PG, 14 giugno 2025
Per chiarire l’obiettivo ultimo della proposta che portiamo avanti con IPAD, prendiamo a prestito una frase di Rita Palidda: “[r]ivoluzionare la concezione che le nostre società hanno del rapporto tra lavoro produttivo e lavoro riproduttivo è lo strumento più efficace per operare in profondità sul superamento delle disparità di genere, oltre che su un’idea di società più libera e solidale.” (in Palidda, R. (2020) Lavoro gratuito e disuguaglianze di genere, SocietàMutamentoPolitica 11(22): 129-142).
L’angolo di attacco che proponiamo è centrato sul tempo e la sua modulazione tra le infinite attività “domestiche”, con la volontà dichiarata di far aumentare il tempo maschile per poter ridurre il tempo femminile.
Palidda, ricordando i dati della rilevazione Istat sui tempi della vita quotidiana, indica in 3h46’ il tempo medio dedicato dai residenti italiani (maggiori di 15 anni) al lavoro non retribuito, con una differenza molto evidente fra il carico femminile (5h09’) e quello maschile (2h16’). Non abbiamo bisogno di comparare i dati nostrani con gli altri paesi europei per concludere che la mole di lavoro familiare in Italia è maggiore e grava essenzialmente sulle donne.
Nel sistema capitalistico il lavoro è considerato produttivo non in quanto produce valori d’uso, ma in quanto produce merci, il cui prezzo copre sia i costi di produzione, sia il surplus che alimenta profitti e investimenti. La produzione finalizzata all’autoconsumo, le attività prestate gratuitamente nelle organizzazioni benefiche, nei circuiti di vicinato o comunitari e l’enorme lavoro svolto all’interno delle famiglie diventano irrilevanti e risultano invisibili le interdipendenze tra queste attività e la produzione per il mercato.
L’evoluzione del sistema produttivo capitalista ha portato nel corso degli anni a far sì che una serie di caratteristiche tipiche del lavoro di riproduzione sociale diventasse parte costituente del lavoro salariato. Questo travaso dal “privato” al “pubblico” ha riguardato la relazionalità, il coinvolgimento emotivo, l’identificazione, la disponibilità a non considerare limiti di orario e di luogo di svolgimento, la capacità di auto organizzarsi, la responsabilità. Alisa Del Re parla, a questo proposito, del passaggio dal lavoro d’amore (tipico del lavoro “domestico”) all’amore per il lavoro, saltando i confini dei tempi, dei luoghi e delle pratiche che separavano il lavoro gratuito dal lavoro salariato» (Del Re A. (2018), Dall’inchiesta operaia all’inchiesta femminista: l’emergere del lavoro riproduttivo, Euronomade, sett. 19.).
Perché abbiamo intrapreso questo cammino che ci ha portato alla proposta di un Indicatore di Parità Domestica (IPAD)?
Dovendo priorizzare le tante ragioni, direi che la principale è legata all’emergere del mito della casalinga di professione, moglie, madre e consumatrice perfetta, un mito creato nell’America del secondo dopoguerra, quando la società dei consumi ha invaso anche le nostre praterie. L’esempio più lampante è quello di Marion Cunningham, la mamma di Ritchie (il mitico Ron Howard) nella serie con sui quelli della mia generazione sono cresciuti: Happy Days. A completare il quadro idilliaco della casalinga di professione, c’era il padre Howard Cunningham, il breadwinner della situazione, che garantiva il benessere e la sicurezza. Per alcuni decenni, grazie alle lotte portate avanti dal movimento femminista, anche la retrograda società italiana ha fatto passi avanti, con la lege sul divorzio, la riforma del codice civile, la legge sull’aborto, etc. I partiti politici, così come i movimenti più a sinistra, hanno dovuto far spazio, malgrado loro, a un nuovo protagonismo femminile le cui basi le troviamo nel libretto di Mariarosa Dalla Costa Potere femminile e sovversione sociale del 1972.
I tempi cambiano, e la storia non va necessariamente verso un futuro migliore, ed è così che da qualche anno assistiamo al ritorno del mito delle casalinghe di professione sotto l’egida del movimento Trad Wives (vedi: https://www.restartrivista.it/lo-tsunami-trad-wives-e-la-cecita-della-sinistra-italiana/restartadmin/?fbclid=IwZXh0bgNhZW0CMTAAAR3VUqj5GbKDCJ5Uz2etlDYNEf1TdnDvB_Vg4T0ZcpVzNXn_T68er9Kxazs_aem_S3jfDV649okncw7IGoNcJg).
Nell’ambito accademico le riflessioni sul tema del lavoro salariato e gratuito sono continuate; l’aspetto per noi più importante è venuto dalle riflessioni della sociologa americana Parsons relativamente alla complessità del lavoro familiare. Riprendiamo Palidda, quando scrive: “Il lavoro familiare non è riducibile né alle prestazioni esclusivamente affettive, né a quelle domestiche più elementari. Infatti, alle mansioni più semplici e dequalificate del lavoro domestico si intrecciano mansioni specializzate che implicano conoscenze sanitarie, psicologiche, pedagogiche e, soprattutto, esso si basa sulla capacità di risolvere i mille problemi della vita quotidiana, di tessere relazioni, di connettere la famiglia alle altre istituzioni sociali.”
Questa complessità ci ha fatto prendere una direzione che, a nostro giudizio, mancava nel dibattito, e cioè come creare un meccanismo di advocacy che, partendo dalla conoscenza misurata scientificamente dello squilibrio interno tra lavoro femminile e lavoro maschile nella sfera domestica, potesse servire per spingere questi ultimi ad investire una porzione maggiore del loro tempo, così da liberare tempo femminile.
Siamo fiduciosi che, così come è successo nei decenni precedenti, la società italiana sia globalmente più avanti dei partiti e istituzioni pubbliche, e che, malgrado i tempi indichino un ritorno a un conservatorismo bieco, le speranze che le nuove generazioni siano più sensibili a queste tematiche, ci sembra un’ipotesi plausibile.
Siamo anche coscienti che il maggior impegno che sembra essere proposto dai maschi più giovani sia per il momento concentrato su compiti meno gravosi, come ce lo ricorda Palidda citando la rilevazione Istat: “L’attività che impegna più i padri è quella di giocare con i bambini e in misura minore l’aiuto nello svolgimento dei compiti, la lettura, l’accompagnamento.
Si può dire che, anche quando collaborano al lavoro domestico e di cura, gli uomini scelgono le attività meno pesanti e routinarie: fare la spesa, occuparsi della manutenzione della casa, giocare con i figli o al più (e in misura molto più modesta) far fare loro i compiti, mentre le loro partner lavano, stirano, puliscono, curano fisicamente i figli e li controllano.”
Un’adeguata quantità e qualità di cure sono determinanti perché la società garantisca la riproduzione di individui capaci, fisicamente e intellettualmente, di svolgere un’attività produttiva, in grado di rispettare regole e norme morali e di cooperare con i propri simili e con le istituzioni.
Ecco perché la proposta IPAD va nella direzione di uno dei piani di lavoro proposti da Palidda: uno istituzionale, destinando risorse che ne evidenzino la rilevanza sociale e l’obbligo per lo Stato e le aziende di assumersene il costo, attraverso il potenziamento quantitativo e qualitativo dei servizi; un piano individuale, creando le condizioni perché i compiti di cura siano assunti da tutti, come scelta di valore e di responsabilità (e qui è dove ci inseriamo noi), e un terzo piano sociale, favorendo la sperimentazione di forme condivise di gestione della cura.
Per fare in modo che questo piano funzioni, è fondamentale la scelta dei partner con cui lavorare. Ecco perché la nostra ricerca va nella direzione di partiti, movimenti, sindacati che abbiano già manifestato un interesse per questa tematica, così che il lavoro di sensibilizzazione interna risulti più facile. In questo senso la prima collaborazione in corso, con il Partito della Rifondazione Comunista Sardegna, conferma la bontà della scelta. Altre iniziative sono allo studio, sia con altri partner per testare l’IPAD nella realtà quotidiana, ma anche con persone e gruppi di riflessione che permettano di andare avanti nell’analisi e miglioramento della proposta.