Vedo passare periodicamente articoli promozionali sull’iniziativa chiamata Great Green Wall che dovrebbe salvare l’Africa dalla desertificazione e addirittura fermare (o almeno rallentare) il flusso di migranti verso l’Europa.
Non ho voglia di perder tempo a spiegare l’iniziativa perché basta una piccola ricerca sulla rete e si troveranno centinaia di articoli che la spiegano in dettaglio e la esaltano. Che il progetto, come era stato concepito, non avesse molte possibilità di successo, è diventato evidente anche ai più accaniti sostenitori. Ed ecco che dal 2012 l’iniziativa è stata cambiata radicalmente, “non più solo nuovi alberi piantati, ma anche una varietà vegetale più ricca e complessa, favorendo la diffusione di specie autoctone e psammofile, ovvero adattabili ai climi aridi del deserto, con l’ulteriore intervento della fauna nella semina. In questo modo, si aiuta il terreno a recuperare la sua memoria ecologica,” https://oggiscienza.it/2019/03/08/great-green-wall-africa/).
Resta il problema principale, che non si è mai voluto vedere e che si continua a ignorare. A parte le considerazioni sull’importanza del cambio climatico nell’avanzare del deserto, se restiamo a un livello più praticabile e non dei sogni, rimane la centralità dell’uomo in questi interventi. Promuovere il ripianto di alberi o cespugli in zone aride a bassa densità abitativa e senza essersi occupati minimamente del problema dei diritti fondiari delle popolazioni interessate, sedentarie o, più spesso, nomadi, vuol dire andare davanti a un fallimento annunciato.
Uno studio della FAO del 2007 insisteva sulla necessità di “Protecting the rights of land under customary tenure” http://www.fao.org/3/a-ax353e.pdf) ma da quella data in poi nulla è stato fatto. Le popolazioni locali, come sanno tutti quelli che ci hanno lavorato, hanno una sfiducia altissima nei confronti dei propri governanti, una casta di corrotti che fa solo gli affari loro e che non si è mai interessata (a parte il caso del Burkina di Thomas Sankara) ai veri problemi dei contadini e degli agricoltori.
Le relazioni degli uomini alle risorse naturali, terra e acqua, sono rette da secoli di rapporti consuetudinari, non necessariamente scritti, che godono di una buona credibilità agli occhi delle persone interessate. Si tratta di rapporti non fissi, che col tempo e con stimoli adeguati possono evolvere, per cui non li chiamiamo “tradizionali” perché, in molti casi, sono molto più moderni dei sistemi che noi occidentali vorremmo imporre.
La poca voglia dei governi di quei paesi di riconoscere i diritti consuetudinari va capita anche alla luce delle insistenze delle banche d’affari internazionali, come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario e tutte le grandi agenzie ONU, di insistere sul carattere arretrato di quei sistemi agrari e sulla necessità di “modernizzarli” e certamente non di “riconoscerli”.
Le esperienze sul terreno (in altri paesi africani) ci hanno portato a insistere molto, sia dentro la FO che con le altre agenzie ONU e con la Banca, sulla necessità di ricostruire il patto sociale che si era rotto a partire dal momento che le popolazioni locali e le loro istituzioni non venivano mai considerate come parte attiva dell’agenda “Sviluppo”. Iniziare a capire meglio quei sistemi, riconoscere i diritti fondiari ancestrali, rafforzare le istituzioni locali per dirimere conflitti e altro, quelle sarebbero state le strade da intraprendere. Un po’ noi lo abbiamo fatto, con risultati positivi, mostrando che un approccio del genere, che mirava a mettere la questione della fiducia al centro della proposta, e quindi a ripristinare canali di dialogo e concertazione dentro una visione che voleva ridurre le questioni centrali delle asimmetrie di potere esistenti tra le povere popolazioni locali e chi interveniva da fuori, fosse governo, agenzie ONU o banche di sviluppo, un approccio del genere dicevo, era chiave per far ripartire le dinamiche sociali, ambientali e economiche locali. Oltre a questo, un approccio del genere era chiave per mettersi a lavorare sul tema dei conflitti legati alle risorse naturali.
Il direttore generale della FAO uscente, l’Ayatollah Grazianhi, ha fatto di tutto per opporsi a questa visione, in questo però aiutato da molti colleghi delle unità tecniche che lavoravano su questi paesi, in particolare il dipartimento delle Foreste e quello della Produzione Agricola. Anni di tentativi di spiegare loro, magari anche portandoli a parlare con le comunità, che bisognava attaccare il cuore del problema e non solo la periferia tecnica, e nessun risultato.
Non lo hanno fatto perché lavorare sulle questioni dei diritti alla terra (e all’acqua) e sulle asimmetrie di potere, voleva dire rischiare di mettersi contro i piani alti dell’organizzazione e quindi precludersi ogni possibilità di carriera. Ecco perché hanno sviluppato una capacità retorica impressionante, quella che in italiano diremmo “fuffa”, per girare attorno ai problemi senza mai affrontarli. Adesso molti di loro sono andati in pensione, quindi il loro obiettivo l’hanno raggiunto. Alcuni sono diventati Senior Officers, altri Capi Servizio e qualcuno addirittura Direttore di divisione. Ancora più su, c’era un francese che queste cose le sapeva ma non ha mai voluto rischiare la sua carriera, che è diventato Assistente Direttore Generale e, per completare il cerchio, un americano, che avevamo conosciuto in Mozambico negli anni ruggenti del nostro lavoro in favore dei diritti fondiari delle comunità, tacendo e assentendo è arrivato ad essere il numero due della FAO.
Ecco perché, dopo quasi 30 anni di lavoro su questi temi, ho voluto lasciare una memoria scritta, un libro dove le racconto con più calma di questo post. Perché non si dimentichi, e per incitare le nuove generazioni ad avere meno paura e combattere i nemici interni dello sviluppo (sempre che questa parola abbia ancora un senso).
Il grande muro verde africano, così come quello cinese, non fermerà la desertificazione e ancor meno l’arrivo di migranti. Ve lo posso assicurare.
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