Dopo un’era geologica iniziata 18 anni fa, arriva a termine il mandato del Direttore Generale della FAO, il senegalese Jacques Diouf. Arrivó al soglio romano in maniera del tutto imprevista, dato che tutti aspettavano il candidato cileno Rafael Moreno. Una certa simpatia circondó all’inizio questo agronomo formatosi in Francia che sembrava portasse un’aria nuova dopo il lungo regno del direttore precedente, il libanese Saouma, che occupó quel posto per un tempo immemorabile. Nessuno pensava che si sarebbe partiti per un “regno” altrettanto lungo. Provare a trarre un bilancio è impresa difficile, ed esula da questa nota, ma forse condividere alcune sensazioni dai piani bassi, dall’interno dell’organizzazione, non puó che far del bene.
Fin dall’inizio provó a tracciare prioritá (relativamente) nuove, una nuova organizzazione, in modo da dare un segnale di cambiamento forte. Una serie di iniziative precedenti al suo mandato vennero sospese, indipendentemente dalla loro importanza politica. Una di loro riguardó la questione della riforma agraria che venne tagliata di netto, tanto da far sparire addirittura il nome (l’ultimo baluardo lo difesi io per 17 anni come redattore della rivista Riforma agraria, colonizzazione e cooperative, anche quella oggi con un nome diverso). Cito questo esempio per dire come certe scelte non furono probabilmente pensate a sufficienza, ed infatti nel 2006 la riforma agraria, buttata fuori dalla porta (con molti dei senior managers FAO ad accompagnare il funerale) eccola rientrare dalla fienstra (cioè da quella realtá di un mondo dove masse sempre piú crescenti sono escluse dall’accesso alle risorse naturali e in assenza di sbocchi alternativi sul mercato del lavoro, hanno rinforzato le fila dei movimenti sociali che hanno, di fatto, reimposto il tema nell’agenda internazionale.
Altre iniziative, come il programma speciale di sicurezza alimentare partí subito con il piede sbagliato: pensare di proporre degli interventi per aumentare la produttivitá in agricoltura senza preoccuparsi della questione dell’accesso e della sicurezza fondiaria, non poteva andare molto lontano. Chi infatti investirebbe dei capitali in un’impresa di cui non è nemmeno sicuro esser il proprietario? Magari poi ci aggiungiamo la marca di un centralismo nelle decisioni, che si mostró fin dall’inizio. Una scarsa capacitá di porsi all’ascolto fece sí che ben presto anche i consiglieri piú stretti, i capi dei dipartimenti tecnici, rinunciarono a mettere in evidenza i difetti di alcuni dei programmi che avrebbero potuto essere meglio indirizzati. Si arrivó cosí ad alcuni scontri epocali con una delle menti piú brillanti di quell’epoca, capo di uno dei dipartimenti chiave, che se ne andó sbattendo la porta con una lettera di critiche molto severe contro il direttore generale. Non fu la prima né l’ultima, ma sicuramente quella che tutti ricordano.
Uno degli errori chiave fu quello di non capire che il personale che ereditava dal periodo precedente era in attesa di segnali di poter finalmente contare qualcosa ed essere ascoltato. Ma non vedemmo mai il direttore generale far un giro al bar o venire a conoscere gli uffici di chi mandava avanti la baracca. Per cui molto rapidamente venne catalogato come uguale al predecessore. Quello che non capí mai è che le nomine, soprattutto ai livelli piú alti, capi dipartimento, direttori di divisione, capi servizio non potevano piú rispondere solo a criteri di legalitá (non parliamo di trasparenza) ma dovevano ispirarsi anche a un concetto che ancora oggi ha molte difficoltá a passare: la legittimitá. Essere nominati ai piani alti non significava (e non significa) essere riconosciuti come dei Leaders. E il risultato fu che queste pratiche, le stesse di sempre, misero nei posti chiave delle persone che, al di lá dei loro meriti e demeriti, furono percepiti come dei “nominati” e non come dei leaders. Per cui la massa dei funzionari non sentí nessun messaggio vero, profondo, di cambiamento, di cui c’era tremendamente bisogno, e continuó tranquillamente con gli stessi ritmi di prima.
Il clima internazionale era diverso: meno fondi, molte piú critiche, una presenza sul terreno ridotta ai minimi termini (causa decisioni di altre agenzie ONU, prese prima che arrivasse alla direzione): tutto contribuí ad annebbiare il panorama molto rapidamente.
Le critiche che gli vennero rivolte forse furono esagerate perché non poteva essere responsabile di tutto; a volte erano strumentali perché certe dichiarazioni erano considerate troppo di “sinistra” e molti paesi del nord del mondo non digerivano l’idea che la FAO potesse “dire una cosa di sinistra” (Moretti dov’eri?). Ritorno al caso della riforma agraria. Quando nel 2006 arrivammo ad organizzare la conferenza mondiale sulla riforma agraria (ICARRD), assieme ai movimenti sociali e senza la banca mondiale, il discorso inaugurale di Diouf era quanto di piú in linea si potesse pensare con il settore progressista FAO: la terra non è solo una merce economica, è storia, cultura, religione, tradizione, un bene ricevuto e da lasciare alle prossime generazioni. Non a caso i primi a salutare i risultati della Conferenza furono i movimenti sociali (La Via Campesina: esiste un prima e un dopo ICARRD) e i primi a reagire contro qualsiasi piano d’azione per implementare i principi accordati furono i paesi del nord, quegli stessi che due anni dopo promossero un processo di valutazione esterna di cosa andava e cosa non andava nella FAO (ma mai che queste valutazioni si etsendano ai paesi emmbri e alla loro parte di colpe). In quello stesso periodo, 2008, Diouf osó dire che l’accaparramento delle terre e celava un rischio di neocolonialismo. Apriti cielo. Non l’avesse mai detto. Il fronte della resistenza si mise in marcia subito, ed anche dentro la FAO molti si rifiutarono di andare avanti nel filone proposto dal nostro direttore generale, preferndo parlare di opportunitá nuove; come se il land grab a cui stiamo assistendo fosse, nella realtá, qualcosa che le popolazioni locali stavano aspettando da anni!
Probabilmente avrebbe dovuto cercare di crearsi una allenza piú forte con i settori progressisti interni (che esistono), promuovere uno stile di management diverso, piú aperto, trasparente e collaborativo, stimolando idee ed iniziative, in modo da rimettere in moto la macchina. Non lo fece, e adesso se ne va lasciando pochi rimpianti. Vediamo cosa succede domani e verso quali cammini ci porterá il prossimo.
sabato 25 giugno 2011
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento