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martedì 19 gennaio 2021

Ripensare l’agricoltura familiare

 

Il concetto di agricoltura familiare è entrato recentemente nel lessico comune, anche se si tratta di qualcosa di antico. Come mi è già capitato di spiegare in altri contesti, una discussione approfondita su cosa fosse e, soprattutto, quale fosse il suo destino storico, si sviluppò alla fine del XIX secolo, all’interno del movimento della socialdemocrazia europea, e tedesca in particolare.

 

Le due tesi contrapposte vedevano da un lato i sostenitori dell’inevitabile scomparsa storica di un modo di produzione che si considerava “capitalista” (metto le virgolette perché bisognava forzare un po’ il concetto per farla entrare lì dentro), mentre dall’altro si sosteneva che non era così semplice e inevitabile e che quindi, i socialdemocratici, avrebbero dovuto interessarsene di più e cercare di capirne i meccanismi di fondo.

 

Per farla breve, vinsero i primi e così, grazie poi a Kautsky, la visione dell’agricoltura “socialista” venne scritta nelle tavole sacre del suo testo “la questione agraria”, che avrebbe dominato per decenni i pensieri degli economisti di sinistra. Nemmeno le evidenze crescenti dei disastri che l’agricoltura collettivizzata produceva nei paesi dove veniva imposta, servirono a far cambiare idea, tanto che, quando inizia la mia carriera in FAO e in particolare il nostro programma in Brasile, ci trovammo in una situazione paradossale: nessuna politica o programma offriva un qualsiasi tipo di aiuto a una realtà economica e sociale molto estesa nel paese e, cosa ancor più inconcepibile, nessun movimento di lotta agrario, tipo il Movimento dei Senza Terra (MST), oppure la Confederazione dei lavoratori agricoli (CONTAG), offriva appoggio politico. Gli agricoltori familiari erano semplicemente abbandonati a sé stessi.

 

Ci mettemmo un po’ di tempo, ma pian piano riuscimmo a far riconoscere la dimensione numerica ed economica di questa realtà e, da questa base, esercitare le pressioni necessarie a far sì che il governo federale mettesse in piedi un programma nazionale per l’agricoltura familiare (il PRONAF che tutti/e gli/le specialisti/e conoscono).

 

Da quel momento, anche i movimenti e i sindacati di base iniziarono a scoprire questo mondo sconosciuto e ad inserirlo, di riffa o di raffa, dentro il loro pantheon. Ma il problema di fondo restava irrisolto, dato che, come aveva mostrato l’evoluzione storica delle agricolture europee occidentali, da piccoli produttori (come tendevano ad essere considerati mondialmente: campesino, pequenho productor, peasant) molti erano diventati dei grandi produttori, mantenendo una struttura essenzialmente familiare, grazie allo sviluppo di macchine e tecnologie sempre più potenti. Quindi la questione di come considerare questa “agricoltura familiare”, restava aperta.

 

Nei paesi europei furono partiti moderati, a volte con forte appoggio cattolico, ad appoggiare da subito questo fronte, perché il nucleo centrale era considerato portatore degli stessi valori di base della Chiesa: la familia, con un suo capo, il pater familias, una donna che lo appoggiava, la madre e sposa fedele, e poi i figli. 

 

Ecco perché ancora oggi le associazioni che hanno promosso l’anno internazionale dell’agricoltura familiare (IYFF-2014), si trovano piuttosto nello schieramento moderato. Gli altri, quelli di “sinistra”, hanno dovuto associarsi, ma non ne sono i protagonisti, nello stesso modo che sono arrivati tardi con parecchi altri temi, come la questione indigena, la questione ambientale e finanche la questione femminile.

Chiariamo subito che, malgrado un anno di discussioni accese durante il IYFF-2014, non si è arrivati ad una definizione univoca, per cui i margini concettuali variano da paese a paese e, soprattutto, da lingua a lingua. 

 

Con gli anni, la difesa di questo tipo di agricoltura ha preso corpo a partire da due tematiche, essenzialmente economiche: da un lato la produttività unitaria, e dall’altro la creazione di posti di lavoro. Oggigiorno anche la Banca mondiale ha dovuto arrendersi e riconoscere che le AF (diverse nel mondo) possono avere delle produttività ben superiori alle agricolture capitaliste, le quali beneficiano di appoggi finanziari e politici tali che, altrimenti, sparirebbero. Lo vediamo molto bene in Europa dove l’essenziale degli aiuti della PAC sono estorti dagli imprenditori agricoli di grandi dimensioni, la cui tendenza è di diventare parte di conglomerati finanziari il cui unico scopo è il tasso di profitto immediato.

 

Pian piano anche l’argomento ecologico è entrato a far parte dell’armamentario degli strumenti di difesa delle AF. Anche se in forte espansione, l’agro-ecologia resta ancora una opzione largamente minoritaria, dovuto al fatto che nei piani della politica nazionale, europea e internazionale, le lobbying contrarie a questa evoluzione sono fortissime.

 

Riassumendo quindi la situazione, difendere la (o le) AF, è considerato genericamente di sinistra o almeno di centro-sinistra, anche se poi si possono trovare molti sostenitori nei settori moderati della società. Diciamo che i partiti e movimenti di sinistra, italiana, europea o mondiale, hanno preferito nascondere sotto il tappeto le loro analisi storiche sbagliate precedenti, far finta di nulla, e ricostruirsi una specie di verginità associandosi a una tendenza mondiale generale. Chi da parte moderata appoggiava la AF, non ha avuto bisogno di muoversi: li stava e li è rimasto.

 

Discutere quindi di quale sia il nocciolo del problema, quindi, interessa poco le forze politiche e sociali tradizionali. Da sinistra perché non avendo capito storicamente cosa fosse questa AF, aprire questa discussione significherebbe dover tirar fuori tutta la storia precedente di appoggio alla collettivizzazione, mentre da parte moderata semplicemente non si vede cosa ci sia da discutere.

 

Il fatto che queste AF siano sempre più marginalizzate, malgrado la loro importanza mondiale, sembra non interessare nemmeno il/la cittadino/a lambda per cui quello che conta è comprare al minor prezzo possibile. Cosa per cui, se la Grande Distribuzione Organizzata tratta da strozzini i produttori familiari, costringendoli a prezzi sempre più bassi, questo non indegna nessuno. Quello che risparmio sul cibo lo posso investire nel nuovo iPhone in uscita.

 

Eppure, proprio adesso, credo sia arrivato il momento di andare oltre, e cominciare a riflettere un po’ su cosa ci sia dietro a questo concetto.

 

Non ci sono dubbi che, per noi europei, il boom sia legato ai miracoli che le nostre agricolture sono state capaci di fare dalla fine della seconda guerra mondiale al 1960, portando l’Europa occidentale da una situazione di deficit alimentare cronico ai primi surplus strutturali. Fu possibile farlo copiando il modello che ci venne offerto dagli Stati Uniti: il Farmer, tecnologicamente avanzato, con trattore e tutti gli altri attrezzi meccanici di nuova invenzione o recente miglioramento, la chimica e le sementi migliorate. Basti poi dire che questo Farmer era bianco, e cattolico (protestante). Insomma, aveva tutto per piacere. Il Farmer, individualista per antonomasia, lavorava duro tutto il giorno e la Moglie (e Madre fedele) lo assecondava in tutto, occupandosi di fare e tirar su i figli, della cura della casa, dell’orto, dei piccoli animali etc.etc.

Se per il mondo “comunista” questo esempio era da evitare a tutti i costi, per gli altri era un esempio perfetto. La montagna di soldi che arrivò assieme al “modello”, e i risultati ottenuti, convinsero anche i più scettici su chi avesse ragione.

 

Ma quello che sembrava un mondo antico immutabile, modernizzato dalla tecnologia ma fermo nella sua struttura interna, cominciò a dover fare i conti con realtà esterne fatte di società in movimento, lento, ma sicuro. La fine degli anni 60 e i decenni successivi videro l’emergere della figura femminile come portatrice di una individualità che chiedeva di essere riconosciuta, sia nel fisico (chi non ricorda, in Italia, lo slogan “l’utero è mio e lo gestisco io”?) che nel diritto. Pian piano arrivarono riforme importanti, strutturali diremmo oggi, come il diritto al divorzio, all’aborto e la riforma del codice di famiglia. Passi importanti che, partiti dal mondo occidentale, contro le ovvie resistenze della gerarchia cattolica, pian piano cercano la loro strada anche altrove nel mondo.

 

Ci vorrà tempo, anni e forse decenni, ma una volta tanto mi verrebbe da scommettere sul senso progressivo della storia: indietro non si torna!

 

Tanti cantieri sono aperti al giorno d’oggi, ma nel settore agricolo sembra ancora confermarsi una matrice conservatrice. In alcuni paesi si è arrivati alla co-titolazione della terra e, più in generale, alla possibilità per i figli di ereditare le proprietà familiari in parti uguali indipendentemente dal sesso. Ricordiamo che la legge salica, che prevedeva di lasciare tutto all’erede maschio, l’hanno inventata i francesi, mica i marziani!

 

L’emergere della questione femminile sembra quindi destinata inevitabilmente ad entrare nei circoli delle associazioni e movimenti contadini che si prefiggono di lottare per un domani migliore. Da parte mia ci sto provando, all’interno dell’associazione di cui faccio parte e che si occupa della governance delle risorse naturali, terra in primis. Il mio punto fiso da parecchi anni a questa parte, è che non possiamo proporre approcci allo sviluppo rurale o territoriale che non tocchi la questione delle dinamiche di potere. Per decenni ci si è sforzati di far finta di nulla, di svuotare i concetti di partecipazione fino a farli diventare delle manipolazioni senza altro esito che un peggioramento non solo nelle condizioni dei più poveri ma, anche e soprattutto, una perdita crescente della fiducia da parte delle persone coinvolti nei confronti dei proponenti, siano essi agenti delle nazioni unite, come la FAO, di agenzie bilaterali, governi o ONG.

 

Il punto chiave è quello lì: il potere, le sue dinamiche e le asimmetrie che si creano. Se non ci si impegna a capirle e a combatterle, il risultato finale sarà solo peggiore. Un assioma, che non necessita di dimostrazione.

 

Ecco perché dobbiamo aprire la cassa familiare, sede storica di asimmetrie di potere, costruite nei secoli di dominazione maschile rafforzate da poteri religiosi e politici che hanno strutturato in modo impeccabile, nel linguaggio, cultura, usi e costumi, questa mancanza di uguaglianza. Giusto per ricordare ancora una volta i cari cugini francesi, basta leggere i proclami della rivoluzione dell’89, e vedrete come la donna semplicemente non era considerata.

 

Quindi non possiamo più considerare come una base comune accettabile la “familia” per analizzare l’AF. Dobbiamo andare oltre. Dinamiche di potere asimmetrico non si guariscono da sole. Difendere la (o le) AF, senza andare oltre, vuol dire semplicemente appoggiare lo status quo. E questo non è più accettabile. Quindi, cari amici e amiche, al lavoro!

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