
capitalista, a cui oppone l'unità delle classi sociali davanti all'interesse
nazionale e quindi conferendo allo Stato il ruolo di mediatore nelle
controversie tra esse.
Nel nostro paese, e come in gran parte dei paesi
del sud del mondo dove il settore agricolo e rurale è ancora dominante, si sono
posti problemi legati alla precarietà e povertà del trattamento del lavoratore
agricolo (il bracciante, che mette a disposizione le sue braccia come forza
lavoro), il miglioramento produttivo delle terre attraverso, per esempio, le bonifiche
e finalmente, il tema scottante dell’espropriazione dei grandi latifondi.
La questione bracciantile è molto presente ancora
oggigiorno. In Brasile il sindacato agricolo più grosso nel mondo rurale si
chiama CONTAG, Confederazione del lavoratori agricoli (cioè dei braccianti).
Ridurre il numero dei braccianti con provvedimenti che permettano di sviluppare
le piccole e medie proprietà (l’agricoltura familiare), verrebbe considerato,
credo, come un passo progressista, in avanti.
Noi avevamo anche un serio problema di terreni
acquitrinosi, i francesi li chiamerebbero i Bas-Fonds, che una volta bonificati
potrebbero rendere un gran servizio alla produzione agricola. Da noi vennero così
fondati i consorzi di bonifica gestiti e finanziati dallo Stato, attivi sia
nella bonifica di aree paludose e malariche che per la gestione del patrimonio
silvo-pastorale, il tutto dentro un quadro legislativo chiaro che era stato
approvato in precedenza.
In linea di massima, il recupero dei bas-fonds,
anche se molto utile, non è mai stata una risposta sufficiente al problema
agrario. Ecco perché la questione dell’espropriazione
dei latifondi appare sempre come il tema più delicato. Se un governo attaccasse
questo problema espropriando i terreni di latifondisti e grandi
proprietari, possessori di migliaia di ettari di terra perlopiù lasciata incolta
ed improduttiva, coltivata a grano o lasciata a pascolo dando luogo a sole
rendite parassitarie, probabilmente saremmo tutti lì ad applaudire.
L’ultima vertente, sulla quale attualmente la
nostra coscienza ambientalista avrebbe qualche remora, riguarda i processi di
colonizzazione di nuove terre vergini e incolte, e la creazione dei borghi
rurali.
Noi avemmo un governo, anzi un regime che fece
tutto questo, e che gli valse l’appoggio di una massa consistente della
popolazione. Lascio a voi indovinare di chi si sia trattato.
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