(continuo una riflessione iniziata a gennaio 2010)
Partiamo sempre dai pochi dati in circolazione. In questo caso usiamo quelli dell’Istituto di Ricerca sulle Politiche Alimentari (IFPRI) che calcola tra i 15 e i 20 milioni gli ettari ceduti, comprati o sottoposti a trattative per la produzione di alimenti all’estero, quasi la totalità in Africa e Asia. In se e per se non si tratta di superfici enormi, ma sembra importante notare il trend in rapido e progressivo aumento.
Alcuni pensano che queste iniziative possano essere benefiche per le comunitá locali. Se nell’astratto questo potrebbe anche essere vero, quando scendiamo nella realtá per il momento vediamo due tendenze delinearsi: da un lato la produzione di cibo e agrocarburanti per mercati esteri (cibo da rimandarea a casa propria, agrocarburanti da vendere nel mercato mondiale) e, dall’altro, zero investimenti al di fuori di quelli strettamente necessari per le produzioni di cui sopra.
Quando guardiamo piú da vicino la produzione di cibo fatta su queste terre, cibo che viene rimandato poi nella casa madre del paese che ha organizzato l’accaparramento, dovremmo fissarci meglio sui costi di produzione. Prendiamo il caso di chi prenda terre in Africa per fare del riso da mandare nel lontano est asiatico,.. Anche usando una mano d’opera servile (si sente dire che vengano usati prigioneri originari di quei paesi per ridurre cosí a zero il costo della mano d’opera), quindi con un costo molto basso, giusto il cibo per la riproduzione minima e un po’di soldi per organizzare dei campi dove mantenerli al chiuso una volta finita a giornata di lavoro, fra gli altri costi dovremmo considerare l’affitto della terra (che in realtá è bassissimo come vari studi stanno dimostrando) e quello dell’acqua (anche questa presa senza pagare nulla).
Per cui il costo diretto di produzione è bassissimo. Resta peró il problema di trasportarlo nei paesi di consumo, e lí il costo aumenta per forza e poi trasformarlo minimamente e farlo arrivare nei mercati locali. Anche con tutta la buona volontá il costo finale non sará bassissimo. Comparando questi costi con il potere d’acquisto delle popolazioni povere di quei paesi, il dubbio sorge che queste operazioni non abbiano senso dal punto di vista economico. Forse lo avranno da quello strategico politico: non riuscendo a garantire cibo a sufficienza sulle proprie terre (come è il caso della Cina), a quel punto la ricerca di cibo (o terre) esterne diventa obbligatoria e rischia di non fermarsi di fronte a nulla. Se non si ferma di fronte ai risultati economici negativi (dimostrando una volontá di sussidiare quelle produzioni a livelli molto alti), diventa difficile credere che si fermeranno di fronte a questioni di diritti di popolazioni locali.
Sarebbe interessante sapere se qualche studente stesse facendo degli studi di economia agraria (bilancio aziendale) per calcolare questi costi e vedere qual è il livello di sussidi che i governi patrocinati queste operazioni devono incorrere. Comunque sia, resta il fatto che le popolazioni locali ci perdono (terra, acqua, produzione e, soprattutto, cittadinanza); i governi che ospitano queste operazioni ci guadagnano ben poco anche loro e quelli che le patrocinano non ci guadagnano economicamente. Per non parlare della mano d’opera servile che proprio è l’ultima a guadagnarci qualcosa. Mi piacerebbe capire da dopve vengano gli elementi per sognare nella win-win situation…. Lo scenario è molto probabilmente quello di un rinnovato sbilancio a favore di chi ha il potere, mentre tanto le popolazioni locali quanto i governi locali son probabilmente destinati a restar fuori dal gioco.
Ma l’altra faccia di questo fenomeno, ancora piú di nicchia per il momento, è la finanziarizzazione dell’agricoltura (guardate il film Small is beautiful di Agnès Fouilleux) . Parlo di quelle produzioni organizzate in funzioni di speculazioni di breve o brevissimo periodo che si stanno manifestando in Argentina sotto il nome di pool de siembras. Stiamo uscendo completamente dalle logiche contadine e/o alimentari. Qui non si tratta piú di produrre per vendere a dei consumatori che, siano locali o nei propri paesi, hanno e avranno fame. Si tratta di speculare sui prezzi, sulla tassa di cambio della moneta, con logiche tipiche da Wall Street ma che erano totalmente aliene al mondo agricolo. Durante la crisi del 2008 abbiamo visto all’opera gli speculatori mondiali e per la prima volta ci siamo resi conto che i movimenti sui prezzi dei prodotti agricoli non dipendono piú solo dalle variazioni climatiche (naturali) ma da speculazioni totalmente artificiali. Ecco adesso assistiamo all’arrivo di un altro modo di speculare incrociando le speculazioni sui prodotti con quelle sui mercati delle monete.
Tutti fenomeni di nicchia, dove comunque sono sempre gli stessi a perderci e in un settore dove, al giorno d’oggi, basta uno stormir di foglie per provocare un panico generale. Le tensioni sui prezzi alimentari continuano mentre osserviamo un aumento dei prezzi della terra nei paesi sviluppati (http://www.agriavis.com/news-4659-face+a+la+future+hausse+du+prix+des+terres+la+saf+prone+une+nouvelle+politique+du+foncier.html poi anche il documentario "Bubble Trouble?" con un capitolo intero su “food prices and farmland” http://downloads.bbc.co.uk/podcasts/worldservice/docarchive/rss.xml e l’articolo sui 15 anni di aumenti quasi continui dei prezzi della terra in Europa http://www.terre-net.fr/actualite-agricole/economie-social/article-safer-prix-terre-europe-marche-foncier-europe-202-63828.html); certi giornali cominciano a parlare di una o piú bolle speculative (http://www.lavieimmo.com/fiscalite-immobiliere/chine-une-taxe-fonciere-contre-la-bulle-10336.html). La domanda che viene quindi spontanea riguarda le vere motivazioni che spingono i fondi pensione, i fondi sovrani, i grandi gruppi industriali e bancari verso questi accaparramenti massicci di terre: non sará forse possibile che stiano diventando anche questi dei piazzamenti finanziari interessanti e che le tensioni speculative rendono questi giochi sempre piú interessanti (nonché aleatori)?
Ci aspettano degli anni difficili da gestire…
(con l'aiuto di Jean Gault)
martedì 28 giugno 2011
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