Visualizzazioni totali

lunedì 19 aprile 2021

Uguaglianza e Femminismo nel mondo agrario: cominciamo col mettere ordine in casa


 

Il mondo agrario a cui faccio riferimento è quello che si occupa di quel soggetto mai completamente chiarito che, nelle varie lingue, chiameremmo: Terzo Mondo, PVS, e a quelle entità come la nostra Cooperazione allo Sviluppo, e più in generale chi dice di occuparsi di “Sviluppo Agrario” o temi simili. Li dentro troviamo tanto individui che organizzazioni, dalle più piccole ONG locali ai grossi transatlantici delle ONG mondiali, Università, Governi, Agenzie ONU e Agenzie governative di sviluppo, Banche e Fondazioni, movimenti contadini e un buon numero di esperti/e nei vari temi specifici che costituiscono l’armada dei/lle consulenti. Tanti e diversi attori/trici con agende e impostazioni diverse e magari anche politicamente opposte.

 

All’interno di questo mondo, una parte consistente ha iniziato ad interessarsi della questione femminile in agricoltura (intesa nel senso lato, inglobando pesca, foresta e tutto il resto) già da alcuni decenni, chi spinti da interessi di tipo intellettuale e chi invece da “mode” dettate dai donanti del nord ed infine da chi vede in questo tema una dimensione politica di potere da cercare di controllare.

 

Un mondo molto variegato dove non è sempre facile capire quali siano le vere ragioni, gli interessi profondi al di là delle posizioni ufficiali espresse attraverso pubblicazioni, siti, video e altro materiale di propaganda. 

 

L’unica cosa sicura è che, 26 anni dalla Conferenza di Pechino del 1995, la condizione della donna in agricoltura non è granché migliorata e che la stessa terminologia “femminista” stenta a prendere piede. 

 

Dopo aver frequentato questo mondo per oltre 30 anni, sto ancora cercando i perché le differenze tra i desideri, le volontà comuni delle dichiarazioni ufficiali di tutti questi attori e le realtà concrete che vivono le donne in campagna, siano ancora così grandi. 

 

Un’idea ce l’avrei a dire il vero, ed è un’idea che a sua volta si declina in varie piccole idee che pian piano si fanno strada nella mia mente. Non che con questo pretenda siano delle verità, ma metterle per iscritto mi serve per vederle meglio, rifletterci e spingere più avanti la riflessione critica. Tutto ciò perché, assieme ad alcune amiche/colleghe, stiamo lavorando a un libro su questi temi che vorremmo scrivere entro la fine di quest’anno.

 

A forza di leggere e vedere video e/o webinar/riunioni, direi esiste una consapevolezza abbastanza condivisa sul fatto che esista una separazione netta tra quella che viene comunemente chiamata la sfera pubblica (dove il protagonismo dominante è maschile) e la sfera privata (familiare in altri termini, dove resta ancora largamente dominante il ruolo femminile). Anche il fatto che questa seconda sfera sia poco valorizzata, comincia ad essere una verità accettata da tutti. Per venirne fuori, chi ha i mezzi, terziarizza le attività ad altri soggetti (praticamente sempre femminili procedenti da paesi esteri più poveri o da classi sociali meno abbienti): che si tratti della cura degli anziani (prendendo una “tata”), dei lavori di casa, pulizia, lavatura e stiratura e/o di cucina. L’unico sub-settore dove in genere la terziarizzazione è maschile (sempre parlando di famiglie abbienti, rurali o cittadine) è quello della cura del giardino e/o dell’orto.

 

La soluzione di far fare ad altri i lavori della sfera privata riguarda però una percentuale infinitesimale delle famiglie, di classe medio-alta e non può seriamente essere pensata come la soluzione alla preoccupazione del pensiero femminista. Certo c’è anche chi la pensa così, ma questa scuola di pensiero, conosciuta come del femminismo neoliberista, con le sue incarnazioni riconosciute in Anne Marie Slaughter e Sheryl Sandberg, non è esattamente il mondo che mi interessa.

 

Va comunque detto che anche se anche ci fossero le risorse disponibili per terziarizzare, questo non cambia di una virgola il rapporto sociale uomo/donna, con la dominazione del primo, all’interno del nucleo familiare (con tutto quanto significhi poi in termini di violenza fisica o psichica...).

 

Quindi questa non può essere la strada da intraprendere. D’altronde lo abbiamo già visto quando, alla fine del secondo dopoguerra, sono arrivate le novità tecnologiche di lavatrici, asciugatrici e simili, che se hanno ridotto il tempo (delle donne) per queste attività, non hanno però permesso di guadagnarci in termini di libertà di tempo e pensiero da dedicare a loro stesse. Semplicemente, migliorando la loro “produttività” familiare, sono state caricate di altri compiti.

 

Questa lunga introduzione era necessaria per capire che il problema della sfera privata deve trovare soluzioni all’interno di chi quella sfera l’ha creata. In inglese si direbbe che è un man-made problem, per cui anche la soluzione deve essere man-made. Anche se in questo senso il “man” non significa specificatamente “uomo” ma essere umano in generale, noi insistiamo piuttosto sull’accezione “man=uomo” perché è da lì che vogliamo partire.

 

Il punto di partenza è il considerare le due sfere (privata e pubblica) parte di una stessa unità: una ha bisogno dell’altra anche se, probabilmente, è la sfera pubblica ad avere maggior bisogno della sfera privata che l’inverso. Malgrado questa evidenza, quando si passa in revisione il materiale prodotto dai vari attori/attrici, ci si rende conto che domina in maniera schiacciante una sola direzione: che le donne escano dalla sfera privata ed assumano ruoli e compiti più importanti nella sfera pubblica. La variabile chiave però, al di là di tutto quanto riguarda il rapporto di dominazione uomo/donna, resta il tempo. La giornata resta fissa a 24 ore, per cui, chi ha già un’agenda piena di cose da fare (produttive-riproduttive includendo la cura dei famigliari e degli anziani, cucinare, lavare, stirare, mettere in ordine, fare la spesa, tenere i conti in ordine, etc. etc.) difficilmente riesce a trovare il tempo (nonché la forza, la volontà, la capacità) di potersi dedicare ad altro (e sempre ammesso che le porte per entrare ai livelli superiori si aprano facilmente, il che è ben lontano dalla norma). Le uniche idee che sono state proposte sono quelle che portano ancora una volta al femminismo neoliberale e cioè terziarizzare i compiti “domestici”, cioè farli fare a qualcun altro per liberare del tempo e farne quel che si vuole. Di fatto, grazie anche a salari di miseria pagati al personale che si occupa di questi lavori, anche una parte della classe media (progressista o meno) ha scelto questa strada, come possiamo constatare nei tanti anni di lavoro. Quanti colleghi (maschi) che lavoravano nella mia stessa organizzazione nella sede di Roma dicevano – e spesso facevano – di voler tornare dalle loro parti nel sud del mondo dato che potevano permettersi di avere 2-3 persone a servizio, così da rendergli la vita più agevole, mentre qui in Italia “costavano troppo”.

 

Quale alternativa al modello del femminismo neoliberale?

 

Se siamo d’accordo che un punto chiave sia quello di liberare del tempo per la donna nella sfera privata (dopodiché starà a lei di scegliere il cosa farne), dobbiamo pensare a proposte diverse da quelle che il modello di “sviluppo” attuale ci ha proposto: la tecnologia prima (per aumentare la produttività familiare della casalinga) e la terziarizzazione poi (che riporta su altre donne i compiti che prima toccavano alla casalinga, così girando in tondo senza uscirne).

 

La risposta semplice dovrebbe essere quella di portare di più l’uomo dentro la sfera privata. Dovrebbe essere un’affermazione banale, ma non lo è, tanto che anche i movimenti contadini più estesi a livello mondiale, girano al largo da questo aspetto. Decenni di lavoro nel settore mi hanno portato a credere che il fatto che queste organizzazioni, dai movimenti contadini fino alle agenzie ONU e/o ai vari governi, siano generalmente dominate da una cultura maschilista (che a volte può avere anche sembianze fisiche femminili), non sia estraneo alla visione limitata e insufficiente che propongono rispetto al problema.

 

Per affinità politiche sono andato a cercare con più insistenza nel mondo delle organizzazioni “progressiste”, dalle ONG cattoliche ai movimenti come La Via Campesina, passando per quelle che si occupano di lavoratori o produttori agricoli. Prendiamo la LVC essendo la più grande e quella che maggiormente pretende aver dato una svolta di “genere” nel loro modo di essere.

 

Invito quindi a (ri)leggere questo testo apparso sul sito della ONG italiana Crocevia, parte integrante de LVC: https://www.croceviaterra.it/donne-e-lgbt/invisibili-donne-rurali/

Il fatto che il lavoro speso nella cura della collettività sia da sempre considerato un “dovere sociale”, con ciò non considerandolo un lavoro produttivo, viene ascritto a quello che dice la FAO. Il problema inizia subito dopo, quando la soluzione che viene proposta è quella della “retribuzione”. Grazie al lavoro di lobbying da loro esercitato, si è così arrivati alla approvazione “dal Consiglio dei Diritti dell’ONU la Dichiarazione dei Diritti dei Contadini e di tutte le persone che vivono nelle Zone Rurali (UNDROP), presentata dalla Via Campesina e altri movimenti sociali internazionali.” Pur riconoscendo che “le donne che sono vittime di violenze sessuali, domestiche e di molestie, vengono lasciate da sole, senza alcun tipo di assistenza o possibilità di denuncia sociale”, la soluzione è quella di un “salario equo”.

 

Si continua poi con i soliti richiami alla resistenza contro il capitalismo (che in questi anni più recenti è diventato il capitalismo patriarcale), ricordando poi i diritti collettivi alle sementi e alla terra.

 

Il punto che vorrei far notare e che manca completamente nelle riflessioni globali de LVC (anche se al suo interno ci sono donne che spingono su questo tema) è il necessario cambio di passo che dovrebbe portare l’uomo (un uomo diverso) ad entrare nella sfera privata ed assumere una parte uguale dei compiti dati alle donne. Un uomo che dovrebbe cambiare, perché se le donne in famiglia sono vittime di violenza, questa è violenza maschile, dei loro coniugi. 

 

Questo è il solo modo possibile per liberare tempo delle donne per far sì che possano entrare nella sfera pubblica. È il principio dei vasi comunicanti. Certo che far scendere l’uomo dal suo piedistallo è un compito duro. Che sia ricco o povero, il piedistallo ce l’ha sempre, e la donna sta sempre sotto. Quindi se vogliamo che la donna da sotto possa entrare nel mondo di sopra, serve chiaramente un cambio culturale, educativo, ma non solo per quanto riguarda la formazione delle donne; altrettanto va fatto per far cambiare l’uomo. 

 

Che si tratti di un obiettivo di lunga portata non ho difficoltà ad ammetterlo; poi penso però a quali sono gli obiettivi di questi movimenti: abbattere il capitalismo! E allora mi vien da sorridere. Direi che, al pari delle religioni, anche i movimenti contadini aspirano (e giustamente) a un domani migliore (i famosi “lendemains qui chantent” come ricordava un mio vecchio professore René Dumont). Ma è un domani che tarda ad apparire, anche se questo non toglie la voglia di battersi. Ecco, io penso che sarebbe doveroso cominciare da qui. Il mio caro amico Octavio mi ripeteva anni fa quanto fosse importante “ordenar su casa” (mettere in ordine in casa propria), prima di andare a criticare gli altri per quelle stesse cose che non facevamo a casa nostra.

 

Suggerirei quindi di partire da questo slogan semplice: “ordenar su casa”, cioè un cambio all’interno dei movimenti contadini, ONG e tutti quelli che pretendono avere qualcosa da dire sulla questione dell’uguaglianza di genere, che parta quindi da sé stessi, dal come ci poniamo, noi maschi, rispetto alle mogli e/o compagne con cui condividiamo casa e vita. 

 

Questo sarebbe una vera rivoluzione, un gesto che, contando i milioni di aderenti che LVC dice di avere, potrebbe avere ripercussioni non da poco nel mondo agrario.

 

Per fare questo però forse servirebbe un cambio di mentalità, un mettersi all’ascolto degli altri, un rinunciare a qualche piccola porzione di potere. Accettare di guardarsi dentro per iniziare a cambiare noi stessi, per poter dire a testa alta che quello che gridiamo come slogan è quello che facciamo nella vita quotidiana.

 

Immaginate anche le ripercussioni che questo potrebbe avere all’interno del mondo religioso: se i militanti contadini di queste associazioni/movimenti accettassero questa sfida, da un lato porterebbero nuova linfa (in questo caso le donne), ma anche obbligherebbero i leader religiosi, iniziando dalle loro comunità e parrocchie, a ripensare le loro teologie. Dio odia le donne, scrive Giuliana Sgrena (Il Saggiatore, 2016), e ci spiega bene come si sia costruita storicamente questa dominazione. Proviamo a cambiare partendo dal basso.

 

 Insomma, un piccolo (grande) passo che potrebbe magari provocare qualche cambiamento anche ai piani superiori, forse anche più degli slogan ripetuti contro un modello capitalista da abbattere, ma che, alla fine dei conti, viene mantenuto nella sua forma basica di dominazione dell’uomo sull’uomo (n questo caso, la donna), anche all’interno delle famiglie dei militanti per la causa dell’uguaglianza.

 

Cambiamo il sistema, abbattiamolo anche: ma cominciamo da casa nostra prima! 

Nessun commento:

Posta un commento