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martedì 11 gennaio 2022

Riflessioni in corso

Approccio negoziato allo “sviluppo” territoriale: la sfida più grande - liberarci dai condizionamenti impliciti all’ontologia della modernità di cui siamo intrisi

 

Per chi conosce me o il lavoro che, assieme a parecchie altre persone, sto portando avanti relativamente all’approccio territoriale, sa che una delle sfide difficili riguarda l’idea di convincere degli esperti in materie tecniche specifiche (i miei ex-colleghi della FAO) a passare da una visione degli attori / stakeholders basata sul principio che, avendo studiato in atenei prestigiosi ne sanno di più dei contadini, comunità di pescatori, indigeni o quanto altro, a una dove invece di dettare le soluzioni si cerca di facilitare il dialogo fra i vari portatori di interessi per far sì che si possa aprire una negoziazione, il tutto per cercare un terreno di intesa comune, che noi chiamiamo Patto. Un cambio di paradigma molto complicato, perché significa privilegiare l’ascolto, l’umiltà e il mettersi a disposizione, tutto il contrario di quello che le grandi scuole dove si formano i tecnici delle agenzie di sviluppo, insegnano.

 

Questa difficoltà si somma a molte altre, come quella di riuscire a far si che gli attori più potenti accettino di entrare in un processo di dialogo/negoziazione dove noi vorremmo arrivare a ridurre queste asimmetrie di potere a favore dei più deboli. Altri problemi complessi, che stiamo cercando di far entrare in questo tipo di approccio, riguarda la necessità di affrontare le questioni di potere asimmetrico non solo fra categorie di attori, ma anche all’interno stesso dell’unità di base: la famiglia, questo per poter affrontare la questione di genere in modo non superficiale.

 

Oltre a tutto ciò, esiste anche un problema di altro tipo, più filosofico se vogliamo, di cui non abbiamo mai discusso seriamente finora: la nostra prigionia mentale rispetto a un modello filosofico di sviluppo in cui bagniamo da quando siamo nati.

 

Il punto di partenza è la necessità di riconoscere che noi, operatori del mondo della “cooperazione allo sviluppo” (che sia dentro agenzie delle nazioni unite, Ong, organismi bilaterali e/o istituzioni finanziarie), siamo dei prodotti storici di quella che possiamo definire una ontologia della modernità. Per capire meglio di cosa voglio parlare, è necessario un piccolo passo indietro, del quale devo ringraziare un’amica e collega dell’università di Grenoble, Kirsten.

 

La storia inizia nell’Antica Grecia, quando dominava il principio dell’eterno ricominciare. Come scrive Kirsten “l'opera di Aristotele, tra gli altri, rivela che le idee sull'evoluzione delle società e i loro cambiamenti erano intrinsecamente legate all'osservazione dei principi della natura e dei cicli di vita: generazione, crescita, declino. Così, il termine physis (natura) deriva dal verbo phuo (generare, crescere, sviluppare) e fu usato per riferirsi sia alla natura e/o allo sviluppo da alcuni filosofi greci. La nozione di 'natura' funziona quindi come una metafora e si riferisce a una concezione ciclica del cambiamento sociale/sociale in Aristotele. Nella sua opera Metafisica, la vede come l'essenza delle cose che hanno in sé un principio di movimento, come "ciò che nasce, cresce e matura anche alla fine declina e muore, in un perpetuo riavvio. 

 

A partire dalla fine del XVII secolo, l'idea di un'evoluzione lineare dell'umanità e l'ideologia del progresso si affermarono su vasta scala. L'idea di sviluppo non era più vincolata dalla consapevolezza di un limite per conformarsi alle leggi della natura, ma permetteva di concepire il progresso, nel senso di una crescita e di un miglioramento continuo per il bene dell'umanità

 

Questi nuovi valori (emancipazione, libertà individuali e razionalità) formano la base di un nuovo sistema economico. Sostengono e legittimano il capitalismo di mercato e poi accompagnano l'economia produttivista e gli inizi dell'industrializzazione.  Lo sviluppo diventa così crescita - e così la concezione della dinamica sociale diventa sinonimo di "progressivo, inevitabile, sequenziale e permanente": in sintesi questa è l’ontologia della modernità. 

 

La scienza, la tecnologia, la fede nel progresso espressa nella crescita economica e la convinzione della superiorità dell'ontologia moderna su tutti gli altri modi di vivere e pensare nel mondo.

 

Col finire della seconda guerra e una visione mondo che inizia a dominare l’agenda mondiale, gli Stati Uniti e il loro presidente Truman, chiarirono in modo inequivocabile le basi concettuali di questa visione che vedeva, ovviamente, gli USA come gli ambasciatori autonominati di questa visione. In questo momento del dopoguerra, questa visione permise a vari interessi occidentali di convergere, dando loro una nuova direzione e un nuovo ruolo nella massiccia decolonizzazione del Sud che stava allora avvenendo. 

 

Così, il discorso di questo uomo di potere, ha assunto rapidamente il carattere di un vasto 'progetto politico'. Le Nazioni Unite furono messe a contribuzione, attraverso le nuove agenzie di cooperazione che vennero create: il PNUD e la FAO. 

Noi, operatori FAO, siamo figli di questa lunga storia e, che lo vogliamo o meno, ne siamo impregnati.

Nemmeno le critiche di questa visione del mondo, portate avanti dalla scuola marxista, la teoria della dipendenza di Gunter Frank e quella dello sviluppo ineguale di Samir Amin, che dimostravano come fossero le trasformazioni societali indotte dal Nord che creavano il sottosviluppo nel Sud, e non il persistere della “tradizione”, ebbene, anche queste correnti critiche restavano però ugualmente figlie della stessa ontologia moderna: non criticavano l’obiettivo di recuperare il ritardo rispetto ai paesi “sviluppati”, e nemmeno l’approccio centrato sull’economia. Non erano quindi le finalità il problema, ma i mezzi per arrivarci.

Solo con l’insorgere relativamente recente di movimenti spontanei e resistenze nel Sud, ci stiamo iniziando a chiedere se “un altro mondo è possibile”. La risposta è: si! Altri mondi sono possibili ed esistono, così come altre verità diverse da quelle che ci hanno impregnato fin dai primi giorni di vita. 

Ricordandoci che “la verità è una costruzione sociale”, e che quindi un modello dominante che ci permea da così tanto tempo ha avuto modo per instillarci il demone che la sua verità di un modello modernizzante sia l’unico possibile, dobbiamo fare un grande sforzo personale per iniziare a liberarci da queste catene.

Il punto critico di questo lungo viaggio emerge nel momento del contrapporre un metodo basato su dialogo, negoziazione e concertazione, a uno fatto di dominio del più forte, che domina e definisce gli obiettivi e i concetti stessi di “sviluppo”.

Sappiamo contro cosa ci battiamo, contro questa modernità dove la triade scienza (occidentale), tecnologia e progresso sono gli elementi costitutivi del sacro Graal rappresentato dalla crescita economica. Ma questo non basta. Nel momento in cui pretendiamo porci come facilitatori di processi di sviluppo territoriale negoziato, in zone in conflitto o meno, dobbiamo porci la domanda di quali visioni ontologicamente differenti sono in gioco tra gli attori. E a questa domanda, che inevitabilmente porta a una risposta che sarà plurale, dovremo dare seguito per capire cosa vogliamo far emergere da questo tipo di processi e quale orizzonte filosofico ci mettiamo intorno: quello dettato dai donatori o dagli organismi finanziari internazionali, che inevitabilmente rispecchiano quell’ontologia della modernità che comincia a scricchiolare, oppure vogliamo diventare costruttori di una nuova ontologia del post-sviluppo e della post-modernità? E nuove domande arrivano come le ciliegie, una tira l’altra: abbiamo noi, che ci siamo scelti il ruolo di facilitatori di processi di questo tipo, la “ragione” per schierarci contro o a favore di una modernità, che sentiamo non più sufficiente a rappresentarci, o di una post-modernità da inventare? Per cosa ci battiamo, per lo “sviluppo” o per una trasformazione societale? 

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